25 Maggio 2023 Da Rassegna di Arianna del 22-5-2023 (N.d.d.) “8 Autori su Theodore Kaczynski” di Andrea Larsen- Primo saggio critico sul pensiero dell’uomo passato alla storia come Unabomber- War-Wave Editore, maggio 2023 Pagine 218 https://andrealarsen.it/libri/8-autori-su-kaczynski/ Questo è il primo libro dedicato interamente a Theodore John Kaczynski, meglio noto come Unabomber, il genio matematico ricercato per 18 anni in tutti gli Stati Uniti, arrestato nel 1995 in una capanna del Montana e successivamente condannato all’ergastolo per aver causato la morte di tre persone con le sue bombe inviate per posta. Il suo libro principale, detto Manifesto di Unabomber, è stato pubblicato in versione integrale in lingua italiana dalla Casa Editrice War-Wave nel 2021. Otto Autori diversi e di diversa formazione, otto pareri scritti in modo indipendente, ma che hanno in comune qualcosa: Unabomber ci ha azzeccato in pieno. Trent’anni dopo l’uscita del suo libro principale i fatti gli stanno dando pienamente ragione. I temi cari a chi era stato uno stimato Professore di Berkeley sono la priorità della Natura, la follia della società industriale-tecnologica, la degenerazione psichica e sociale dell’Occidente, l’immancabile fine di questa civiltà. I “benpensanti” lo hanno considerato un pazzo, lui, genio della matematica e della razionalità. Avrebbero dovuto preoccuparsi, perché aveva usato una metodologia di pensiero completamente accettata dalla cultura corrente. Infatti Kaczynski non è un “profeta”, un “veggente”, un astrologo, uno che vede il futuro “in trance”: si tratta di proiezioni in avanti di un matematico di grande valore. I “benpensanti cartesiani”, i fedeli seguaci del sistema, dovevano preoccuparsi e agire di conseguenza, invece hanno preferito considerarlo un “pazzo”. Era un esperto dei sistemi complessi, che diventano sempre ingovernabili oltre un certo orizzonte temporale. Ma nessuno lo ha ascoltato. Ha ammazzato tre persone per veder pubblicate le sue idee, è scampato per un pelo alla condanna a morte. Ciò non toglie che la civiltà industriale-tecnologica, come sistema complesso, è attualmente ingovernabile e destinata al collasso. La politica è del tutto ininfluente: l’ex-professore di Berkeley mette ripetutamente in guardia dalle “illusioni sinistroidi”, che sono sempre presenti più che mai in questa civiltà industriale-tecnologica che ha invaso tutto il mondo. Il libro è anche un avvertimento. Come uscirne? Una rivoluzione? Se andiamo alla radice di pensiero di questa civiltà, troviamo quattro miti (dall’articolo Perché la spinta alla crescita è così potente da aver invaso tutto il pianeta? (ariannaeditrice.it) di Gloria Germani):- Il mito del tempo lineare della storia e del Progresso; - Il mito della materia (un oggetto separato dal soggetto che lo studia) che è il fondamento del pensiero scientifico meccanicista con i suoi derivati: specializzazione, tecnologia, industria; - Il mito della scienza cartesiana-newtoniana dominante dall’Ottocento in poi; - Il mito dell’Ego, proclamato dal pensiero occidentale (Cogito. Ergo sum) come separato dal mondo ed esaltato anche tramite la pubblicità. In sostanza, questi miti sono nati dall’idea, gonfia di superbia, di essere separati e diversi dalla Natura, di cui invece facciamo parte integrante, come specie animale, come cellule di un Grande Organismo. Ma allora, quale tipo di rivoluzione è necessaria? Guido Dalla Casa
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Regressione dell'intelligenza umana |
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23 Maggio 2023 Da Rassegna di Arianna del 13-5-2023 (N.d.d.) L’Intelligenza artificiale è un pericolo mortale. A dirlo preoccupati, anzi spaventati, non sono teologi apocalittici, luddisti antimoderni o filosofi tradizionali, ma i due padrini dell’IA, Yoshua Bengio e ora Geoffrey Hinton, già insigniti di quello che viene definito il Nobel dell’informatica, il Turing Award. I pentiti dell’IA lavorano per i colossi dei social: Hinton ha lasciato Google con la sua denuncia, ma anche Roger McNamee, lasciando Google, aveva denunciato la dipendenza dai social prodotta dagli usi invasivi dell’intelligenza artificiale, paragonandola alla tossicodipendenza. O Antonio Garcia Martinez, altro cervello in fuga dal cervellone tecnologico dei social, che vorrebbe non aver mai sviluppato quelle tecniche nocive. Gli effetti prodigiosi delle sue applicazioni, la velocità con cui si propagano i suoi poteri e i suoi effetti, rendono sempre più stridente il confronto tra l’espansione tecnologica e la capacità di gestirla. Quella che in altra epoca Gunther Anders, scrivendo de “L’Uomo è antiquato”, definì “il dislivello prometeico” tra tecnica e intelligenza umana. A cavallo degli algoritmi, l’Intelligenza Artificiale sta facendo passi da gigante nella sostituzione dell’intelligenza umana e va fermata, come si fermano le armi chimiche o letali. Così dicono i suoi padrini, inventori e propagatori pentiti. Parallelamente siamo sempre più indifesi dall’uso distorto o malvagio dell’IA da parte di hacker privati e colossi globali o di organismi pubblici, servizi segreti, stati canaglia, dittatori. Il tema che l’IA cancellerà migliaia di posti di lavoro è solo un risvolto secondario e compensabile rispetto ai danni irreversibili che può produrre sul piano della sicurezza, della libertà e soprattutto dell’intelligenza umana. Non è l’Intelligenza artificiale in sé che ci spaventa ma l’umana idiozia, l’incapacità di padroneggiare le cause e gli effetti, il delirio di onnipotenza tecnologica, che sono complici entusiasti di questo potere assoluto e potenzialmente totalitario, senza freni. Qual è il pericolo dell’intelligenza artificiale? La sostituzione del mondo reale, delle identità e della natura, con una grande bolla in cui sparisce la realtà, e tutto ciò che la costituisce: la storia, il pensiero, la vita, la presenza, il corpo, la natura. Ma tutto questo potrebbe ancora rientrare nel rischio dell’avventura umana, nella scommessa dell’intelligenza che sa osare e cavalcare la tigre della tecnica. L’uomo deve saper rischiare se vuol conoscere, migliorare le condizioni di vita, sviluppare la ricerca e i suoi risultati. Ma se consideriamo il contesto in cui avviene oggi questa scommessa, allora nasce la preoccupazione. La crescita rapida ed espansiva dell’Intelligenza Artificiale coincide infatti con la decrescita altrettanto rapida e regressiva dell’Intelligenza umana, delle sue connessioni vitali e mentali con la storia, con la tradizione, con il linguaggio, con la capacità di progettare il futuro e governare i cambiamenti; la ritirata del pensiero, oltre che della religione, il declino dell’arte e l’atrofizzazione progressiva, come in una paralisi, delle facoltà naturali, socievoli, lessicali e intellettuali dell’uomo e il calo progressivo e allarmante del Quoziente Intellettivo. Cresce la tecnica e decresce la cultura, cresce l’artificiale e sparisce il naturale, cresce il robot e declina l’umano. Si ingigantisce la forbice tra tecnica e sapere, il mondo artificiale si espande mentre si contrae la nostra capacità di conoscerlo, di capirlo e dunque di governare gli effetti. Il pericolo non è dunque il golpe delle macchine, o semplicemente la pirateria informatica, o come qualcuno dice, l’uso che può farne il Putin di turno, ora additato in Occidente come nemico n.1 dell’umanità: ma l’autogoverno dell’Intelligenza Artificiale con la complice stupidità umana, infatuata per le macchine e per il virtuale. E dunque la perdita dell’umanità, il fatalismo tecnologico che pervade la nostra epoca, secondo cui non si può fermare o frenare nulla né cambiare corso. Se il procedere è automatico e inarrestabile, non c’è più libertà, intelligenza e dignità umana. Non è l’Intelligenza Artificiale in sé il pericolo ma la disumanizzazione radicale che si attua anche tramite essa. Non è una preoccupazione stupida. E comunque meglio restare uno stupido umano, anziché un idiota servitore e collaborazionista del robot. Qui la riflessione si fa inevitabilmente filosofica. La scienza non è fede ma ricerca, non è una religione con i suoi dogmi e i suoi comandamenti ma va sottoposta al vaglio critico. Sapere è potere, diceva Bacone, e lo ripete da secoli tutto lo scientismo militante. È vero, ma ci sono anche altre due forme importanti di sapere: da una parte è il sapere di non sapere, ossia la consapevolezza che ci sono cose che non sappiamo e non possiamo sapere: è il “so di non sapere” di Socrate, la dotta ignoranza di Nicola Cusano. Ma dall’altra parte c’è pure il sapere di non potere, ovvero la coscienza dei propri limiti; non tutto è possibile, bisogna avere il coraggio e l’umiltà di fermarsi, di mettere a freno la volontà di onnipotenza e saper commisurare vantaggi e danni per l’umanità e per il mondo. Invece vige la legge di Gabor in base alla quale ciò che si può fare, si deve fare, e comunque si farà. E se non lo faremo noi lo faranno gli altri. Questo determina un’espansione automatica, inarrestabile, dell’intelligenza artificiale. Che nessuno ha oggi la forza di frenare. Al massimo si fugge spaventati, come fanno i cervelli in fuga dal cervellone. Sveglia. E coraggio… Marcello Veneziani
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21 Maggio 2023 Da Comedonchisciotte del 18-5-2023 (N.d.d.) Le forze economiche – i forti venti in poppa del dopoguerra – quelli che avevano caratterizzato gli ultimi 35 anni e permesso i viaggi dorati attraverso l'”era dell’abbondanza” occidentale, non soffiano più in direzione favorevole. Stavano già rallentando, ma ora stanno cambiando direzione. Questi venti hanno girato di 180°: sono raffiche di vento contrario. Si tratta di un cambiamento strutturale all’interno di un lungo ciclo. Non ci sono soluzioni rapide e “magiche”. Gli anni buoni del “Cabaret” sono finiti. Dovremo “accontentarci” di meno e la conseguente volatilità politica è inevitabile. La Cina in precedenza si era industrializzata, fornendoci manufatti economici anti-inflazione; la Russia ci forniva l’energia a basso costo che aveva permesso alle economie occidentali di mantenersi (appena) competitive e (quasi) prive di inflazione. A quel punto, una “fluidità senza attriti” caratterizzava i movimenti di merci, capitali, persone – tutto. Oggi, invece, sono gli attriti e gli impedimenti a prevalere. La “svolta” era iniziata con la determinazione degli Stati Uniti a non permettere ad una “Heartland” asiatica di soppiantarli. Ma il cambiamento ha acquisito un proprio, potente slancio, dando vita a blocchi commerciali separati, determinati a liberarsi dalle “vecchie egemonie”. Al posto della “fluidità senza attriti”, ora abbiamo il disaccoppiamento economico: sanzioni, sequestri di beni, degrado della protezione legale, discriminazione normativa; discriminazione dell’agenda verde e dei sistemi di gestione ambientale; severe limitazioni per la sicurezza nazionale e narrazioni che trasformano in quasi “tradimento” vaste attività economiche finora ritenute banali. In poche parole, c’è attrito… ovunque. Oltre a questa transizione generale verso l’attrito, ci sono dinamiche distinte che stanno trasformando l’attrito in venti contrari. La prima è la geopolitica. La sfera multipolare sta prendendo forza. Ma la sua “dinamica” non riguarda solo il multipolarismo; si tratta essenzialmente della riappropriazione delle autonomie nazionali, delle sovranità statali e del recupero di modi di essere e valori civili particolari da parte degli aspiranti Stati multipolari. Come ha sintetizzato Ted Snider: “Il monopolio del dollaro non ha solo assicurato la ricchezza degli Stati Uniti: ha assicurato il potere degli Stati Uniti. La maggior parte del commercio internazionale è condotta in dollari e la maggior parte delle riserve valutarie è detenuta in dollari. Il dominio del dollaro ha spesso permesso agli Stati Uniti di dettare l’allineamento ideologico o di imporre ad altri Paesi aggiustamenti strutturali economici e politici. Ha anche permesso agli Stati Uniti di diventare l’unico Paese al mondo in grado di sanzionare efficacemente i propri avversari. L’emancipazione dall’egemonia del dollaro è l’emancipazione dall’egemonia statunitense”. La fuga dall’uso del dollaro negli scambi commerciali diventa quindi il meccanismo chiave per sostituire il mondo unipolare guidato dagli Stati Uniti con un mondo multipolare. In parole povere: gli Stati Uniti hanno fatto un uso eccessivo dell’arma del dollaro e la marea dell’opinione pubblica mondiale (compresi il Presidente Macron e alcuni Stati dell’UE) si è rivoltata contro di loro. Perché questo è così importante? Semplicemente perché ha dato il via ad una “fuga dal dollaro” globale, un po’ come una “corsa agli sportelli” quando diminuisce la fiducia nelle banche. La seconda dinamica è il “virus” dell’inflazione, il flagello storico di tutte le economie. Quest’ultima ha tranquillamente accumulato forza durante l'”era d’oro” del credito a costo zero, ma poi ha messo il turbo con le tariffe doganali per la Cina, mentre l’UE ha autonomamente scelto di rinunciare all’energia a basso costo, nella speranza che il suo boicottaggio facesse implodere la Russia dal punto di vista finanziario. E, con la crescente “guerra” dell’Occidente per il ritorno in patria di una gamma sempre più vasta di linee di approvvigionamento, [l’Europa] ha scelto di mettersi in gabbia in nome della sicurezza nazionale. In sostanza, l’Occidente ha abbracciato l’autolesionismo economico, “da uno stato d’animo di paura esistenziale, un sospetto assillante che la nostra civiltà possa autodistruggersi, come tante altre hanno fatto in passato”. (Da qui l’impulso a riaffermare un primato di civiltà, anche al prezzo di accelerare un possibile suicidio economico dell’Occidente). Il miliardario gestore di fondi Stan Druckenmuller osserva in modo caustico gli insiti rischi di coda – consapevolmente corsi durante l’era del vento in poppa – della zero/inflazione, zero/interessi, abbondante liquidità: “[Ma] … quando si ha denaro gratis, la gente fa cose stupide. Quando ha denaro gratis per 11 anni, la gente fa cose davvero stupide. Quindi, sotto sotto c’è qualcosa e sta iniziando a venir fuori. Ovviamente, di recente sono state le banche regionali… Ma suppongo che ce ne siano molte altre in arrivo… Quello che ci viene presentato è un cocktail spaventoso”. Ebbene, chi vuole fare il guastafeste? Non certo l’élite dell’1%, che si è trovata benissimo in questo paradigma. La Federal Reserve ha mantenuto bassi i tassi d’interesse e i revisori dei conti del governo hanno incoraggiato le banche ad acquistare obbligazioni del Tesoro americano e mutui a lunga scadenza, concedendo loro un trattamento contabile favorevole. (Le banche non dovevano registrarli nei loro libri contabili al valore di mercato corrente, purché potessero fingere di tenerli fino alla scadenza). Poi è arrivato il flagello dell’inflazione e dei rialzi dei tassi d’interesse a distruggere il valore di questi beni. Le passività sono quindi rimaste scoperte ed esposte. Erano state le autorità a permettere la costruzione di questo castello di carte del “denaro libero” lasciandola andare avanti per così tanto tempo. Si trattava di una scommessa che, inevitabilmente, avrebbe avuto un suo “tetto”, un limite oltre il quale non avrebbe potuto essere più sostenuta. A quel punto, decenni dopo, la gente era arrivata a credere che si potesse andare avanti per sempre. Molti lo credono ancora. Non si accorgono che il vento in poppa ha girato di 180° ed è diventato un forte vento contrario inflazionistico. Poi è arrivata la “Grande scommessa” davvero straordinaria: L’Europa ha deciso che poteva “fare a meno” di energia e risorse naturali a basso costo (per un puntiglio sulla politica della Russia nei confronti dell’Ucraina). Ha poi pensato di scommettere alla grande su una nuova tecnologia (tecnologia che deve ancora essere evoluta o provata), che arrivasse in tempo e ad un costo in grado di sostenere un’economia moderna e competitiva – in assenza di combustibili fossili ad alimentare un’infrastruttura originariamente costruita appositamente per funzionare con questi combustibili. Non c’è alcuna garanzia che questa prospettiva tecnologica si concretizzi. Può darsi, ma anche no. E questa è un’enorme scommessa. Nel XIX secolo, gli Stati europei avevano combattuto guerre primordiali proprio per assicurarsi energia o risorse come petrolio, carbone e minerale di ferro. Nella Prima Guerra Mondiale, la Gran Bretagna aveva combattuto in Medio Oriente per assicurarsi l’olio combustibile che avrebbe permesso la conversione delle proprie navi da guerra dal carbone al petrolio. Il passaggio al petrolio aveva dato alla Marina britannica un vantaggio competitivo rispetto alla flotta tedesca alimentata a carbone. Ma l’UE di oggi ha deciso di rinunciare alle risorse fossili del XIX secolo, scommettendo in modo panglossiano sulla capacità dell’ingegno umano di produrre una rivoluzione tecnica – nei tempi (e nei costi) previsti. “Ma non si tiene conto fatto che la tecnologia è incapace di creare energia [almeno del tipo di cui la società moderna ha bisogno]. Questa convinzione tipica dell’uomo si è dimostrata a lungo eccessivamente ottimistica. Coloro che presumono che il mondo politico possa essere ricostruito dagli sforzi della volontà umana, non hanno mai dovuto scommettere così pesantemente sulla tecnologia piuttosto che sull’energia [fossile] come motore del nostro progresso materiale”, scrive Helen Thomson. Puntare sulla tecnologia rispetto all’energia fossile, tuttavia, non è che la metà della Grande Scommessa. L’altra metà consiste nel fatto che l’economia occidentale è stata fondata e costruita attorno all’energia a basso costo. Questo è il suo “modello di business”, è difficile concepirne un altro. L’Europa passerà forse i prossimi decenni a demolire e sostituire infrastrutture energetiche efficienti con nuove fonti di energia, che, per la maggior parte, non sono altro che un “luccichio negli occhi” di un innovatore? Se così fosse, sarebbe la prima volta nella storia che qualcuno scommette così pesantemente sulla tecnologia piuttosto che sull’energia. Mai prima d’ora si era pensato seriamente ad una tale ridondanza dell’infrastruttura energetica esistente (e alla sua perdita di valore). E – mai prima d’ora – infrastrutture energetiche efficienti erano state demolite per essere sostituite da nuove strutture verdi meno efficienti, meno affidabili e più costose. È la prima volta nella storia che viene fatto un investimento di questa portata. Questo rende tutto più costoso, più difficile e meno efficiente. È una ricetta per aumentare ulteriormente l’inflazione e il degrado economico. In realtà, si tratta di navigare contro venti contrari. Come verrà finanziata questa infrastruttura? L’era del denaro libero è ormai alle spalle; il costo fiscale è ora un costo reale. L’efficienza, l’affidabilità degradate e l’attrito incontreranno e si scontreranno con l’ideologia Net Zero dell’UE e con l’agenda per il clima diventata il pretesto per introdurre restrizioni radicali sui modi di vita. Negli Stati Uniti, la finanziarizzazione dell’economia avrebbe dovuto estendere il primato economico occidentale. Lo ha fatto per un po’, ma, alla fine, i prodotti finanziarizzati sono cresciuti a dismisura, prosciugando l’economia reale che produceva beni e impiegava le persone in modo produttivo. Questi prodotti derivati simili al denaro (che sostituiscono l’economia reale) tendono sempre più al regno dell’irreale. Ora è difficile distinguere tra denaro-cose “reali e irreali”. […] Per l’europeo comune è davvero “un cocktail spaventoso quello che gli viene presentato” […] Guardando al futuro, che cosa prevede questo “cocktail”? Probabilmente turbolenze politiche. Per parafrasare la schiettezza di Churchill: “Questo è il tipo di assurdità che il popolo non sopporterà”. Alastair Crooke (tradotto da Markus)
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19 Maggio 2023 Da Rassegna di Arianna del 15-5-2023 (N.d.d.) Sta muovendo qualche onda l'esclusione del fisico Carlo Rovelli dalla cerimonia di apertura della Fiera del Libro di Francoforte, cui era stato precedentemente invitato. La colpa di Rovelli è stata quella di contestare – peraltro in modo argomentato - le scelte del governo rispetto al conflitto tra Russia e Ucraina. Avendo fatto parte Rovelli fino a ieri del novero degli “accreditati” dal sistema mediatico, questa volta si è inarcato persino qualche sopracciglio nella borghesia semicolta, nei lettori di corriererepubblica e fauna affine. Purtroppo a quest’influente fascia della popolazione sfugge del tutto la gravità di ciò che accade da tempo, come un andamento sotterraneo, continuo, capillare. C'è una linea rossa continua che si dipana nella gestione dell’opinione pubblica occidentale da anni e che ha subito un’accelerazione dal 2020. È una linea che si lascia vedere in superficie solo talora, come nella persecuzione di Assange (o Manning, o Snowden, ecc.) fino a censure minori, come quella assurta oggi agli onori delle cronache. Il senso profondo di questo movimento sotterraneo è chiarissimo: perseguimento della verità e gestione del discorso pubblico in occidente sono oramai indirizzi incompatibili. A Rovelli viene imputato qualcosa di imperdonabile, ovvero di aver tradito l’appartenenza alla cerchia degli onorati dalle élite di potere, mettendole in imbarazzo. Questo non può e non deve accadere. Oggi il discorso pubblico ha il permesso di oscillare tra due poli, a un estremo la polemicuzza innocua e autoestinguentesi sull’orsa o la nutria di turno, all’altro i rifornimenti di munizioni alla linea dettata dal capo, cioè dalla catena di comando a guida americana dietro al cui carro - sempre meno trionfale - siamo legati. Per le verità più pesanti e pericolose vige l’ordine di distruzione, come evidenziato dal caso di Assange la cui vita è stata distrutta per segnare un esempio e un ammonimento a qualunque altro soggetto eventualmente incline alla parresia. Per le insubordinazioni minori (tipo Rovelli, Orsini, ecc.) basta la caduta in disgrazia presso i cortigiani, che si riverbera in censure, piccoli ricatti silenti, e poi in discredito, blocchi di carriera, ecc. Tutto ciò si condensa in una sola fondamentale lezione, una lezione implicita che il nostro intero sistema di formazione delle menti, giornali, televisioni, scuole, università, ecc. consapevolmente o inconsapevolmente implementa: “Tutto ciò che è discorso pubblico è essenzialmente falso.” Questa è la lezione che i giovani ricevono precocemente e da cui traggono tutte le conseguenze del caso, in termini di disimpegno e abulia. A tale lezione si sottrae solo in parte qualche parte della popolazione meno giovane, in cui si agita ancora l’illusione di aspirazioni passate (“partecipazione”, “democrazia”, ecc.). La “realtà” in cui ci troviamo a nuotare funziona però secondo il seguente ferreo sillogismo: 1) Tutto ciò che abbiamo in comune gli uni con gli altri come cittadini, come demos, è il discorso pubblico mediaticamente nutrito; 2) Ma quel discorso pubblico è oggi puramente e semplicemente menzognero (o schiettamente falso, o composto di frammenti di verità ben selezionati, funzionali a creare uno desiderato effetto emotivo); 3) Perciò non c'è più nessun possibile demos, nessun possibile discorso pubblico, e dunque nessuna leva perché un’azione collettiva possa cambiare alcunché. Mettetevi il cuore in pace, si salvi da solo chi può. In questa cornice peraltro si staglia per interesse l’atteggiamento dei superdiffusori di menzogne certificate, dei mammasantissima dell’informazione e del potere, attivissimi nel denunciare ogni eterodossia sgradita come “fake news”. E così ci troviamo di fronte allo spettacolo insieme comico e ripugnante dove i comandanti di corazzate dell’informazione chiedono il perentorio affondamento di canotti social per non aver benedetto abbastanza l’altruismo di Big Pharma, o per essere stati teneri con Putin, o per non aver rispettato l’ultimo catechismo politicamente corretto, e così via. Viviamo in un mondo in cui la menzogna strumentale è oramai la forma dominante della verbalizzazione di interesse pubblico. C'è chi vi reagisce con mero disimpegno rassegnato; chi si chiude angosciato nella propria stanza tipo hikikomori; chi cerca paradisi artificiali in pillole; chi accetta il gioco cercando di usarlo per tornaconti a breve termine (perché nessun altro orizzonte è disponibile); c'è chi cade in depressione; chi impazzisce; c'è chi ogni tanto spacca tutto per poi tornare a battere la testa contro il muro della propria cella; e c'è chi sviluppa quella forma particolare di pazzia che sta nel lottare disarmato contro i giganti sperando si rivelino mulini a vento. Sul fondo fluisce la corrente della storia dove il nostro vascello occidentale ha preso un ramo digradante e con inerzia irreversibile accelera verso la cascata. Una volta che la parola pubblica ha perduto la propria capacità di veicolare verità, ridarvi peso è impossibile. Ogni ulteriore parola spesa per correggere le falsità del passato, se raggiunge la sfera pubblica viene per ciò stesso percepita come debole, logora, impotente. La società che abbiamo apparecchiato è una società senza verità e togliere la verità al mondo sociale significa condannarlo a una malattia terminale. Quanto dureranno gli scricchiolii, quanto la caduta di intonaci, quanto le infiltrazioni d’acqua, quanto resisteranno ancora gli spazi abitabili sempre più ristretti, questo non è facile prevedere, ma un mondo senza verità è un mondo senza logos, e non può che sfociare in quella dimensione dove le parole sono superflue perché violenza e morte ne hanno preso il posto. Andrea Zhok
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Giochi di guerra e popoli muti |
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17 Maggio 2023 Da Rassegna di Arianna del 15-5-2023 (N.d.d.) Si è molto discusso sugli obiettivi che Mosca si prefiggeva di raggiungere, avviando l’Operazione Speciale Militare, e su come questi si siano assai velocemente dimostrati irraggiungibili. Cosa che ha costretto ad un radicale cambio anche della strategia militare. Ma un elemento è sicuro: nonostante la propaganda occidentale lo abbia dipinto come un pazzo sanguinario, il nuovo Hitler – Putin (ed il gruppo dirigente che lo affianca, a partire da Lavrov) è, al contrario, un uomo prudente, per certi versi si potrebbe dire un moderato. Di sicuro, la strategia politico-militare sviluppata via via dal 24 febbraio 2022 è stata ed è caratterizzata da un elevato autocontrollo, che cerca costantemente di evitare l’escalation del conflitto. Questa scelta, precipuamente politica, e di cui gli europei dovrebbero essergli eternamente grati, non è il frutto di un possibile timore verso la NATO (la sua potenza militare), ma di un preciso calcolo. Ovviamente, e soprattutto a partire dal momento in cui a Mosca hanno compreso che questa è una guerra della NATO contro la Federazione Russa, e non un semplice conflitto regionale di marginale interesse per l’Alleanza atlantica, per la leadership russa è divenuto chiarissimo che un pezzo importante del conflitto si sarebbe combattuto fuori dall’Ucraina, nell’arena internazionale. Non restare isolata internazionalmente era ed è vitale, per una prospettiva strategica di lungo termine. Ciò a partire dalla Cina, che è partner fondamentale proprio in vista del futuro, ma non solo. Tutto ciò che Mosca è riuscita a mettere in campo in questi 15 mesi – dalla spinta incredibile che hanno avuto i BRICS+ al rafforzamento della SCO, dal rapporto commerciale con l’India a quello anche politico con la Turchia, dall’espansione dell’influenza in Africa alla pacificazione in Medio Oriente – non sarebbe stato possibile se, al contrario, si fosse lanciata in una campagna militare distruttiva. Pechino è consapevole che la Russia è stata costretta al conflitto dall’occidente, così come è consapevole di essere il prossimo bersaglio. Quindi, il rafforzamento dell’alleanza strategica tra i due paesi è di reciproco interesse. Ma, al tempo stesso, l’esistenza stessa di un conflitto armato, che USA e NATO stanno usando per erigere una nuova cortina di ferro, va decisamente contro i propri interessi commerciali, quindi politici. Per la Cina, pertanto, la non escalation è fondamentale, e certamente Xi Jinping lo ha fatto presente all’amico Putin. Su un piano più strettamente militare, Mosca deve considerare due aspetti. Il primo, minore ma non troppo, è che la guerra prima o poi finirà, e si troverà a dover dividere un confine (divenuto più lungo) con l’Ucraina. La distruzione del paese, posto che avrebbe potuto accelerare la fine della guerra, avrebbe comunque lasciato un profondo sentimento di ostilità, nel quale sia le forze del risorgente nazismo europeo, sia la NATO (che peraltro storicamente usa le prime in funzione antirussa), avrebbero sguazzato. L’interesse russo non è semplicemente la vittoria, ma la sicurezza – quindi, non semplicemente la pace, ma in qualche misura la pacificazione. L’altro aspetto, è che per certi versi questo conflitto è importantissimo non solo per la Russia, ma anche per la NATO. Sia pure in modi e tempi diversi, entrambe si giocano una partita esiziale. Per Mosca, quella politica e (forse) territoriale, per l’Alleanza quella della sopravvivenza in quanto coalizione politico-militare. Ne consegue – ed al Cremlino ne sono consapevoli – che Washington non può permettersi una sconfitta. E quanto più va avanti il conflitto, quanto più cresce l’investimento politico, economico e militare della NATO, tanto più difficile sarà per questa recedere. Il rischio di un conflitto diretto con le forze dell’Alleanza Atlantica va quindi evitato, non solo per le ragioni suddette, ma anche perché avrebbe un costo potenzialmente spaventoso. Anche se restasse nell’ambito di un conflitto convenzionale, le perdite umane e le distruzioni materiali sarebbero enormi da entrambe le parti. Una terza ragione per mantenere (relativamente) basso il livello dello scontro, riguarda la Russia in sé. I riferimenti sempre più espliciti alla Grande Guerra Patriottica sono evidentemente finalizzati a rimodulare il sentiment popolare su questa lunghezza d’onda, anche relativamente al conflitto con la NATO. Ma Putin e i suoi sanno perfettamente che la Russia odierna non è l’Unione Sovietica (e non solo per dimensione). Se allora c’era un paese prevalentemente operaio e contadino, con un potentissimo partito-guida, dotato di una forte ideologia (e fresco di una enorme rivoluzione…), la Russia di oggi è in realtà molto più simile all’occidente europeo. Affrontare in pieno una guerra con la NATO significherebbe la mobilitazione generale, un’accelerazione verso l’economia di guerra ancora maggiore, nonché una stretta interna; tutte cose che, nella Russia attuale, sarebbero assai complicate. Per questo la leadership russa sta lavorando alla rinascita di un’identità russa, distinta da quella occidentale. Ma è un processo che richiede tempo, quindi non si possono rischiare forzature. Dal canto suo, la NATO si è lanciata nell’avventura ucraina avendo in mente gli obiettivi che intendeva conseguire (troncare i rapporti Russia-Europa, isolare e sfiancare Mosca), ma – come poi s’è visto – senza un’idea precisa sul come conseguirli. La temibile accoppiata tra il fanatismo ideologico dei progressisti democratici ed il feroce cinismo dei neocon è partita all’attacco della Russia, fallendo tutti gli obiettivi strategici meno uno, e cioè riportare a cuccia i vassalli europei e rilanciare la NATO come coalizione di ascari da impiegare nelle guerre future, ovunque occorra. Paradossalmente, però, proprio questa improvvisazione strategica finisce col costituire un pericolo potenzialmente esplosivo. Proprio nel momento in cui l’impero americano si appresta a giocare la partita definitiva per il dominio globale, ed in cui quindi diventa essenziale non solo contrastare contemporaneamente il proprio declino e l’ascesa delle nuove potenze, ma anche poter disporre pienamente dello strumento militare NATO, ecco che si ritrova con un’Alleanza Atlantica militarmente indebolita, ed a rischio di implosione. Se il conflitto ucraino dovesse concludersi con un’evidente sconfitta del disegno strategico americano, è chiaro che la NATO scricchiolerebbe e incertezze e dubbi si farebbero strada tra gli alleati che più hanno da perdere. Se questo è il quadro, si comprende facilmente che per Washington è fondamentale non uscire perdenti dalla guerra ucraina. Ma ovviamente questo è un esito non solo non facile da ottenere, ma sul quale non c’è neanche uniformità di vedute. A parte gli alleati chiave (Gran Bretagna e Polonia), che sono anche i più bellicosi, all’interno delle oligarchie statunitensi si confrontano ancora partiti diversi. C’è chi pensa che valga la pena continuare a sostenere Kiev sino allo stremo, perché ciò comunque logorerà l’apparato militare russo. C’è chi pensa che sarebbe meglio trovare una via d’uscita diplomatica, costringendo gli ucraini ad accettare (almeno temporaneamente) la rinuncia ai territori perduti. Ma c’è anche chi ritiene ancora possibile battere Mosca sul terreno. Il risultato è che per un verso si continuano a gettare risorse enormi nel tritacarne ucraino (siamo ormai a svariate centinaia di miliardi…), ma sempre un po’ alla volta, cosicché non riescono mai a divenire sufficiente massa critica, tale da mutare gli equilibri, mentre dall’altro si determina una escalation di fatto, con la fornitura di armi sempre più potenti. Mentre sul terreno di battaglia russi e ucraini si massacrano vicendevolmente, Mosca e Washington continuano a portare avanti il loro grande gioco. Il rischio, crescente, è proprio che il gioco sfugga di mano e i giochi di guerra divengano guerra vera, senza che nessuno avesse inizialmente voluto arrivarci. Perché – non ci si stancherà mai di dirlo – una volta cominciata, la guerra ha vita propria. E la dialettica bellica che si è instaurata tra la Federazione Russa e la NATO è pericolosissima. Per un verso, l’impero statunitense – che non vuole il confronto diretto – è costretto a investire sempre di più (più soldi, più armi, più potenza di fuoco) per evitare la sconfitta. Per un altro, la Russia lascia che la NATO aumenti il suo impegno, senza una ferma reazione, perché a sua volta non vuole il confronto diretto. Ma tutto ciò può fatalmente condurre al baratro. È la solita vecchia storia della rana bollita. Se non si pone uno stop deciso, la temperatura salirà un po’ alla volta fino a quando sarà troppo tardi. Per quanto la moderazione russa abbia, come detto, delle validissime ragioni, c’è il forte rischio che finisca, al contrario, per condurre laddove nessuno vorrebbe arrivare. È sin troppo evidente che porre continue linee rosse e poi lasciare che vengano superate è assolutamente controproducente e finisce col far credere al nemico di poter superare indenne anche la successiva, incoraggiandolo di fatto a farlo. Oltretutto, questa moderazione rischia di diventare anche uno spreco. Si pensi alla campagna di bombardamenti sulle installazioni energetiche ucraine. Centinaia e centinaia di missili e droni, sicuramente grandi danni inferti, ma strategicamente non hanno spostato nulla. Si doveva portarla sino in fondo, facendo collassare il sistema in maniera totale e definitiva, per ottenere il risultato, mentre così è stato un lavoro a metà. Nonostante numerosi attacchi terroristici, in Russia e nei territori liberati, non c’è stata sostanzialmente alcuna risposta, mentre sarebbe stato ovvio aspettarsi – quantomeno – la distruzione del quartier generale dei servizi segreti ucraini. Non c’è stato alcun serio tentativo di distruggere tutti gli aeroporti, almeno quelli con piste adatte ai jet da combattimento. Non si sono interrotte le linee di comunicazione stradale e ferroviarie. Tutti gli attacchi strategici sono stati parziali, senza mai portare a casa il risultato pieno. È chiaro che la Russia ha messo nel conto una guerra anche di lunga durata, con quel che ne consegue in termini di perdite umane e materiali, pur di evitare il rischio di una deflagrazione maggiore. Ma, anche in considerazione delle logiche che animano la coalizione avversa, senza che si stabilisca – e si mantenga – una vera red line, le possibilità che il gioco sfugga di mano aumentano di giorno in giorno. Se pure ogni tanto sono stati lanciati segnali effettivi (da ultimo, la distruzione del bunker sotterraneo misto ucraino/Nato), il fatto che poi i russi stessi vi mettano un po’ la sordina dimostra che non hanno chiaro come funzionano le cose nel campo occidentale. Andrebbe infatti adottata una linea opposta, enfatizzandoli al massimo, al fine di colpire l’immaginario delle opinioni pubbliche europee e statunitensi, di cui i governi NATO devono in qualche modo tener conto. In buona sostanza, la coalizione occidentale dovrebbe avere la percezione concreta che il rischio non è né astratto, né ancora lontano. E peraltro, quando hanno da capire capiscono. Basti vedere come hanno accorciato il raggio di volo degli aerei spia sul mar Nero… Stiamo su un piano inclinato. Forse oggi gli unici che lo vedono con chiarezza sono i cinesi. Sfortunatamente, Pechino da sola non può fare nulla, ha bisogno di trovare una sponda. Per gli Stati Uniti, che identificano nella Cina il nemico principale e che sono già irritatissimi per il successo della mediazione cinese tra Iran ed Arabia Saudita, è assolutamente impensabile concedere quest’altro successo diplomatico alla Repubblica Popolare. La posizione occidentale – a mezza via tra l’ipocrisia e la stupidità – è quella di chiedere a Pechino di convincere Mosca a fermarsi. Una cosa che la Cina non solo non può fare, ma che non ha neanche interesse a fare – in questi termini. Per sbloccare la situazione, quindi, sarebbe necessaria una interlocuzione terza con la Cina. Che non può essere la Turchia (sempre che Erdogan superi lo scoglio elettorale), e nemmeno il Brasile. Né l’India. Gli ultimi due, oltretutto, stanno nei BRICS+ con Russia e Cina, quindi… In questo risplende la spaventosa assenza, anzi vera e propria latitanza, dell’Europa. Non quella dell’UE, ovviamente, perché ormai si è totalmente piegata ai desiderata di Washington, riducendosi a megafono politico della NATO. Al contrario, l’Unione Europea si sta avviando – con un’incoscienza sconcertante – su una strada terribile, quella dell’allargamento del conflitto in Europa. Che ne siano consapevoli o meno, i vertici di Bruxelles stanno operando in questa direzione, in piena concordanza sia con i peggiori bellicisti del continente (Londra e Varsavia), sia con quei settori dell’establishment americano che veramente credono nella possibilità di battere la Russia sul campo. Negli ultimi tempi si sono moltiplicati gli slittamenti in questa direzione. La decisione di usare il fondo europeo “per la pace” per finanziare l’acquisto di armi per l’Ucraina; Josep Borrell che dice che bisogna investire nell’adeguamento delle infrastrutture viarie europee, per renderle adeguate alle esigenze di trasporto militare; Thierry Breton che sostiene che l’Europa deve avviare la transizione verso un’economia di guerra; la decisione di usare anche i fondi del PNRR per acquistare munizioni per Kiev… E poi arriva Rob Bauer (capo del Comitato militare della NATO): dobbiamo essere pronti ad una guerra. È chiaro che, senza una rottura del fronte occidentale, anche piccola, ovunque e comunque si manifesti, continueremo a scivolare verso il baratro, con l’unica speranza che accada qualcosa – qualsiasi cosa – in grado di evitarlo. Purtroppo, se il governo europeo è cieco e complice e quelli dei vari paesi sono ancor più pavidi e vassalli, la tragedia è che i popoli tacciono. Afoni, muti. Come se avessero più paura di alzarsi contro la guerra che non di finirci dentro sino al collo. Anche loro si stanno facendo bollire come la rana. Stando così le cose, dobbiamo ringraziare la moderazione di Putin, Lavrov e gli altri; se al Cremlino ci fossero oggi i falchi, ossia gli equivalenti dell’attuale gruppo dirigente statunitense, la Russia si starebbe preparando per sferrare un attacco preventivo contro la NATO in Europa approfittando della sua temporanea debolezza ed impreparazione. Enrico Tomaselli
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