20 Aprile 2025 Da Rassegna di Arianna del 19-4-2025 (N.d.d.) Quando gli eventi accelerano, assai più di quanto vorrebbero i protagonisti, è segno che la situazione sfugge al loro controllo. Ed è precisamente questo che sta accadendo, in questo momento, agli Stati Uniti d'America. I segnali ci sono tutti. La fretta di Trump di portare a casa risultati, che però non arrivano. L'apertura di una guerra daziaria, che aveva come obiettivo il disaccoppiamento dalla Cina, che si sta infrangendo contro la fermezza di Pechino. L'emergere di divisioni all'interno dell'inner circle trumpiano, a soli tre mesi dall'insediamento. L'incapacità di uscire (bene) dalla sconfitta in Ucraina. La corsa ai tagli della spesa, che in pochissimo tempo ha già prodotto centinaia di migliaia di disoccupati. Il progressivo impantanarsi mediorientale. L'insistenza su una narrazione conflittuale e divisiva interna, nel momento di massima crisi dell'impero. E si potrebbe continuare, ovviamente, ancora a lungo. Ciò che emerge sempre più, quindi, è la difficoltà statunitense a gestire la propria crisi imperiale, e la caotica situazione internazionale che la propria crisi alimenta e acutizza. Il tentativo di coprirla con una narrazione arrogante, non solo complica le cose proprio per il suo essere urticante in sé, ma si rivela una coperta troppo corta per nascondere l'impasse. Ed il rischio di passare da questo al cacciarsi in un cul-de-sac si fa di giorno in giorno più probabile. Marco Rubio, calato in Europa per cercare di convincere i paesi europei a cedere sulla questione delle sanzioni alla Russia (passaggio fondamentale per sbloccare i negoziati con Mosca), dichiara che, se le trattative sull'Ucraina non producono risultati "entro pochi giorni", gli Stati Uniti si disimpegneranno perché hanno altre priorità. Il punto è che tornare alla retorica inziale di Trump ("risolvo in 24 ore") non è d'aiuto; e certo Washington può anche cercare di mantenere in piedi il dialogo con Mosca a prescindere dalla questione ucraina, ma ci sono solo due modi per provarci. O smettere di mediare, e però smettere anche qualsiasi aiuto a Kiev, aspettando che la Russia risolva il conflitto sul campo di battaglia - il che significa perdere un altro po' di credibilità (ad est come ad ovest), incassare una sconfitta più bruciante, e comunque allungare considerevolmente i tempi per un 'appianamento' delle relazioni russo-americane. Oppure continuare a sostenere l'Ucraina, ma chiamandosi fuori dai negoziati - il che significa una maggiore perdita di credibilità agli occhi del Cremlino, e un rinvio sine die di qualsiasi accordo con la Federazione Russa. Perché la questione fondamentale è che per gli USA l'Ucraina non conta nulla, al più è tenuta in considerazione come un potenziale debitore da spremere, ma per la Russia è un nodo nell'ambito della sua esigenza strategica di assicurarsi quegli accordi di sicurezza (europea e globale), che cerca di ottenere da almeno quindici anni. E se non c'è quella, il resto non ha molto interesse. La capacità - o meno - di esercitare il proprio potere egemonico, sull'Europa e sull'Ucraina, è in ultima analisi il metro con cui Mosca valuta la serietà statunitense. Ed è sempre Rubio che, sull'altro fronte problematico, quello mediorientale, assume il ruolo di maggior falco all'interno dell'amministrazione. Nonostante Trump sia dipinto come assolutamente appiattito sulle posizioni israeliane, la realtà dei fatti dice qualcosa di diverso; non perché sia un pacifista, o non sia abbastanza amico di Israele, ma semplicemente perché ha chiaro quale sia l'interesse strategico degli USA nella regione (che va oltre lo stato ebraico), così come ha chiari i rischi del seguire passivamente l'avventurismo di Netanyahu. La scommessa di Trump è chiaramente un rospo assai difficile da ingoiare, per l'estrema destra israeliana, perché si fonda sulla ricerca di un accordo con l'Iran. Accordo non facile da raggiungere, ma che viene visto come l'unica via percorribile, essendo l'alternativa una guerra durissima, prolungata, e potenzialmente sconvolgente per l'intero sistema geopolitico globale, nella quale gli Stati Uniti si ritroverebbero quasi certamente da soli, e quasi sicuramente contro non solo l'Iran ed i suoi alleati regionali, ma anche Russia e Cina. Probabilmente non schierate in prima linea con le proprie forze armate, ma di sicuro pienamente impegnate a impedire la caduta della Repubblica Islamica; in poche parole, l'intera strategia americana (guadagnare tempo, dividere le forze nemiche) andrebbe gambe all'aria. Anche in Medio Oriente, comunque, ad essere foriera di sbandate pericolose è l'assenza di una vera strategia USA, che tenga conto dei reali rapporti di forza e delle posizioni dei vari attori coinvolti. Aggravata proprio dall'influenza nefasta che Israele non cessa di esercitare sulla politica statunitense, e che oggi significa il condizionamento da parte di un governo a sua volta alle prese con una crisi di portata storica, alla quale risponde con una strategia massimalista del tutto priva di qualsiasi senso della realtà. La strategia mediorientale di lungo periodo, per gli Stati Uniti, resta quella di una normalizzazione più o meno egemonica della regione. Portare cioè i paesi arabi ad instaurare rapporti stabili e pacifici con Israele. Per conseguire questo obiettivo, cercano intanto (ed in vario modo) di smantellare il network degli alleati di Teheran; ridurre l'influenza iraniana significa essenzialmente rassicurare sia Israele che i paesi arabi. Ma quanto questo obiettivo sia praticabile è tutta un'altra faccenda. E di certo Israele non è d'aiuto, con le sue continue mire espansionistiche - per quanto folli ed insensate, comunque reiterate di continuo, e perseguite manu militari. La grande contraddizione americana è che si trova oggi in questa situazione perché il mondo è cambiato (sono cambiati gli equilibri di potenza, e su vari livelli), ma ha difficoltà ad affrontare il cambiamento; non solo perché, ovviamente, non lo vuole accettare, ma anche perché stenta anche solo a prenderne atto. È come un vecchio leone che non ha più la forza di un tempo, per tenere a bada i giovani che ambiscono a prenderne il posto nel branco, ma che continua a ruggire e menare zampate come se l'avesse ancora, esponendosi al rischio di una fine precoce. Ma se per quanto riguarda il conflitto in Ucraina c'è sempre, alle brutte, la possibilità di un chiamarsene fuori (magari poco edificante, ma comunque possibile), scaricando oneri e colpe su altri - Biden, Zelensky, gli europei… - questa possibilità non c'è nel conflitto mediorientale. Il vincolo mortale con Israele non lo rende possibile. La partita con l'Iran, quindi, diventa un passaggio cruciale, non soltanto per il Medio Oriente, per l'intera amministrazione Trump. Gli Stati Uniti devono portare a casa un risultato di una qualche stabilità e spendibilità, ed essere capaci di tenere a bada l'irragionevole alleato. Già il primo passaggio è tutt'altro che facile, perché Teheran è consapevole delle proprie forze (e delle proprie debolezze), ma è anche estremamente determinata, e sta dimostrando una notevole capacità tattica e strategica nella gestione della crisi. I ripetuti incontri trilaterali Iran-Russia-Cina, incentrati sul tema, il viaggio a Mosca di Araghchi (con una missiva di Khamenei per Putin), la visita del ministro della difesa saudita a Teheran (e l'annuncio di un viaggio in Iran del principe Mohammed Bin Salman), sono tutti segni della rete che l'Iran sta intrecciando, per rafforzare la sua posizione negoziale. La divisione che si sta manifestando all'interno dell'amministrazione USA - con Trump, l'inviato Witkoff, e in parte il capo del Pentagono Hegseth, che insistono sulla via negoziale, ed il segretario di stato Rubio che propende per l'opzione militare - testimonia non solo la difficoltà della strategia statunitense, ma anche, appunto, come questa si rifletta criticamente sul governo stesso. L'impossibilità di tenere insieme capre e cavoli si rivela ancora una volta un limite insormontabile. Per certi versi, siamo dinanzi all'ennesima similitudine tra Zelensky e Netanyahu (ma ovviamente la questione non è 'personale'). Quando l'intreccio delle relazioni tra una grande potenza e un piccolo alleato (o proxy) si fa troppo duraturo e profondo, ciò finisce per mutare la natura del rapporto, e l'equilibrio tra i due si sposta, mette in mano al piccolo delle leve che il grande non pensava si sarebbero manifestate. Ed è questo che oggi rende il passaggio estremamente complesso - ma anche cruciale. Gli USA non possono 'mollare' Israele, né possono forzarlo ad accettare qualunque soluzione appaia praticabile per Washington. Al tempo stesso, trovare una mediazione possibile con l'Iran significa fare delle concessioni, che appariranno comunque inaccettabili a Tel Aviv. Tenere insieme il diavolo e l'acqua santa non è possibile. Se, almeno per il momento, è probabile che una grande guerra sia stata scongiurata in Europa - al prezzo di una sconfitta strategica dell'occidente - il rischio aumenta di molto nel Levante. Perché l'America non può permettersi un'altra sconfitta strategica, ma non sembra capace di trovare un'altra via d'uscita. Enrico Tomaselli
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16 Aprile 2025 Da Comedonchisciotte del 14-4-2025 (N.d.d.) Perché siamo capaci di descrivere e analizzare il vecchio che si dissolve e non riusciamo invece a immaginare il nuovo? Forse perché crediamo più o meno inconsapevolmente che il nuovo sia qualcosa che viene – non si sa da dove – dopo la fine del vecchio. L’incapacità di pensare il nuovo si tradisce così nell’incauto uso del prefisso post: il nuovo è il post-moderno, il post-umano – in ogni caso qualcosa che viene dopo. È vero precisamente il contrario: il solo modo che abbiamo di pensare il nuovo è di leggerlo e decifrarne i tratti nascosti nelle forme del vecchio che passa e si dissolve. È quanto Hölderlin afferma con chiarezza nello straordinario frammento su La patria che tramonta, in cui la percezione del nuovo è inseparabile dal ricordo del vecchio che va a fondo e deve anzi in qualche modo assumerne amorosamente la figura. Ciò che ha fatto il suo tempo e sembra dissolversi perde la sua attualità, si svuota del suo significato e ridiventa in qualche modo possibile. Benjamin suggerisce qualcosa del genere quando scrive che nell’attimo del ricordo il passato che sembrava compiuto ci appare incompiuto e ci fa così dono della cosa più preziosa: la possibilità. Veramente nuovo è solo il possibile: se fosse già attuale e effettivo, esso sarebbe già sempre deciduo e invecchiato. E il possibile non viene dal futuro, esso è, nel passato, ciò che non è stato, che forse non sarà mai, ma che avrebbe potuto essere e che per questo ci riguarda. Percepiamo il nuovo soltanto se riusciamo a cogliere la possibilità che il passato – cioè la sola cosa che abbiamo – per un attimo ci offre prima di scomparire per sempre. È in questo modo che dobbiamo riferirci alla cultura occidentale che ovunque intorno a noi oggi si disfa e dissolve. Giorgio Agamben
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Quando i mezzi diventano fini |
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13 Aprile 2025 Da Rassegna di Arianna del 5-4-2025 (N.d.d.) Il soggettivismo egolatrico moderno ha trasformato la libertà individuale da un mezzo importante (senza libertà è impossibile compiere cose buone) a un fine ultimo. Cioè, in un assoluto. Ha fatto la stessa cosa col denaro, con le merci, con la tecnologia. Ha trasformato tutte queste cose da mezzi che possono migliorare le umane condizioni di vita, a fini ultimi, cioè assoluti ipertrofici. Che ovviamente hanno relativizzato e infine oscurato completamente quelli che erano i fini ultimi nella civiltà cristiana premoderna: Dio e la cura dell'anima. Che la libertà individuale sia un mezzo e non un fine lo dimostra una semplice constatazione: posso usarla tanto per fare cose buone quanto per cose cattive. Come tutti i mezzi, è dunque neutra, è il fine per il quale essa è impiegata che la rende volta per volta buona o cattiva. Posso usarla tanto per fare del bene quanto per nuocere agli altri, tanto per elevare me stesso quanto per abbrutirmi nei modi più svariati. Infatti tutti i più grandi spiriti antichi e medioevali non diedero al problema della libertà un grande rilievo. Come non enfatizzarono, anzi molto spesso minimizzarono l'importanza dell'economia e della tecnica. È la modernità che ha cambiato completamente le cose, con l'umanesimo e il Rinascimento, con Lutero (il libero esame), con il liberalismo, con le Rivoluzioni, i cambiamenti di costume. La sete insaziabile di libertà, prevalentemente individuale, atomistica, è dunque tipicamente moderna. Come l'economicizzazione capitalistica del mondo e lo scientismo tecnolatrico. E se questa sete ha avuto anche qualche conseguenza apprezzabile (pensiamo all'abolizione della schiavitù), perché nessun fenomeno è completamente unilaterale, le maggiori conseguenze sono state distruttive, distruggendo nel profondo ogni appartenenza e identità collettiva. Giungendo fino all'attuale dirittismo folle, al gender, al woke e persino al postumanesimo. Lo stesso dicasi per l'uguaglianza, altra idea cristiana impazzita, come la definisce Chesterton. È in grado l'attuale mondo occidentale e moderno (o postmoderno che dir si voglia) di comprendere l'errore dell'avere sostituito i mezzi con i fini, e di tornare alla saggezza premoderna, classica e cristiana? Lo spero, ma sinceramente non lo credo. L'ignoranza spirituale dell'Occidente e delle sue classi dirigenti (compresa quella ormai subalterna del clero modernista) accecate dal risentimento, dall'avidità, dal nichilismo, si è spinta troppo oltre, come constatiamo ogni giorno, e ormai soltanto Dio, se e quando vorrà, ci può salvare. Occorre però testimoniare. Sempre. Martino Mora
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10 Aprile 2025 Da Rassegna di Arianna del 7-4-2025 (N.d.d.) Tre guerre mondiali spaccano e sconvolgono questo mondo di pace. In primis la guerra delle armi, delle distruzioni e dei popoli che si è concentrata in Ucraina e in Palestina ma in realtà pullula di innumerevoli focolai sparsi nel mondo; col grottesco colpo di coda europeo, che corre al riarmo per riaccendere le ostilità con la Russia. Poi la guerra dei dazi, del commercio e della finanza che sta squassando il pianeta dopo le sanzioni di Trump al mondo, in una specie di girone di ritorno dell’americanizzazione del pianeta. Infine la guerra dello spazio, dei satelliti e dell’intelligenza artificiale in cui Stati, potenze, intelligence, deep state e colossi privati si contendono il primato e l’egemonia dei mezzi di controllo, comunicazione e sviluppo tecnologico del futuro. Tre guerre che hanno in fondo una sola chiave: è finita la marcia progressiva e unidirezionale della globalizzazione, stiamo entrando in uno scenario indefinibile, instabile, fluttuante che è comunque policentrico, ha molte teste o forse nessuna, ma tanti tentacoli e altrettanti testicoli. La sensazione che ci resta è che tutto il mondo stia ballando, come in un terremoto di proporzioni gigantesche, che non ci siano punti fermi né ancore di salvataggio a cui aggrapparsi: tutto gira, vorticosamente, e siamo totalmente disorientati. È presto per dire come invece sbrigano quasi tutti gli osservatori, che la colpa è di Trump, o del duo Trump-Putin o su altri versanti del duo Trump-Musk. Troppi attori, antefatti e situazioni s’intrecciano per ridurle a un solo fattore. Stiamo tornando alla realtà, alle inevitabili diversità, all’economia reale, alla competizione, dopo aver coltivato l’illusione che una bolla irreale entro cui si espandeva la globalizzazione ci avrebbe preservato da tutto. Trump, indipendentemente dal giudizio su di lui e sulla sua guerra dei dazi, è stato l’occasione e non la causa, il fattore scatenante che ha fatto precipitare le cose; potremmo dire, sulla scia di Hegel e di Marx, che la storia si stia servendo di lui come agente del cambiamento, per imboccare una nuova strada. Del resto, le guerre delle armi non le ha innescate lui, l’invenzione che la Russia voglia attaccare l’Europa non l’ha lanciata lui e le guerre tecnologiche serpeggiavano già da tempo; lui ha solo accelerato ed esplicitato, in modo stridente, la crisi della globalizzazione sul piano commerciale. Ci preoccupano, anzi ci spaventano, i suoi effetti collaterali, ma con la globalizzazione sta crollando una sorta di paradigma che molti davano per irreversibile: che la storia segua una linea e che non vi possano essere deroghe, deviazioni, imprevisti rispetto a quella linea. Ma la storia non è scritta in anticipo, e se non credete in Dio o in un Demiurgo Malvagio ma solo nel Caos, non potete poi pensare che il corso della storia sia prestabilito dentro un Disegno Unico entro cui dovrà svilupparsi. E invece la storia si riprende le sue libertà, le sue incognite, le sue variazioni; e sopra di lei l’eterogenesi dei fini riprende a dimostrare che le conseguenze, gli effetti storici non sono quasi mai il frutto delle premesse e delle intenzioni dei suoi agenti. C’è un’astuzia beffarda della storia, forse una mano invisibile della Provvidenza o di un dio capriccioso e creativo che ci costringe a fare i conti con le discontinuità, le sorprese e i raggiri della storia. Gli uomini fanno la storia, ma la somma degli eventi tradisce i singoli addendi e agenti. Siamo sull’orlo di un grande precipizio, e non sappiamo se sia possibile arretrare dal baratro o se sia destino vivere costeggiando l’abisso o se si possa davvero precipitare dentro. Le incognite sono tante, le variabili pure, e il passaggio repentino da salvatori a distruttori, o viceversa, rende impossibile mantenere una linea e preservare un giudizio, senza badare ai fatti e alle smentite. Lo stesso Trump che sembrava voler ritirare gli Stati Uniti dentro i suoi confini sta in realtà sconvolgendo il mondo e condizionando il pianeta in una forma di colonizzazione rovesciata, d’interdipendenza a contrario, fino a rendere la ritirata americana una forma inedita di americanizzazione del mondo. Prima ancora di prender partito si tratta in questo momento di prendere coscienza e conoscenza, ossia capire quel che sta succedendo, o quantomeno tentare di farlo. Dobbiamo uscire dalla logica che domina la storia da almeno due secoli secondo cui prima di interpretare il mondo dobbiamo trasformarlo; no, dobbiamo capire cosa sta succedendo prima di prendere posizione e comportarci di conseguenza. Fino a ieri si diceva che il punto debole dei populismi e dei sovranismi era la semplificazione, ridurre il mondo complesso a formulette e risoluzioni facili, di grande suggestione popolare ma totalmente insufficienti nella loro puerile rozzezza a comprendere il mondo. La stessa cosa sta avvenendo adesso, se leggiamo e ascoltiamo il mondo liberal, radical, progressista: semplificano tutto agitando il Demonio Trump alle origini di ogni male. Senza rendersi conto che l’anno scorso stavamo sul filo di una guerra mondiale grazie a Biden, ai suoi alleati e fantocci e a quel che succedeva in Palestina. E che la concentrazione degli odii su Putin mentre l’enorme gattone cinese si espandeva tranquillamente per conto suo, stava deformando la realtà in modo a dir poco pericoloso. Ora è come se i nodi stiano venendo al pettine, e quando questo succede è doloroso districarli; e forte è il rischio che si spezzino. Il problema è che non c’è un’Autorità super partes, un grande Arbitro che possa dirimere le controversie e presiedere le trattative nel nome degli interessi generali: l’Onu non è in grado di farlo, altre autorità sovraordinate non esistono, la Monarchia universale sognata da Dante rimane un sogno, come il Sacro Romano Impero o lo Stato universale; sicché siamo in balia della storia e dei suoi pluriversi; siamo in balia degli uomini, dei rapporti di forza, dell’intelligenza e della stupidità degli attori. Tornando a casa nostra, mai come in questo caso, non ci aspettiamo nulla dalla Meloni; può fare la sua parte con più o meno efficacia e dignità, prendere le misure, barcamenarsi, esortare ai negoziati, ma i suoi margini d’azione sono assai stretti e le sue prospettive d’incidenza internazionale sono davvero minime. Trovo grottesco chi vorrebbe da questa situazione ricavare un processo al governo in carica accusato di subordinazione a Trump. Se è vero, nulla di nuovo: in ginocchio rispetto al Padrone Americano ci stanno, ci state, da anni, è la condizione per governare nel nostro Paese da ottant’anni. Puoi guidare l’Italia se a tua volta ti fai guidare. Avete consumato tutte le pantofole dei predecessori di Trump coi vostri baci e le vostre umide carezze, ora non siete credibili se insorgete invocando la dignità sovrana rispetto alla pantofola col ciuffo dell’ultimo arrivato alla Casa Bianca. Marcello Veneziani
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8 Aprile 2025 Da Rassegna di Arianna del 6-4-2025 (N.d.d.) Mentre raccolgo informazioni sui presidi simultanei contro il riarmo svoltisi in dieci città, dico intanto la mia sulla manifestazione del M5S a Roma. 1) Sono felice del fatto che decine di migliaia di persone abbiano manifestato contro il progetto di riarmo europeo. 2) Va riconosciuto a Conte che, nel passaggio sui palestinesi del suo comizio, abbia saputo per un momento spezzare la coltre di silenzio con la quale il mondo intero si sta rendendo complice di un genocidio. DETTO QUESTO, se si vuole parlare di prospettive politiche, evitiamo per favore sciocchezze come quella secondo cui il numero di partecipanti sarebbe una qualità politico-strategica. Personalmente, ho partecipato a due delle più grandi manifestazioni di massa nella storia d'Italia: quella del 23 marzo 2002 indetta dalla Cgil contro il tentativo del Governo Berlusconi d'abolire l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, e quella del 15 febbraio 2003 contro la guerra in Iraq: due eventi che hanno superato ampiamente il milione di partecipanti. Ebbene, la maggioranza di quelle persone che erano in piazza con la Cgil, di lì a pochi anni non avrebbe battuto ciglio - anzi molti avrebbero applaudito - quando i Governi Monti e Renzi, in due passaggi, l'articolo 18 lo avrebbero abolito per davvero. Parimenti, quelle persone che nel 2003 difendevano in piazza l'autodeterminazione dell'Iraq, di lì a poco, nei casi di Libia e Siria, si sarebbero tramutate in fanatici sostenitori dell'esportazione della democrazia occidentale a suon di bombardamenti. Perché tanta falsa coscienza? Perché una massa così elevata di persone si è dimostrata a tal punto capace di rovesciare quanto creduto e professato fino a pochi anni prima? Le ragioni antropologiche e sociologiche di questo sono molteplici ma, da un punto di vista ideologico-culturale, una su tutte appare evidente: quei manifestanti non avevano manifestato nel 2002 contro una classe dominante che voleva abolire i diritti conquistati dal movimento operaio, né avevano manifestato nel 2003 contro l'imperialismo anglo-americano. Essi avevano manifestato, semplicemente, contro "la destra". Non appena la "sinistra" andò al governo sia in Italia che in America e si trovò a seguire le stesse direttive sovranazionali di chi l'aveva preceduta, l'abolizione dell'articolo 18 e il bombardamento d'uno stato sovrano al fine di depredarne il petrolio non costituivano più un problema. Nella testa di quei manifestanti, al di fuori del problema classificato come "destra", non esisteva e non esiste altro: abolizione di diritti sociali, guerre e genocidi, quando non sono etichettabili come "di destra", non interessano. La manifestazione di Roma ha avuto il dichiarato scopo di ridefinire i rapporti di forza interni al centrosinistra, costringendo il PD a spaccarsi tra ultra-bellicisti e bellicisti moderati. Ma a cosa servirà un fatto del genere nel momento in cui l'Italia dovrà una volta per tutte scegliere, senza possibilità di mediazione, tra la via americana della pacificazione con la Russia e la follia guerrafondaia di Gran Bretagna e Unione Europea? In questo momento, il Governo Meloni sta giocando d'equilibrismo fra le due opzioni dimostrando, però, maggior sbilanciamento in favore della prospettiva pacifica. Ebbene, davvero pensiamo che un governo di centrosinistra basato sull'asse Conte-Schlein avrebbe maggiori possibilità e volontà di rispondere "no" agli ordini bellicisti di Von der Leyen, Macron e compagnia? In realtà, in occasione della votazione al Parlamento Europeo del 2 aprile sul riarmo, abbiamo potuto osservare l'assoluta mendacità della polarizzazione destra-sinistra: infatti, M5S, Sinistra e Lega hanno votato contro il riarmo, PD e Forza Italia a favore, mentre Fratelli d'Italia si è astenuta. In altre parole, sulle questioni strategiche che davvero contano, vi è trasversale divisione all'interno degli schieramenti tradizionali. Questo sta a significare che una fuoriuscita dalla dimensione neo-totalitaria di emergenza permanente in cui si trovano oggi l'Italia e i paesi europei, non potrà mai passare da un centrosinistra o da una sinistra, bensì potrà avvenire solo a seguito di una nuova polarizzazione basata sui due aspetti che davvero oggi fanno da spartiacque tanto tra le forze politiche quanto nell'opinione pubblica: il primato della governance sovranazionale da una parte, il primato della sovranità popolare e delle istituzioni nazionali elettive dall'altra. Riccardo Paccosi
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