6 Dicembre 2024 Da Rassegna di Arianna dell’1-12-2024 (N.d.d.) Del tramonto dell'Occidente si parla da più di un secolo, e da ben prima della pubblicazione del fortunato volume di Oswald Spengler. Quando ne parlava Spengler si era all'indomani della grande distruzione della Prima Guerra Mondiale, e, paradossalmente, si era alle soglie di una possibile svolta nel processo di decadenza: l'Europa scossa profondamente da cinque anni di guerra e undici milioni di morti sembrava prendere coscienza della necessità di un cambiamento di paradigma. Ma i tentativi che emersero in quel periodo, dapprima all'insegna della Rivoluzione d'Ottobre (i tentativi di rivoluzione degli spartachisti in Germania, il biennio rosso 1919-1920, ecc.) e poi sotto l'egida delle dittature degli anni '20, non riuscirono a creare condizioni stabili per una ricostruzione alternativa. I “fascismi” cedettero molto rapidamente le pretese di rivoluzione popolare a favore di un patto strutturale con la grande borghesia liberale, mantenendo l’impianto aggressivo e “darwiniano” che era stato proprio dell’imperialismo prebellico. Due decenni dopo, il secondo grande massacro del XX secolo aprì un nuovo tentativo di revisione del modello liberalcapitalistico con cui l'Occidente aveva finito per identificarsi. Questo tentativo ebbe maggior successo e durò circa tre decenni, producendo la prima e finora unica situazione moderna in cui autentici meccanismi democratici vennero implementati e in cui migliorarono distintamente le condizioni di vita generali di chi viveva del proprio lavoro. Ma quel tentativo venne minato dall'interno e infine rovesciato con successo nella seconda metà degli anni '70, a causa della scarsa consapevolezza della natura profonda della crisi di civiltà dell'Occidente (chi di questa crisi aveva consapevolezza, come Pasolini, rimase una vox clamantis in deserto). Il modello liberalcapitalista riuscì a travestirsi negli anni '80 da movimento libertario ed emancipativo, con la complicità militante di gran parte della concettualità postmoderna. Con la caduta dell'URSS l'idea stessa che potessero (dovessero) esistere modelli di sviluppo storico diversi dal liberalcapitalismo venne meno. La storia degli ultimi tre decenni è la storia di una ripresa dei medesimi meccanismi che precedettero la Prima Guerra Mondiale, solo in forma più potente e virulenta. L'accelerazione e il potenziamento della tecnica, finanziaria, mediatica e bellica, presentano le dinamiche distruttive “fin de siècle” in una forma iperbolica. Gli esiti distruttivi si stanno affacciando in maniera vigorosa e priva di serio contrasto. Mediamente, le classi dirigenti e i ceti intellettuali sembrano avere una consapevolezza della crisi persino inferiore a quella delle classi dirigenti e dei ceti intellettuali del 1914, del 1938 o del 1968. In Occidente l’idea che “non c’è alcuna alternativa” (TINA) e che la forma di vita liberalcapitalistica rappresenta l’ideale fine della storia (Fukuyama) rimane ampiamente maggioritaria, serenamente propalata, seriosamente sostenuta da stuoli di giornalisti e accademici. La coscienza critica appare, quando appare, nella forma di richieste di ritocchi, di cambiamenti di dettaglio, di riformismi settoriali. Rispetto al passato esiste un elemento differente: l’Occidente non rappresenta più l’unica concentrazione rilevante di potere economico e militare. Durante la guerra fredda la sfida era stata sempre impari: dalla Seconda guerra mondiale gli USA come centro dell’impero liberalcapitalistico ne era uscito arricchito, intoccato nelle infrastrutture, demograficamente solido, militarmente egemone (unico detentore della bomba atomica). La Russia, lo sfidante ideologico, era un paese straziato, con venti milioni di morti in guerra, infrastrutture devastate e già precedentemente carenti, e una condizione di inferiorità tecnologico-militare. Nonostante queste premesse l’URSS riuscì a giocare un ruolo di contraltare ideologico e ideale per altri quattro decenni. La situazione odierna è diversa perché gli sfidanti sono potenzialmente molto più solidi e credibili. E tuttavia questo può rappresentare un’aggravante della situazione. Per la prima volta da quando è divenuta la forma trainante dello sviluppo europeo a fine XVIII secolo il modello liberalcapitalistico si ritrova sfidato da modelli ibridi, differenti, che ciascuno a modo suo tenta di cavalcare la tigre tecnologica e produttiva in modo da non essere più inerme rispetto alle pretese imperiali dell’Occidente a guida americana. In ciascuno di questi sistemi la legittimazione del potere avviene secondo forme di accreditamento non prevalentemente economiche, che è invece ciò che caratterizza il modello occidentale moderno. Per questo la sfida appare come una sfida esistenziale, una sfida in cui l’Occidente liberalcapitalistico non ha alcun piano B perché da tempo non riesce ad immaginare un futuro che non ricalchi il modello corrente (individualismo acquisitivo, materialismo astorico, universalismo globalista, capitalismo politico). Che nel futuro alberghi una deflagrazione per il mondo occidentale è ovvio e strettamente necessario: il sistema liberalcapitalistico è sempre stato un sistema generatore di grandi accelerazioni e grandi squilibri, con crisi esplosive ricorrenti. La vera questione è quale sarà la natura della deflagrazione prossima ventura. Infatti una condizione di accettazione della pacifica convivenza con forme di sviluppo radicalmente differenti e non subordinabili risulterebbe fatale per l’Occidente a guida americana. L’ammonimento di Trump, che dichiara letteralmente guerra ad ogni tentativo di proseguire il processo di dedollarizzazione, è espressione di una chiara presa di coscienza in questo senso. L’Occidente a guida americana sa che se non può continuare a giocare la partita di sfruttamento unilaterale che ha giocato finora, capitalizzando forme di scambio asimmetrico, non può sopravvivere. Il problema, ideologico non meno che strutturale, dell’Occidente liberalcapitalistico è che può esistere solo come vertice della catena alimentare. Nel momento in cui si accettasse come un primus inter pares, senza mutare modello di sviluppo, finirebbe per collassare. Per questo motivo, in maniera sempre più tenace, l’Occidente a guida americana cercherà il confronto diretto con tutti i suoi potenziali competitori, per sfruttare ancora la propria posizione di relativa superiorità in alcuni campi. Dunque, che all’orizzonte ci sia una deflagrazione è certo. Se questa possa avere natura limitata o non invece il carattere proverbiale di Sansone che decide di morire portando con sé tutti i filistei (ed ogni cenno alla vicenda mediorientale è puramente intenzionale), questo è tutto da vedere. Andrea Zhok
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5 Dicembre 2024 Da Rassegna di Arianna del 2-12-2024 (N.d.d.) Perché le "Élite", quelle del tanto nominato "Deep State", hanno capito di dover, senza essere troppo recalcitranti, fare affidamento su Trump, che a questo giro non lo hanno effettivamente contrastato? Per una ragione molto semplice: gli Stati Uniti hanno perso posizioni su tanti settori strategici che ne compromettono l'egemonia. Si potrebbe anche parlare del calcolo sbagliato della globalizzazione ma questo ora non è il punto. Il fatto è che quelle idee su come gestire il futuro economico di un mondo alla fine della Storia erano essenzialmente sbagliate. Lyndon LaRouche prevedeva che il crollo dell'Occidente sarebbe arrivato a causa della forbice di investimenti fra economia finanziaria ed economia reale. Le classi dirigenti russe e cinesi, o quelle di altri neo-imperi emergenti, Turchia, Iran etc. non hanno aderito a questa deriva ideologica dell'iperfinanza, che in fondo sembra molto lo stadio terminale, postmoderno, dello stesso liberalismo in quanto ideologia dell'emisfero occidentale. Gli Stati Uniti si sono quindi scoperti del tutto impreparati e arretrati rispetto ai loro concorrenti, con il vecchio e un tempo onnipotente apparato militare-industriale che oggi è del tutto inadatto a produrre armamenti su vasta scala, economicamente sostenibili e soprattutto in modo autarchico, senza dipendere dalla Cina per la componentistica e l'high-tech. In altre parole: gli Stati Uniti, tolta la loro riserva strategica, non sono in grado di sostenere una guerra moderna ad alta intensità contro un'altra grande potenza, e soprattutto per un periodo di tempo non programmabile, se si escludono gli armamenti nucleari. Quindi l'opposizione elitaria o "di apparato" a Trump assume un connotato e un senso del tutto diverso, così come molto diverso probabilmente sarà lo sviluppo della seconda amministrazione Trump. Nel 2016 delle élite molto ideologiche e snob pensavano di ostacolare un populista che voleva presentare loro il conto della globalizzazione. Oggi le stesse aristocrazie del capitalismo finanziario corrono a chiedere di farsi guidare dal Tycoon neopopulista perché si sono accorte di avere perso la base della competitività del loro blocco egemonico. Quindi una parte considerevole del potere statunitense ora spera che Trump possa guidare il processo di reindustrializzazione americana. Non hanno scelto Trump ovviamente, che probabilmente detestano, ma la sua ricetta. Del resto se non ci fosse lui, probabilmente questa missione sarebbe stata tentata con qualcun altro della galassia trumpiana americana, come Ron Desantis. Il parallelo storico è con il secondo mandato a Necker per dirigere le finanze di Francia, in un disperato tentativo di salvarsi dalla bancarotta prima del diluvio rivoluzionario, dopo che la Corte lo aveva precedentemente messo alla porta. All'epoca la seconda gestione Necker arrivò ovviamente troppo tardi. Come troppo tardivo sembra il ripensamento dei poteri dirigenti americani di fronte all'affondamento della Medusa. La sostanza è molto semplice ed è questa. Nessun complottismo o dietrologia, né nel senso di chi vorrebbe un Trump ormai venduto al Deep State, né alla QAnon con tanto di allucinati che inneggiano alla "trattativa" con le misteriose élite che decidono di patteggiare per non finire deportate a Guantanamo dai Cappelli Bianchi. Non c'entrano l'adrenocromo, i bambini, la pizza, il satanismo, i pedofili e altre amenità. La zuppa è molto semplice ed è questa che ho esposto. La domanda che ora resta è: è ancora in tempo Trump a riportare l'America su posizioni dominanti o quanto meno competitive nella sua base industriale, senza fare marcia indietro rispetto a un intero sistema incentrato sulla finanza, o il ruolo di egemone mondiale andrà perso in un mondo con altre grandi potenze? E anche a noi, come italiani, poi come europei, e infine come membri dell'umanità in cammino, ci serve veramente che l'America ritorni di nuovo grande? Oppure non sarà meglio che il "Secolo americano" si chiuda definitivamente e per sempre? Matteo Martini
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Avviare una dinamica internazionalista |
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4 Dicembre 2024 Da Rassegna di Arianna del 2-12-2024 (N.d.d.) Sull'ipotesi di una guerra termonucleare globale, nessuno è in grado di fare previsioni (e chi le fa, quindi, è un ciarlatano). Per ciò che riguarda invece una guerra in Europa, il problema delle previsioni non si pone in quanto c'è solo da prendere atto di quello che stanno affermando e materialmente attuando tanto i governi nazionali del continente quanto gli organismi dell'Unione Europea. Provando a imbastire un parziale e sbrigativo elenco dei recenti atti e pronunciamenti, infatti, emerge il seguente quadro. 1) Il Parlamento Europeo ha votato contro ogni ipotesi di negoziato fra Russia e Ucraina e a favore del proseguimento a oltranza della guerra nonché, ovviamente, delle spese militari. 2) In diversi paesi europei, si sta parlando di reintroduzione della leva e, per quanto riguarda l'Italia, si comincerà col richiamare i giovani che sono stati in questi anni scartati per la carriera di militare di professione. 3) La Germania ha avviato un costosissimo "piano bunker" per allestire, all'incirca, 200.000 rifugi anti-atomici. 4) In Svezia, Germania e altri paesi, vengono distribuite brochure informative su come sopravvivere nelle prime 72 ore successive a un'esplosione nucleare (con effetti involontariamente comici, a causa della somiglianza con quegli spot informativi americani degli anni '50 che suggerivano di mettersi al riparo sotto al tavolo della cucina). Appare dunque evidente che l'Unione Europea rappresenti, oggi, il principale dispositivo di compattamento e disciplinamento delle nazioni verso l'obiettivo della guerra con la Russia. Ne consegue che una prospettiva che voglia scongiurare tale possibilità e riportare la pace deve, oggi più che mai, puntare politicamente alla distruzione delle istituzioni eurofederali. La differenza sostanziale fra l'emergenza pandemica di qualche anno fa e l'attuale emergenza bellica, consta del fatto che i popoli non credono affatto a quest'ultima narrazione dominante. La vivono con depressione e rassegnazione, certo, ma non la appoggiano. Se a questo aggiungiamo il tracollo della produzione industriale, i licenziamenti e la diminuzione drastica del potere d'acquisto del ceto medio, osserviamo un potenziale di dissenso e rifiuto decisamente maggioritario in buona parte delle opinioni pubbliche nazionali. Per tale motivo, bisogna dunque avviare una dinamica internazionalista di mobilitazione congiunta e continuativa (per esempio una volta a settimana) nelle piazze dell'Italia, della Germania e della Francia. In breve, si tratta d'innescare una dinamica internazionalista per un'Europa che non aspiri più allo stato unico imperiale progettato dai neoliberisti, bensì che sappia pensarsi come plurale, molteplice, multipolare. Una dinamica internazionalista come quella materializzatasi dal basso durante la Primavera dei Popoli del 1848, un'insurrezione dei popoli congiunta ma dove, al contempo, ciascun popolo lotti per la propria sovranità nazionale, contro il mostro eurofederale e contro i mastini della guerra che lo governano. Riccardo Paccosi
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2 Dicembre 2024 Da Rassegna di Arianna del 30-11-2024 (N.d.d.) Da giovane pensavo di essere troppo ignorante per comprendere l’arte contemporanea. Da vecchio, sono troppo bisbetico per non essere convinto che si tratta di un grande imbroglio. Che cosa pensare della banana di Maurizio Cattelan, il cui titolo è Comedian, ossia attore comico? Sincerità dell’artista, assai bravo a scoperchiare la menzogna dei mercanti e dei critici d’arte, nonché a trarre vantaggio dalla supponente dabbenaggine modaiola di collezionisti che non capiscono – come me – ma si adeguano alla vulgata di “color che sanno” (che cosa, poi?) e pagano fior di quattrini per esibire in salotto opere – ma la parola magica è “installazioni” – che il mondo al contrario considera espressioni artistiche. La realizzazione di Cattelan, inizialmente venduta per centoventimila dollari, consiste in una comune banana fissata al muro con nastro adesivo. La performance artistica, informa Wikipedia, è consistita in una serie di eventi che ruotavano attorno al frutto in una fiera d’arte a Miami, luogo della prima esposizione. La banana, una volta marcita, può essere sostituita con un’ altra. O tranquillamente mangiata, ciò che avrebbe già fatto il suo ultimo acquirente, un miliardario cinese, Justin Sun, finanziere specialista in criptovaluta. Tutto si tiene: criptomoneta per criptoarte. Chissà se è virtuale anche il pagamento di oltre sei milioni di dollari. Novanta minuti di applausi a Cattelan, capace con una banana e qualche centimetro di nastro adesivo di smascherare il nichilismo artistico, sbeffeggiare acquirenti e critici e diventare ricco. Peraltro, è anche l’autore del gigantesco dito di marmo – tecnicamente magnifico – esposto a Milano di fronte al palazzo della borsa, il cui titolo è l’acronimo LOVE (libertà, odio, vendetta, eternità) . Uno sberleffo alla finanza, o forse è la finanza che si rivolge a noi attraverso l’opera per spiegarci – esibendo il dito medio alzato – che cosa pensa delle sue vittime. La forza del capitalismo è assorbire tutto, anche le critiche più feroci sino a metterle in vendita e guadagnarci sopra. Pensiamo all’immagine-culto di Che Guevara diventata un brand o al “no logo” (dal libro anticapitalista di Naomi Klein) trasformato a sua volta in marchio di successo. Viene voglia di applaudire chi è capace di farsi pagare dai suoi avversari. Un’arte sopraffina anch’essa. Inutile, nel caso della banana, scomodare le definizioni di arte. Basta un aforisma dell’austriaco Karl Kraus: arte è ciò che il mondo diventerà, non ciò che il mondo è. Appunto: il mondo capovolto. Oppure una riflessione del pessimo Theodor W. Adorno in Minima Moralia: il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine. Missione perfettamente compiuta, a partire dal celebre orinatoio (Fontana è il nome ufficiale) di Marcel Duchamp del 1917, il primo a teorizzare che tutto può essere arte. Da allora ogni espressione di creatività può essere considerata (o spacciata) come arte. Citiamo ancora la bibbia laica postmoderna, Wikipedia. “Fontana è un’opera ready-made (??) realizzata dall’artista Marcel Duchamp nel 1917. Non fu mai esposta al pubblico e andò successivamente perduta. Consiste in un comune orinatoio firmato R. Mutt e intitolato Fontana, e viene considerata da alcuni storici dell’arte e teorici specializzati una delle maggiori opere d’arte del ventesimo secolo. Dal 1964 esistono nel mondo sedici repliche dell’oggetto. “ Con buona pace di Walter Benjamin che teorizzò la differenza tra valore culturale e valore espositivo e scrisse un saggio su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. E, nella fattispecie, della sua sostituzione con un’altra banana. Onore a Maurizio Cattelan, che prende in giro il circo artistico e diventa ricco. Epigono di altri artisti, da Piero Manzoni con il famoso barattolo di deiezioni sue (Merda d’artista) a Lucio Fontana che realizzò i celeberrimi “tagli” sulla tela vuota per evocare la quarta dimensione, sino alla pop art di Andy Warhol con la serie di trentadue tele sulle scatolette di fagioli Campbell. Se io inventassi un nuovo modello di scopa, potrei rivendicare la qualifica di artista: creatività. Del resto, ho un amico che si dedica veramente alla storia delle scope. È l’impero dell’equivalenza in basso: non ci sono distinzioni o gerarchie, né tra gli uomini, né tra le cose. Tutto è accidentale e ha il medesimo valore. Di conseguenza, tutto può essere arte. Iniziò il russo Malevich, astrattista, che all’inizio del Novecento dipinse – o meglio realizzò, poiché l’atto del dipingere non lo compì – il noto Quadrato nero su sfondo bianco, cui seguì il Quadrato bianco su sfondo bianco. Malevich dichiarava la pittura un pregiudizio del passato, affermando che era scoccata l’ora finale dell’arte. Siano proscritte le belle arti, concludeva. Una profezia che si è avverata, poiché non solo l’’arte contemporanea (postmodernità e post-arte) sembra spesso l’apologia del brutto, ma perfino del deforme, dell’osceno, dei sogni, degli incubi e del perverso. Capì tutto il grande Goya nell’incisione nota come Il sonno della ragione genera mostri. Al di là della provocazione, della trasgressione obbligatoria diventata nuovo conformismo, molti artisti – sedicenti tali – non sono che interessati analisti delle follie di quest’epoca, sicuri dell’ applauso del mondo al contrario inconsapevole della propria decadenza. Di recente hanno fatto notizia gli attentati all’”arte” compiuti da ignare addette alla pulizia di alcuni musei, che hanno gettato nel bidone dell’ immondizia certe “installazioni” esposte, a base di rifiuti, chiare allusioni alla realtà contemporanea di “creativi” ribattezzati artisti. Ignoranza crassa o saggezza popolana? Che dire di un’altra opera, la fotografia dell’americano Andrès Serrano, Piss Christ, una statuetta di Cristo Crocifisso immersa nell’urina, che ottenne anche un premio in denaro da un ente governativo statunitense? Cattelan, peraltro, ha giocato tutta la sua carriera sul filo della provocazione e dell’happening. Nel 1999 presentò come opera vivente, intitolata A perfect day, il gallerista milanese Massimo De Carlo, appendendolo a una parete della galleria con nastro adesivo grigio. Il poveretto, stremato e privo di sensi, fu ricoverato al pronto soccorso. Giusta punizione di un addetto ai lavori? Abbiamo letto un articolo del giornalista progressista Luca Ciarrocca, estimatore dell’arte contemporanea, sul caso della banana milionaria. Depreca l’esagerazione del prezzo, condanna l’insulto alla povertà, parla di trumpismo rampante (il senso del ridicolo non è di casa tra i Giusti e Sapienti), pare non credere al valore artistico della banana sino a dubitare di se stesso – lorsignori, quando pensano liberamente, si sentono in colpa – ma poi si rassicura. Un amico competente – un esperto, vil razza dannata più dei cortigiani odiati da Rigoletto – lo convince. Questo lavoro, spiega, è sostanzialmente in linea con il pensiero dominante dell’autore, è una presa in giro del mercato dell’arte. Cattelan sta semplicemente spingendo i confini per vedere fino a dove può arrivare con la sua provocazione e, visto che ha trovato un compratore, sicuramente non si fermerà qui. Esatto: non di arte si tratta (l’esperto usa il termine “lavoro”) ma di mercato. E magari di imbroglio, diciamolo una buona volta. Come aveva capito Voltaire due secoli e mezzo fa, conta “ épater les bourgeois”, stupire i borghesi, i quali, convinti da un nugolo di intellettuali a fattura, crederanno che sia arte e compreranno a caro prezzo qualsiasi “lavoro” per non fare la figura degli ignoranti e stupire a loro volta gli ospiti, invidiosi di chi possiede un’ opera famosa di cui non capiscono nulla, benché mai lo ammetteranno. Il mercato dell’arte contemporanea è una truffa, riconosce Ciarrocca, ma finisce per prendersela con l’acquirente, colpevole di incarnare il peggio del nuovo capitalismo. Vero, ma che dire dell’ assurdo di chiamare arte ciò che manifestamente non lo è, come capiscono i semplici, ma non gli intellettuali, e di attribuire a tutto il cartellino del prezzo? Come dimenticare che il degrado – in questo e in mille altri ambiti – è figlio di un sistema che ha rovesciato ogni principio e giudizio di valore, sino a confondere la creatività – o il semplice fare – con l’arte, che esprime bellezza, elevazione, perizia, stile, trascendenza. Pensava forse Michelangelo che l’affresco della Cappella Sistina fosse un’installazione? Comodo prendersela con Justin Sun, che – consapevole o meno – ha svelato a colpi di dollari ciò che è evidente a noi poveri ignoranti, ossia che l’astuzia di autori, galleristi, critici non è altro che la sovrastruttura per giustificare un giro di denaro estraneo al concetto di arte. La stessa estraneità delle somme assurde pagate da qualcuno per autentici capolavori ridotti a fenomeni da baraccone, da mostrare a pagamento a un pubblico armato di smartphone, intento a fotografare frettolosamente – incombe il selfie “artistico” del visitatore successivo – il frutto del genio di un Van Gogh, osservato solo perché pagato molto. Il regno della quantità, segno dei tempi. Povero Vincent, non avevi capito come vanno le cose del mondo. Meglio Cattelan, che ha realizzato vere sculture, ma è diventato celebre con le performance, le installazioni e le banane. Meditate, artisti, meditate. Roberto Pecchioli
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1 Dicembre 2024 Da Rassegna di Arianna del 29-11-2024 (N.d.d.) Quando si parla di decadenza dell’Occidente è necessario distinguere due fasi. Vi è una decadenza dell’Occidente inteso come occidente europeo, che vi è già stata e ha avuta un’ampia rappresentazione culturale sul piano letterario, artistico e filosofico. La decadenza europea inizia, a mio parere, con la sconfitta di Napoleone e il progressivo emergere dei particolarismi nazionali fino alla loro esplosioni in due conflitti chiamati mondiali perché coinvolgono l’intero pianeta. Il dissolversi dell’Europa comporta anche una dissoluzione culturale. Una delle figure più emblematiche e precoci è Rimbaud, il quale dopo “una stagione all’inferno”, che è un inferno personale (“Ma, davvero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti,/Ogni luna è atroce ed ogni sole amaro” – da Il battello ebbro), ma è anche l’inferno della società europea. Da Una stagione all’inferno: “La mia giornata è finita; abbandono l'Europa”. Verso la fine del 1870 abbandonò l’Europa, per svolgere vari tipi di lavoro nel mondo coloniale in Africa e ritornò in Francia solo a causa della malattia che lo portò alla morte. Talvolta, la decadenza convive con la non-decadenza. Verdi non fu un decadente. Aveva trovato nell’Italia che perseguiva l’unità uno scopo reale. Mentre Arrigo Boito, l’unico librettista bravo che ebbe, fu, tra gli scapigliati, uno dei pochi a non finire matto, alcolista o suicida. Il decadentismo europeo finisce con la fine della civiltà europea dopo la Seconda guerra mondiale. Con l’egemonia statunitense abbiamo un periodo piuttosto breve in cui gli Usa sono effettivamente una potenza egemonica capace di funzionare da centro ordinatore. Ma esso dura ben poco. La decadenza inizia con la guerra in Vietnam, che dimostra l’incapacità “imperiale” degli Usa, che vede una dura contestazione interna, il sistema entra già in decadenza. Siccome la cultura durante l’egemonia statunitense è stata una “cultura di massa” è in questo ambito che ritroviamo le rappresentazioni culturali della decadenza. Nell’ambito della musica rock vengono riprese tutte, ma proprio tutte, le tematiche del decadentismo europeo, le droghe, il disagio esistenziale, il sessualismo, ecc. C’è da notare che la grande maggioranza dei nomi noti della spettacolo morti in modo non naturale sono statunitensi: Jim Morrison, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Kurt Cobain, Chris Cornell … e vari altri. Gli artisti non sono che le antenne più sensibili di un disagio che attraversa l’intera società. Anche la decadenza dell'Occidente statunitense ha avuto varie fasi. La decadenza che va dagli sessanta-settanta era ancora una decadenza in cui il sistema non era realmente minacciato, perché l’Occidente era ancora egemonico, ed era presente ancora il nemico ma che era anche un puntello dell’ordine globale, l’Unione Sovietica. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica abbiamo la decadenza allegra, l’idea che si può essere tranquillamente decadenti, i barbari non sono all’orizzonte e la decadenza non è un problema, anzi non esiste proprio. Durante questo periodo è stato “sdoganato” di tutto, ma proprio di tutto. Infine, abbiamo la decadenza dei nostri giorni. La guerra con la Russia ha dimostrato lo stato effettivo dell’Occidente, come ha scritto Emmanuel Todd, in un libro che è la presa d’atto di questa decadenza. La decadenza è ora un problema. È una decadenza angosciata e depressa. Gennaro Scala
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25 Novembre 2024 Da Rassegna di Arianna del 22-11-2024 (N.d.d.) Mosca non bluffa. Il missile balistico ipersonico di medio-lungo raggio a testate multiple indipendenti lanciato dalla Russia verso l’Ucraina chiarisce infatti molto bene le idee a un bel po’ di teste calde ma vuote che abbiamo da questo lato del mondo. A tutti gli irresponsabili che credono che Mosca si arrenderà davanti all’insistenza delle loro provocazioni, il lancio di risposta è arrivato assieme a un messaggio di Vladimir Putin. Il messaggio della sera del 21 novembre completa quel suo primo messaggio di qualche settimana fa, che i governanti sguatteri di Washington e il loro coro di giornalisti russofobi non avevano voluto prendere sul serio, nonostante non lasciasse margini a dubbi. Tutto molto chiaro: il lancio dal suolo ucraino di una tipologia di missili a lungo raggio che può funzionare solo con l’assistenza tecnologica, satellitare e organizzativa di potenze esterne alle forze armate ucraine implica il coinvolgimento diretto in una guerra alla Russia di quelle stesse potenze, e a catena implica un adattamento della risposta russa. Dunque: un cambiamento della dottrina sull’uso dell’arma nucleare, un impiego di armamenti inediti che riequilibrino il nuovo livello della minaccia, la considerazione delle basi militari delle potenze che aggrediscono il territorio della Russia come obiettivi legittimi di una necessaria risposta. Il nuovissimo missile Oreshnik si è presentato in questi termini: troppo veloce per poter essere in qualche modo intercettato, estremamente preciso, capace di colpire tanti bersagli contemporaneamente, con una gittata che può raggiungere ogni angolo dei territori delle potenze europee. Per ora senza testate nucleari, un domani, potenzialmente, con testate nucleari. Ribadisco: testate nucleari non intercettabili, precise, a distanze illimitate. Ognuno degli Oreshnik può distribuire su 6-8 obiettivi altrettante testate ciascuna con una carica che vale 100-200 Hiroshima. È CHIARA LA QUESTIONE? Tutti tranquilli, vero? Volete affidare la vita vostra e dei vostri figli a Ursula Von Der Leyen, a Mark Rutte, a Pina Picierno, a tutti quei mirabolanti statisti sonnambuli che ci vogliono accompagnare gentilmente fino all’abisso dandoci dei “putiniani” se usiamo la ragione? Vale la pena dunque andare dietro a politici maggiordomi che già ieri hanno accettato senza battere ciglio un pesantissimo declassamento economico e industriale dell’Europa a tutto vantaggio degli Stati Uniti, che oggi accettano di esporci a un repentino deterioramento della sicurezza militare e domani accetteranno un olocausto nucleare su scala continentale? Pensate che questi mentecatti che hanno rimpinzato di armi il genocida del Vicino Oriente per fargli bombardare ogni edificio della Striscia siano credibili filantropi appassionati dell’instaurazione di una piena democrazia da qualche altra parte? Questi miserabili servi dei servi, questi gerarchi feroci e ottusi? La posta in gioco è ormai questa, se non fosse ancora chiaro: in Occidente, una classe dirigente composta da individui selezionati in base alla disponibilità a sacrificare interi popoli, sta proprio per sacrificare interi popoli. Questa macchina della follia deve fermarsi. Sapete come ha chiuso il suo messaggio il presidente russo? «Abbiamo sempre preferito e ora siamo pronti a risolvere tutte le questioni controverse con mezzi pacifici, ma siamo anche pronti a qualsiasi sviluppo degli eventi. Se qualcuno ne dubita ancora, allora è vano: la risposta sarà sempre lì.» È saggezza politica e umana allargare lo spiraglio di pace. È criminale voler insistere nella guerra totale. Non credete a una parola del coro dei grandi giornali e mobilitatevi come potete per sollevare la vostra e la nostra voce, i nostri canali e l’ispirazione di chi vuole la pace. Sapendo che useremo sempre più l’arma della parola, ma che d’ora in poi crescerà anche la parola delle armi. Pino Cabras
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