No Tav: "Sempre in trincea" |
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4 gennaio 2007 
Alberto Perino è un attivista di primo piano del movimento No Tav della Val di Susa. Può sintetizzarmi a che punto è l'iter del Tav in Val di Susa? Potrei dire “a zero”, ufficialmente. Il Governo, verbalmente, ha dichiarato che i progetti presentati finora erano annullati. Formalmente altri progetti non sono stati presentati, l'Osservatorio sta lavorando sui numeri... Però il ministro dei lavori pubblici ha presentato un progetto all'UE Per chiedere il finanziamento della tratta transfrontaliera con il ministro dell'ambiente francese. Ma nessuno ha visto che progetto è stato presentato. I giornali giocano a inventare tracciati e ipotesi... Noi aspettiamo con gli scarponi nei piedi. Qual è la situazione del movimento No Tav oggi? Il movimento NO TAV quest'estate ha prodotto un grande sforzo organizzativo cha ha coinvolto l'intera popolazione della valle e non solo: ha raccolto oltre 32.000 firme in calce ad una lettera “Ai Governanti” di totale e assoluta contrarietà ad ogni nuova infrastruttura trasportistica in Valle di Susa e la pretesa di un congelamento del traffico merci alla situazione attuale. Queste 32.000 rilegate in otto volumi sono state consegnate finora: - al Parlamento Europeo a Strasburgo il 25/9 con una delegazione di oltre cento cittadini e amministratori (la delegazione ha incontrato le commissioni petizioni e bilancio oltre a numerosissimi altri parlamentari e ha consegnato le firme direttamente al Commissario ai Trasporti Barrot in un colloquio durato quarantacinque minuti); - Alla Giunta della Comunità Montana Bassa Valle di Susa il 10/10 con una delegazione di un centinaio di cittadini (Scarica il PDF) - al Presidente Prodi a Roma il 31/10 con una delegazione di soli cittadini e comitati (il video dell’incontro si trova QUI) - Al Governatore della Regione Piemonte Mercedes Bresso (Scarica il PDF). Sono stati inoltre consegnati al Presidente della Provincia di Torino, al Consiglio della Comunità Montana Alta Valle di Susa, al Governo francese, ed alle autorità della Savoia. Quali sono i rapporti coi sindaci locali e il governo di Roma? I rapporti con i sindaci locali sono quelli che sono sempre stati: loro fanno i rappresentanti istituzionali (il che non è sempre facile) il movimento fa il movimento NO TAV, i comitati fanno i comitati. I sindaci hanno dovuto sedersi al tavolo dell’Osservatorio e al tavolo politico di Palazzo Chigi perché sono tavoli istituzionali. I nostri tecnici, nell’Osservatorio, sono bravi e hanno fatto emergere molte cose positive dal nostro punto di vista e i primi due quaderni prodotti hanno spunti che per la prima volta vengono accettati da tutte le parti e che sono favorevoli alla nostra posizione. Purtroppo i quaderni sono anche frutto di una mediazione e quindi contengono anche cose negative per noi. E i media sono in mano a chi vuole fare l’opera: di qui il massacro mediatico falso sull’indispensabilità dell’opera. Il movimento, dal canto suo, ha sempre visto l’Osservatorio come un “cavallo di Troia” e non l’ha mai condiviso con posizioni più o meno dure. E anche le posizioni istituzionali non sono monolitiche: i sindaci legati ai partiti hanno posizioni diverse dai sindaci “indipendenti”. Sicuramente la famosa “democrazia partecipata” della Valsusa ha segnato qualche battuta d’arresto. Ma siamo fiduciosi. Con il Governo il primo contatto si è avuto a fine ottobre con la consegna delle 32.000 firme a Romano Prodi. Diciamo che è stato un buon riconoscimento “politico” del ruolo dei comitati e del movimento popolare che ha potuto colloquiare con i massimi vertici istituzionali. Per altro ognuno se ne è andato con le proprie convinzioni. Ma un canale è stato aperto. Qual è il pensiero che voi No Tav avete maturato in questi anni di lotte sullo Sviluppo? Premesso che il movimento NO TAV ha costruito la sua forza popolare e trasversale sul minimo comun denominatore NO TAV punto e basta, è altrettanto vero che la lotta al TAV ha portato a profonde riflessioni sull’attuale modello di sviluppo e sul suo “non senso”. Si sono fatti molti dibattiti e molte serate sulla “decrescita”; la sensibilità popolare in merito devo dire che è aumentata enormemente. Fin dall’inizio si era consci che la strada “delle grandi opere” ovunque fatte era una strada perdente e suicida. Infatti il Patto di Mutuo Soccorso opera in quella direzione.
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2 gennaio 2008 
Il 15 e il 16 ottobre scorsi si è tenuta a Valencia la Conferenza interministeriale del Consiglio d'Europa, in cui i ministri europei responsabili delle politiche locali hanno discusso di temi quali il ruolo dei cittadini nella vita locale e i recenti sviluppi dell'autonomia regionale. Il Consiglio d'Europa ha quindi lanciato la Settimana Europea della Democrazia Locale, che mira a promuovere la partecipazione dei cittadini in tutta Europa. L'appuntamento si rinnoverà ogni anno in occasione dell'anniversario della Carta europea dell'autonomia locale, firmata il 15 ottobre 1985, che costituisce un modello per le riforme legislative nelle nuove democrazie, e da cui discende la Carta europea delle Lingue Regionali o minoritarie del 1992. Da tutto questo si potrebbe concludere che l'Unione Europea ci tiene a salvaguardare le identità locali del Continente: il problema è che l'identità locale in un mondo globalizzato non ha senso, e proclamare il "glocale" come fanno alcuni finisce per ridurre l'identità locale alla salvaguardia dei prodotti tipici e all'insegnamento nelle scuole di dialetti che nessuno parla più. Stesso discorso per l'"autonomia locale", che diventa un adattamento della legislazione alle esigenze locali ma soprattutto la possibilità di gestire il denaro locale a vantaggio degli investimenti e delle infrastrutture del posto. E questo per un motivo molto semplice: globalizzazione e localismo non sono conciliabili. Certamente sono stati fatti passi avanti verso la tutela delle autonomie locali (Catalogna, Paesi Baschi, Scozia, Galles ecc) ma arrivano in un momento in cui tutto questo perde di senso: la tutela della lingua locale per esempio viene quasi sempre annullata dall'invadenza televisiva delle lingue nazionali, e le leggi locali sono solo insignificanti adattamenti di decisioni che vengono prese nei governi nazionali e, sempre più spesso, trasnazionali (UE, WTO, FMI ecc). E' bene quindi chiarire un punto, onde non cadere in equivoci: la realtà locale, come concetto, non è una nazione più piccola. La nazione, qualsiasi essa sia, non è altro che un piccolo attore della globalizzazione economica, e spezzare la nazione in tante realtà para-nazionali più piccole lascia inalterato il problema, in quanto non elimina i componenti della globalizzazione. E questo per due motivi fondamentali: innanzitutto la realtà locale può essere anche molto più piccola della macro-regione; inoltre detta realtà deve potere agire in un contesto che non ne minacci l'identità culturale, quindi un'Europa che non abbia come obiettivo primario quello di competere economicamente con altre realtà, ma che miri solamente ad avere la forza economica e militare sufficiente a difendersi dalle altre potenze mondiali (in primis gli Usa) sia in termini culturali che economici e territoriali. E' fondamentale quindi accettare che nessuna comunità locale può essere decisa dall'esterno o dall'alto: ogni realtà territoriale che abbia la volontà e le capacità per rendersi autonoma deve poter essere libera di farlo, e deve essere l'autorità europea a dovere avanzare motivazioni valide perchè questo eventualmente non possa accadere. L'autorità centrale deve solo garantire le condizioni esterne affinchè questo possa avvenire, al fine di creare un'Europa che somigli più a una federazione di polis che a un anonimo impero finanziario. E alla base di ciò deve stare il principio secondo cui la politica, per ciò che concerne i suoi abitanti, deve essere decisa da loro stessi e non delegata ad altri: una democrazia diretta quindi che si serva di strumenti quali assemblee o referendum, affinchè su tutto ciò che concerne il cittadino, egli debba avere sempre l'ultima parola. Essa però non può essere usata per prendere decisioni nè che mirino a un qualsiasi sviluppo economico (in particolar modo industriale) nè in qualche modo aggressive verso altre comunità: in questo senso dovrà vigilare l'autorità centrale. E' bene precisare che la democrazia diretta è tanto più valida quanto più l'ambito è piccolo, perchè più esso si allarga meno è controllabile dal basso e più sono facili derive di ogni tipo. Nessuna forma quindi di verità tecno-scientifica dovrà essere calata dall'alto: nessuno potrà imporre agli abitanti di una comunità valori e leggi, come curarsi e come educare i propri figli, come costruire le case e come vivere; o addirittura che una certa comunità decida di chiudersi e di non fare entrare più nessuno. Un'Europa che miri realmente alla salvaguardia del proprio straordinario patrimonio culturale, non solo come diversità ma soprattutto come vitalità e sensibilità individuali uniche al mondo, deve innanzitutto sostituire alla vuota corsa al profitto un'economia che sia al servizio dell'uomo, in modo che egli ritorni a ricercare la felicità nella serena accettazione della vita piuttosto che in una corsa ossessiva al denaro. Massimiliano Viviani
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PSL: Paese a Sovranità Limitata |
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31 dicembre 2007 
Siamo un Paesello a sovranità limitata. Dove a reggere i fili della vita nazionale sono non i prestanome della partitocrazia che siede in parlamento, ma il sistema finanziario, coi suoi cortigiani della grande impresa e i poteri forti internazionali (Stati Uniti ed Eurocrazia su tutti). La politica esegue, e i giornalisti stilano le cronache di regime diffondendo la cortina fumogena dello scontro Destra-Sinistra. La televisione, strumento principe della propaganda chiamata "informazione", è il nuovo oppio del popolo. Contro le banche, contro la televisione e i media, contro la politica priva di ogni libertà e autonomia: questi i tre obbiettivi del 2008. A proposito: buon anno! (a.m.) Lamberto Dini, leader dei Liberaldemocratici, preannuncia la sua uscita dal Governo Prodi. Contemporaneamente il Fondo Monetario Internazionale critica, in "via ufficiosa" pare, la legge finanziaria, perché troppo blanda nei riguardi pensionati e i lavoratori. Lamberto Dini, è bene ricordarlo, è stato per vent’anni altissimo funzionario del FMI. Il che fa supporre che siamo davanti a una manovra concertata. Di riflesso il vero punto della questione non è tanto prossima la caduta di Prodi... Quanto la possibile nascita di un governo tecnico, presieduto da Dini e guidato a distanza dal Fondo Monetario Internazionale. Una specie di film già visto ai tempi della caduta del primo governo Berlusconi nel gennaio-febbraio 1995, e sempre con Dini come primo Ministro "tecnico". Tra l'altro non va dimenticato, che l'uomo politico fiorentino è stato senza soluzione di continuità “il” Ministro degli Esteri (1996-2001) del governo di centrosinistra. E probabilmente come "garante" ufficioso del FMI. Il che rivela a distanza di dodici anni un fatto gravissimo: la progressiva perdita di ogni sovranità politica ed economica da parte dell’Italia in favore di un organismo come il FMI, dietro il quale si nasconde un capitalismo legato ai circoli finanziari internazionali e compiacente, tanto per essere chiari, verso il gigantesco complesso militare-industriale statunitense, straripante di ambizioni imperiali. Ecco il vero problema. Nulla di nuovo, si dirà. Certo, ma ora si sta per toccare il fondo. Il che significa, almeno per il futuro, che fin quando i governi rischieranno di cadere per opera di ex funzionari del FMI, per poi finire molto probabilmente nelle mani dei medesimi, non sarà facile definire l’Italia una nazione indipendente. Si tratta di una questione che, per gravità politica, travalica il discrimine tra destra e sinistra. La cui soluzione imporrebbe, per usare il linguaggio sportivo, uno scatto di reni. O per dirla tutta: una autentica riscoperta della dignità nazionale da parte di tutti i politici. Capire, insomma, che di questo passo, l’Italia a prescindere da Prodi e Berlusconi e da volgari beghe interne, rischia di trasformarsi, e definitivamente, in una colonia economica del FMI e, politicamente parlando, degli Usa: una "Repubblica delle Banane". Perciò - ripetiamo - la coincidenza tra la presa di posizione di Dini e le critiche, benché “ufficiose” del Fondo Monetario Internazionale, non è sicuramente casuale. La situazione è molto grave. Pertanto crediamo che l’Italia abbia bisogno di un politico audace e con grandi capacità decisionali, visione e senso della patria, soprattutto nei termini di progressiva riconquista dell’ autonomia economica (pur in un quadro europeo, certo…) Un politico come Chavez? Forse… Ma dove trovarlo? Carlo Gambescia (per gentile concessione dell'autore)
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Stati alleati e Stati canaglia |
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29 dicembre 2007 
Stati canaglia non si nasce, si diventa. Come si diventa stati canaglia? Beh, assolutamente fondamentale, una proficua amicizia con lo zio Sam finita male: ne abbiamo conosciuti molti, a varie latitudini, piccoli tiranni di varia etnia e religione, in Africa, Asia, America Latina. Come non ricordare, banalmente, casi eclatanti di storie d’amore finite tragicamente, come quella tra i nostri cari USA e Saddam Hussein, sostenuto durante la guerra Iran-Irak? Ma il tempo passa, inesorabilmente: nascono nuove amicizie, che poi iniziano a scricchiolare. Come ad esempio quella con il Pakistan. Mentre altre sono impunemente improponibili, eppure solide, come quella con l’Arabia Saudita. L’amicizia Pakistan-Usa Un’amicizia consolidata da anni, ripagata da abbondanti donazioni pecuniarie. Malgrado il fatto che, per anni, si siano succedute sostanzialmente dittature militari. Malgrado il fatto che forze integraliste controllino ampie zone del paese. Malgrado il fatto che Bin Laden (chi scrive sostiene sia un’ologramma) risieda stabilmente entro i suoi confini, presumibilmente protetto e sovvenzionato dal regime pakistano e, quindi, per proprietà transitiva, dagli Usa. Malgrado il fatto che vi siano, al suo interno, palestre di islamismo e che questo paese sia un’autentica fucina di talenti kamikaze esportati in Europa. Malgrado il fatto che anche il Pakistan possa vantare il suo bel genocidio, quello ai danni del Bangladesh, perpetrato nel 1971 con il beneplacito dell'allora segretario di Stato americano Henry Kissinger (toh, guarda un po’), una pulizia etnica che costò la vita a 3 milioni di persone. Malgrado il fatto che sia considerato una patria del narco-terrorismo globale. Malgrado il fatto che sia un paese dove si applica la sharia in maniera integrale (a Karachi, ad esempio, ogni giorno vengono uccisi bimbi nati da relazioni illegittime). Malgrado il fatto che un paese che raggruppa una serie cosi’ impressionante di caratteristiche “sinistre”, ovviamente nell’ottica Euro/Usa-centrica, abbia armamenti nucleari. Malgrado il fatto, infine, che il suo diretto confinante, il gigante India, con il quale è impegnato da anni in una guerra di confine, sia dotato di altrettanti armamenti nucleari. Ora, quanto sopra descritto non ha costituito problema: il Pakistan resta o restava fino a poco tempo fa amico e alleato. Ma recentemente l’idillio si è spezzato. Gli Usa sembrano non aver gradito l’accordo di pace firmato tra il governo pakistano e i talebani del Waziristan , datato settembre 2006. Da allora, in una ripetizione rituale, gli Usa hanno cominciato a guardarsi altrove, con conseguente stigmatizzazione amplificata a dovere nei confronti delle azioni “anticostituzionali” di Musharraf. Perciò si è deciso di giocare la “carta” Benhazir Butto, una fedele servitrice degli interessi Usa nell’area, piu’ affidabile dello sfuggente Musharraf. Risultato: una martire in piu’ e un nuovo stato canaglia “in pectore”. Incredibilmente, si riflette,oggi, sui quotidiani sempre sul pezzo (post mortem) sul fatto che, magari, le armi nucleari vere pakistane facciano piu’ paura di quelle chimiche, inventate, di Saddam Hussein, o della” liquirizia arricchita “dell’iraniano Ahmadinejad. L’amicizia Arabia Saudita-Usa Sul fedele alleato Arabia Saudita bastano pochi, impietosi “tratti caratteristici”. Non esistono partiti politici e sindacati. La legislazione è legata alla Sharia in maniera pressochè integrale. In Arabia Saudita si condanna a decapitazione, amputazione, lapidazione, addirittura crocifissione. Nessuna libertà religiosa o libertà di stampa. Limitazioni fortissime all’uso di internet, divieto di manifestazioni pubbliche. La condizione femminile è rigidissima, molto di più che in qualsiasi altro paese dell’area. In Arabia Saudita, di fatto, lo schiavismo è ancora vigente: gli schiavi provengono dalle Filippine, dall’Indonesia, dallo Sri Lanka, dall’Etiopia, dall’Eritrea, dalla Somalia. Fucina di terroristi, culla dell'integralismo - basta guardare la cittadinanza dei terroristi (ologramma permettendo) del famigerato 9/11. Preso atto di quanto sopra esposto, restiamo in attesa di un disegno di export dittatoriale standard, se non proprio democratico... Mauro Maggiora
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28 dicembre 2007 
Guardando la copertina del libro “ZERO. Perché la versione ufficiale sull’11/9 è un falso”, un amico mi ha chiesto provocatoriamente: “ma allora chi è stato? Bush?”. Allora non avevo ancora finito il libro e risposi con un laconico “non credo proprio”, e lasciai cadere lì. Ora risponderei usando le parole di Gore Vidal, dall’intervista fattagli da Giulietto Chiesa e Paolo Jormi Bianchi in fondo al libro: “Non può essere vero che Bush e Cheney abbiano avuto qualcosa a che fare con l’11 settembre (senza escludere che in qualche modo vi abbiano avuto un ruolo marginale) perché sono incompetenti”. E risponderei anche che il punto non è se George W. Bush o qualche altro personaggio dostoevskiano abbia organizzato l’attentato. Il punto è - e questo è lo scopo dichiarato di ZERO di Giulietto Chiesa & Co - portare alla luce le presunte menzogne che sono state raccontate al pubblico, ai familiari delle vittime, a tutto il mondo. Smontare la versione ufficiale. ZERO è una raccolta di saggi di sedici autori curata da Chiesa (autore lui stesso del saggio “Come Marte ha vinto Venere l’11 settembre”, che riprende, attualizzandoli, i temi che Chiesa ha cominciato a sviluppare nel suo celebre “La guerra infinita” del 2002). Attraverso teorie, citazioni, opinioni, ipotesi, sollevando dubbi e portando certezze scientifiche, gli autori riducono l’impalcatura della versione ufficiale a un cumulo di macerie. Che viene a rappresentare così, simbolicamente, il Ground Zero da cui ricominciare per cercare la verità sull’11/9 (che “è importante, anzi essenziale: per sopravvivere”, come scrive Chiesa nell’introduzione). Gli autori studiano ogni aspetto dell’attentato: dalla ormai famosa analisi scientifica del crollo degli edifici del World Trade Center, con uno scritto di Steven E. Jones, professore di fisica dell’Università dello Utah, all’audace “Anatomia di un coup d’état” di Webster G. Tarpley, in cui l’autore sostiene che i neocon americani (descritti da Franco Cardini e Marina Montesano in un altro saggio) hanno cospirato contro gli USA per giustificare la loro politica estera. Fra gli altri, Michel Chossudovsky racconta la storia di Al Qaeda e dei suoi rapporti con l’ISI (il servizio segreto pachistano) e David Ray Griffin ci rivela le bugie presenti nel Rapporto della Commissione sull’11/9. Ma, ci chiediamo, perché la versione ufficiale sarebbe un falso? Perché vogliono insabbiare tutto (macchiandosi, peraltro, di alto tradimento)? Si vergognano di non essere riusciti a fermare i terroristi? O c’è dell’altro? La storia bellica americana è stata scritta a suon di complotti, come sostiene Gore Vidal nell’intervista citata: dal Generale Custer a Pearl Harbour, dalla baia del Tonchino ai golpe del Centro e Sud America e via dicendo. Nella loro ottica imperialista gli USA si sono fatti spingere dall’attentato dell’11/9 verso un’ulteriore accelerazione, approfittandone senza esitare (invece di darsi una calmata, di rallentare questa folle corsa verso l’autodistruzione globale, come suggerisce saggiamente il nostro Massimo Fini). Subito dopo l’attentato, con l’aspettativa delle guerre all’Afghanistan e all’Iraq, due stati strategici considerati “culle di terroristi” da democratizzare alla svelta, l’economia americana ha bloccato la sua crisi, che poteva essere la peggiore dopo quella del ‘29, avviandosi a una ripresa che dura tutt’ora, come ci spiega Enzo Modugno nel suo saggio. C’è un nuovo (si fa per dire) nemico pubblico numero uno, Bin Laden, che continuano a propinarci con una gigantesca farsa mediatica. Il libro si conclude con un appello alla verità sottoscritto dai familiari delle vittime dell’11/9, preceduto da dichiarazioni degli ufficiali di grado superiore dell’esercito, agenti dei servizi segreti, delle forze dell'ordine, funzionari governativi, oltre che attori e personaggi dello spettacolo che mettono in dubbio il Rapporto della Commissione sull’11/9. Oltre al libro esiste anche un film di Giulietto Chiesa e Franco Fracassi, dal titolo “Zero - Inchiesta sull’11 settembre” di cui è stata proiettata la prima durante la festa del cinema di Roma lo scorso ottobre (vedi http://www.zerofilm.it). Siamo lontani almeno 100 anni dalla verità sull’11 settembre, come sostiene Chiesa. Si può dire oggi, e forse anche da prima dell’uscita di ZERO, che sull’11/9 sia stato scritto tutto e il contrario di tutto. Tant’è vero che la stessa casa editrice di ZERO, la PIEMME, ha pubblicato anche “11/9 la cospirazione impossibile”, una raccolta di scritti a favore della versione ufficiale in cui sono presenti firme autorevoli (tra le altre quella di Umberto Eco). C’è chi afferma, come Tarpley, che solo con il materiale presente su internet si potrebbero scrivere svariate tesi di laurea sul tema. La vera forza di ZERO, infatti, va al di là dello scoop: è la lotta per resistere alla menzogna, per mantenere viva la riflessione su uno dei più importanti avvenimenti del nostro tempo. No, noi non ci beviamo più menzogne! Ettore Casadei
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