10 Febbraio 2025 Da Rassegna di Arianna del 7-2-2025 (N.d.d.) L’Occidente, quale civiltà del tramonto, è sempre più diviso e dilacerato: una parte contro l’altra; una visione contro un’altra visione; una serie di problemi e soluzioni da un lato, una serie di problemi e soluzioni radicalmente opposte dall’altro lato. L’Occidente, che ancora molti ci si sforza di identificare e immaginare come un corpus unicum, è stato coriandolizzato e frantumato nella sua antica unitarietà, spezzandosi in due grandi macro-aree meta-geografiche. L’Occidente, che perfino per i suoi avversari, come le teocrazie islamiche o il regime cinese, continua a possedere una sua unità, è, invece, a ben guardare, irrimediabilmente scisso in due, al di qua come al di là dell’Atlantico, tanto nel vecchio continente quanto nel nuovo mondo. […] Il modo di concepire l’essere umano costituisce il cuore del problema e la causa prima e diretta della attuale disgregazione dell’Occidente. Nel corso del tempo, soprattutto dell’ultimo mezzo secolo, si sono andati imponendo due modelli antropologici che hanno sempre più perimetrato la propria posizione creando una separazione sempre più netta e delineata tra gli aderenti al primo o al secondo. […] Il primo modello antropologico, che si potrebbe definire come ‘veritativo’, reputa che vi sia una dimensione costitutiva della realtà precipuamente umana che non può essere modificata o cancellata, neanche dal sopraggiungere delle liquide vicissitudini storiche, sociali, economiche o tecnologiche. Le conseguenze di un tale approccio sono evidenti: ritenendo che vi sia una verità normativa che disciplina l’esistenza e la natura dell’uomo, non tutto è concesso o possibile. Secondo tale prospettiva, per esempio, la dicotomia sessuata dell’essere umano non può che essere espressione della sua natura biologica, della sua verità corporea, della sua normatività strutturale. In tale contesto la natura – non soltanto in riferimento alla sessualità – non può essere contraddetta o negata poiché essa rappresenta il principio comune e universale inevitabile che rende plausibile la stessa pensabilità dell’uomo secondo un ordine razionale, cioè secondo l’ordine dell’essere. Tutte le altre dimensioni (economica, sociale, politica, scientifica, tecnologica, etica, giuridica) non possono prescindere dal riconoscimento di un tale fondamento e non possono allora venirsi a trovare in contrasto con questa determinazione originaria da cui ricevono legittimità concreta la dignità e la libertà dell’essere umano. Alla luce del primo modello, insomma, la dignità e la libertà dell’essere umano sono inscindibilmente legate alla natura dell’umanità stessa che in quanto tale è indisponibile – e quindi universale – rispetto alle istanze contingenti che si possono venire a determinare nel corso del tempo. Il secondo modello antropologico, che si potrebbe definire come ‘tecno-egomorfico’, al contrario del primo, ritiene che non vi sia alcuna dimensione costitutiva che caratterizza l’umano e che l’essere umano possa essere il Prometeo di se stesso creandosi e ricreandosi secondo i propri desideri individuali, secondo le esigenze storico-sociali, secondo le possibilità tecno-scientifiche, secondo le molteplici modalità culturalmente esperibili. Le conseguenze, anche in questo caso, si rendono palesi: se non esiste una verità costitutiva che trova nella normatività dell’essere la sua fondazione, ogni aspetto della realtà umana è modificabile e reificabile, malleabile e disponibile secondo la necessità del momento o la volontà dell’individuo. In tale prospettiva tutto l’essere umano è modificabile, non soltanto attraverso la ridefinizione del sesso, ma anche attraverso tutte le istanze tecnomorfiche che rappresentano la colonna portante di ciò che oggi è più comunemente definito come pensiero transumanista. Non esistendo alcuna verità che struttura la realtà umana tutta la realtà viene ridotta ad essere il prodotto delle capacità tecniche e degli impulsi volitivi del singolo soggetto. Le differenze sono, dunque, inevitabili: se per il primo modello la realtà è disciplinata dall’essere, cioè dalla natura dell’uomo, per il secondo modello è esattamente il contrario, cioè l’essere umano è plasmato dalla realtà fatta a immagine e somiglianza dell’oggettività tecnica e della soggettività desiderante. Se per il primo modello la libertà acquista un senso soltanto nell’incontro dei limiti posti dalla normatività dell’essere, per il secondo modello la libertà è l’assenza dei limiti, anzi essa si rende tangibile soltanto nel superamento dei limiti eventualmente ed ingiustamente imposti dalla natura. Se nell’ottica del primo modello l’essere umano integra la propria dignità soltanto nel riconoscimento del suo essere, nell’ottica del secondo modello l’essere umano non ha una dignità in sé e per sé considerata, poiché la dignità viene a coincidere con l’utile, maggiore o minore, che l’essere umano può conseguire dalla sua attività di modificazione della natura e del proprio stesso essere. Così, diversamente da ciò che comunemente ed erroneamente si pensa, non esistono oggi in Occidente argomenti divisivi, poiché semmai esistono delle divisioni che argomentano la loro stessa sussistenza e visione dell’uomo. In questo scenario per il primo modello la famiglia, per esempio, è una istituzione naturale immodificabile come unione monogamica tra uomo e donna; per il secondo modello, invece, essa è un mero prodotto storico e sociale e ci saranno tanti tipi di famiglie quante esigenze di utilità soggettiva sarà necessario raggiungere e soddisfare. Per il primo modello, la vita dell’essere umano non può che procedere inevitabilmente dal suo concepimento fino alla sua fine naturale, mentre per il secondo modello l’uomo proprio attraverso la tecnologia può decidere ogni aspetto della vita: se e quando farla nascere, come farla venire alla luce, e, ovviamente, se e quando porvi termine, il tutto secondo l’assoluto arbitrio individuale. Anche in riferimento ai rapporti tra Stato e cittadino si ripercuotono le differenze dei due modelli considerati. Nella prospettiva del primo modello lo Stato deve essere preordinato al perseguimento del bene comune e le leggi, i decreti, le sentenze che nel suo ordinamento vengono emesse e approvate non possono opporsi alla normatività dell’essere e della natura umana senza rischiare di trovarsi in contraddizione con la propria stessa ragion d’essere; nella prospettiva del secondo modello, invece, lo Stato è soltanto lo strumento ulteriore e superiore del potere individuale, nella misura in cui lo Stato deve essere posto al servizio del soddisfacimento dei desideri e delle volontà individuali, anche di quelle che eventualmente dovessero venire a trovarsi in frontale contrasto con le determinazioni della natura. Con sufficiente certezza, dunque, seppur alla fine di questa sintetica ricognizione, appare chiaro come la cultura occidentale sia oramai irrimediabilmente biforcata secondo i due predetti modelli antropologici che risultano tra loro totalmente e irrimediabilmente incompatibili. In tale frangente ogni tentativo di volerne ricercare la compatibilità o i punti d’unione non è soltanto irreale, ma anche vano e contrario alla logica che presiede, pur ciascuno nella sua particolarità, i due predetti modelli. Sebbene, tuttavia, il secondo modello appaia essere più forte, in quanto decisamente più diffuso e maggiormente condiviso da parti sempre più consistenti della popolazione e della classe intellettuale, mentre il primo modello sembra rannicchiarsi silenzioso in piccole sacche culturali indipendenti, estranee e contrapposte al pensiero dominante, il secondo è proprio il modello che avrà vita più breve e almeno per tre motivazioni principali. In primo luogo: senza l’ancoraggio dell’essere, o perfino contro l’essere, l’agire umano si ribalta presto o tardi in un agire contro l’umano, come la storia ha ampiamente dimostrato nel corso del XX secolo, rivelando il principio universale per cui l’umanità, per rimanere se stessa, deve pensarsi inscritta all’interno dei limiti che la natura le ha posto. In secondo luogo: dal punto di vista sociale e politico il secondo modello, sebbene più seducente, anche perché spesso sostenuto da affascinanti argomentazioni relative alla promessa di una maggiore prosperità – non soltanto materiale – individuale e collettiva, non potrà mantenere le proprie promesse senza contraddirsi, senza svelare, cioè, il suo lato oscuro, ovvero il suo essere vocato a diventare qualcosa di profondamente e radicalmente anti-umano, minando proprio quella stabilità e quel benessere che aveva assicurato di poter garantire come avviene, ed è avvenuto, in ogni contesto in cui l’umanità dell’uomo è stata messa in discussione o direttamente lesa. In terzo luogo: a differenza del primo modello che si pone come descrittivo, il secondo modello s’impone come imperativo e prescrittivo volendo in ogni modo assicurare all’umanità che soltanto tramite le sue proposte è possibile raggiungere un futuro migliore. Il secondo modello si propone, insomma, come una vera e propria forma di tecno-escatologia che intende convertire l’umanità al divenire illimitato e alla salvezza tramite il costante progresso tecnico. Questo è il punto di maggior fragilità del secondo modello: tutte le escatologie secolari che nella storia hanno recitato – seppur per lunghi periodi – la propria parte, sono finite schiacciate sotto il peso della propria stessa inconsistenza ideologica. Prima che ciò accada, tuttavia, dovranno trascorrere sicuramente molti decenni a venire, ed è per questo che l’Occidente farebbe bene a chiedersi cosa fare, non adesso dinnanzi alla lacerazione a cui è sottoposto dal conflitto stridente e insanabile che oggi si registra tra i due modelli antropologici qui sommariamente descritti, ma nel tempo futuro, sempre ammesso che vi sia ancora un margine per rimediare ai danni occorsi nel frattempo, quando tutte le tecno-certezze si saranno sgretolate sotto la pressione della realtà e di quella natura che hanno così ostinatamente negato. Aldo Rocco Vitale
|
|
8 Febbraio 2025 Da Rassegna di Arianna del 7-2-2025 (N.d.d.) Spesso discutendo del processo di asservimento e colonizzazione mentale dell'Europa da parte americana si incontrano voci inclini alla minimizzazione. Si dice: "Vi saranno pure influenze culturali, come è naturale che sia in presenza di una grande potenza, ma pensare ad una regia di influenze sistematiche è complottismo." In questo quadro alcuni dati emersi in questi giorni sono interessanti e forniscono, forse, qualche chiarimento. Su Wikileaks e sul Columbia Journalism Review sono comparse in questi giorni alcune pagine dei rapporti interni dell'USAID, l'Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, recentemente caduta in disgrazia con l'amministrazione Trump - il che ha consentito a molti attori critici del presente governo USA di diffondere informazioni precedentemente secretate. Tra le informazioni emerse vi sono i dati 2023 sui finanziamenti forniti da USAID a 6.200 giornalisti in vari paesi del mondo (a sostegno della libertà di informazione, ça va sans dire), a 707 testate appartenenti a NGO (che, ricordo, sta per Non Governmental Organizations) e a 279 "organizzazioni della società civile operanti nel settore dei media". Tra le testate che appaiono coinvolte - nonostante frenetici tentativi di dire che è tutto un fraintendimento - ci sono prestigiose riviste di politica internazionale come "Politico". USAID appare inoltre direttamente coinvolta nel finanziamento delle attività "informative" di NGO e media che hanno fomentato rispettivamente: la "Rivoluzione delle rose" in Georgia (2003), la "Rivoluzione arancione" in Ucraina (2004), la "Rivoluzione dei tulipani" in Kyrghizistan (2005), la "Rivoluzione dei cedri" in Libano (2005). Questi sono solo dati per cui sono disponibili pezze d'appoggio documentali. Molti altri file sono stati esposti a voce da membri dell'attuale establishment trumpiano. La ragione per cui questi dati hanno potuto emergere è semplicemente che USAID era stato utilizzato dal governo precedente per ostacolare Trump durante la campagna elettorale, e questa è un'operazione di vendetta politica. Non è dunque certo per amore per la verità che queste notizie ora emergono, ma perché sono verità strumentalizzabili politicamente. Va da sé che questa è solo la punta dell'iceberg: innumerevoli altre verità, meno strumentalizzabili nella battaglia corrente, rimarranno in forma di file secretati. Voglio aggiungere a questo quadro, a titolo di microillustrazione di come funziona il potere di colonizzazione mentale made in USA, una notizia dal dorato mondo dei blockbuster cinematografici. Nel nuovo film della Marvel, "Captain America. Brave New World", in uscita in questi giorni nelle sale, ricompare una supereroina nata negli anni '80, di nome Sabra. Si tratta di una supereroina israeliana, che era stata proposta originariamente come agente del Mossad, e che nella nuova versione appare solo come free lance che collabora col Mossad (un po' NGO anche lei, dai). Siamo certi che tutto ciò non abbia nulla a che vedere con le esigenze di ripulire l'immagine di qualcuno che si è appena macchiato di uno sterminio con pochi precedenti? In verità queste forme pubblicitarie così dirette e smaccate sono le meno efficaci. Il segreto di ogni persuasione occulta ben riuscita sta nel dar l'impressione al fruitore di essere giunto ad un certo giudizio (politico, culturale, morale) da solo. Questo avviene nel modo migliore quando il messaggio non appare in primo piano, ma come elemento narrativo sullo sfondo (tipo, mentre si svolge una vicenda avventurosa, tra i cattivi di contorno in un periodo compare la mafia serba, in un altro la mafia russa, in un terzo un cartello messicano, in un quarto lo sciamannato terrorista arabo, ecc. , a seconda della bisogna). Così, nei fumettoni di fantascienza del passato come Flash Gordon il villain era il "malvagio imperatore Ming", stereotipo del perfido cinese, ecc. ecc. Ciò con cui abbiamo a che fare non è una singola tesi che si vorrebbe far passare, una specifica dottrina, una particolare asserzione; ciò con cui abbiamo a che fare è un lavoro capillare, pluridecennale, strutturato, supportato da poderosi mezzi finanziari, e capace di lavorare sulle menti soprattutto nelle fasi in cui le difese critiche sono abbassate, come nella sfera dell'intrattenimento e del relax. Chi pensa che questo sia complottismo farebbe bene a svegliarsi, perché da tempo e sempre di più la principale battaglia del mondo moderno si gioca e si giocherà sulla conquista delle menti; e chi vi lavora non sono dilettanti od opinionisti allo sbaraglio, ma gruppi altamente specializzati e dotati di risorse tecniche ed economiche pressoché illimitate. Andrea Zhok
|
|
6 Febbraio 2025 Molti si illudevano che il commercio sarebbe stato libero per sempre, «fino ai più remoti recessi dell’inferno», come avrebbe detto Schumpeter. Adesso che nell’inferno siamo davvero piombati, si sorprendono che la libertà degli scambi sia destinata alle fiamme. Eppure il problema era lì, evidente anche agli sprovveduti. Il globalismo senza regole creava uno squilibrio crescente nei rapporti commerciali, con paesi che importavano troppo e paesi che esportavano troppo. E un conseguente accumulo di sbilanciamenti finanziari, con gli esportatori a veder montare i crediti e gli importatori a farsi sommergere da una montagna di debiti. I più sommersi di tutti: gli Stati Uniti, con un passivo netto verso il resto del mondo che ormai supera i 23 mila miliardi di dollari. È dalla crisi del 2008 che le amministrazioni Usa hanno intuito che l’amore americano per le importazioni ha messo il debito su una traiettoria pericolosa. Da allora, i civil servants di Washington hanno inesorabilmente aumentato le barriere commerciali e finanziarie, tariffarie e non tariffarie. E il mondo, come spesso accade, li ha seguiti a ruota. L’implicazione è che, se nel 2010 si registravano a livello mondiale 56 provvedimenti discriminatori dei commerci, nel 2023 siamo arrivati a contarne 376, un incremento di oltre sei volte. L’era protezionista, insomma, è arrivata da un pezzo. Trump non sta facendo altro che portare la restrizione degli scambi alla sua estrema conseguenza: la guerra, commerciale e non solo. È un conflitto che per il momento la nuova America trumpiana prova a scatenare contro l’intero globo. Fino a ieri gli Stati uniti applicavano la dottrina del friend shoring: fare affari con gli «amici» canadesi ed europei e tenere alla larga i «nemici» russi, cinesi e arabi non allineati. Adesso, però, la minaccia protezionista americana si rivolge contro tutti, in modo apparentemente indiscriminato. Sembra così avverarsi il monito di Xi Jinping: «Perseguire il protezionismo è come chiudersi in una stanza buia: il vento e la pioggia possono esser tenuti fuori, ma lo sono anche l’aria e la luce». Il risultato è che si spara alla cieca, senza più distinguere nemmeno i vecchi alleati. Grande è dunque la confusione sotto il cielo, al punto che tutti i piani messi in campo dai vertici europei potrebbero diventare carta straccia. Non ultimo il rapporto Draghi, che dell’alleanza politico-economica con gli Stati uniti aveva fatto la sua stella polare. L’America ci ha prima costretti a comprare la sua energia a caro prezzo, adesso pretende di metter pure una sovrattassa sulle nostre merci. Potrebbe esser troppo anche per il più subalterno dei vassalli. Ma non è solo la bussola atlantista che rischia di incepparsi. A ben vedere, è tutto il cardiogramma dell’Unione europea che torna in questi giorni a fibrillare. Tra i pochi collanti rimasti della politica comunitaria c’è infatti il regime dei commerci coi paesi extra-Ue, ancora sostanzialmente unico per tutti i membri dell’Unione. Se però adesso il presidente americano gioca a blandire singolarmente ciascun paese Ue, è possibile che qualche genio abbocchi all’amo e faccia saltare in aria il mercato unico. Primi sospettati, guarda caso: Meloni e il suo governo. L’Unione europea era l’unica potenza nelle condizioni di mettere attorno a un tavolo il grande debitore americano e il grande creditore cinese per avviare una trattativa economica internazionale, la madre di tutti i concreti processi di pace. Non è stata in grado quando appariva unita, poco probabile che ci provi oggi. Ormai c’è chi spera solo che l’Europa si riscatti con un po’ di legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente, tariffa per tariffa. Nella bolgia della crisi del vecchio ordine liberista è la mossa più scontata. Ed è anche la via per gettare il capitalismo mondiale in un girone d’inferno ancor più rovente. Emiliano Brancaccio
|
|
C'è del marcio in Danimarca |
|
|
|
1 Febbraio 2025 Si parla assai in queste ore della telefonata con cui il presidente USA Donald Trump ha rovesciato sulla premier danese Mette Fredriksen ogni forma di sgradevolezza che un boss spietato e potentissimo potrebbe rovesciare su un picciotto indisciplinato ma debolissimo. Le ha significato la pretesa di papparsi la Groenlandia, un'isola con una popolazione uguale a quella di Cuneo ma con una superficie di oltre 7 volte l'Italia, risorse naturali formidabili e la posizione geostrategica giusta per prendersi metà dell'Artico. Prevedo che entro breve tempo la Groenlandia sarà soggetta alla sovranità di Washington senza che Copenaghen né nessuno in UE possa opporre resistenza militare. I danesi raccolgono quel che hanno seminato. Nel 2003 parteciparono all'aggressione all'Iraq sulla base di pretesti inventati. Nel 2008 riconobbero la secessione del Kosovo, con conseguente menomazione della Serbia come esito finale dell'aggressione alla Jugoslavia da parte della NATO. In entrambe le occasioni era primo ministro Anders Fogh Rasmussen, che poi divenne segretario generale della NATO, impegnandosi nella sua espansione aggressiva verso Est, nell'intensificazione della russofobia del dibattito europeo, nell'aggressione diretta alla Libia e in quella indiretta alla Siria. Rasmussen poi, come un Di Maio qualsiasi, è diventato consulente politico ben remunerato, con incarichi anche presso i presidenti ucraini Poroshenko e Zelensky, ossia i terminali corrotti del più concentrato, opaco e gigantesco trasferimento di denaro pubblico degli ultimi decenni. In questi anni, la signora Fredriksen è stata tra le più generose personalità politiche impegnate a sguarnire i propri arsenali per partecipare al suicidio geostrategico continentale dell'Europa Occidentale. Il boss d'Oltreoceano ha potuto fare perciò una cosa semplice: ha telefonato a un'emerita nullità che rappresentava una classe dirigente - quella danese - senza alcun credito morale, etico, politico, senza armi, senza peso, senza relazioni politiche significative, desertificate da decenni di abusi occidentali a cui si è prestata con la più squallida ipocrisia (sai, "l'ordine internazionale basato sulle regole", come no?). Trump, nel quadro di un racket planetario conclamato dove gli europei tanto innocenti non sono, sa che c'è del marcio in Danimarca e si perita di ricordare chi è che sta in cima alla catena alimentare. È appena l'antipasto. Pino Cabras
|
|
29 Gennaio 2025 Da Rassegna di Arianna del 21-1-2025 (N.d.d.) Nel 2018, organizzai da solo, a Bologna, due manifestazioni di piazza contro la politica estera di Trump - e specificamente contro i bombardamenti sulla Siria - infischiandomene completamente del disinteresse sull'argomento espresso tanto dai "compagni" quanto dai sovranisti. È molto probabile che io e altri dovremo replicare tali mobilitazioni nei prossimi anni, per difendere non solo il Venezuela o Cuba come paesi difettosissimi ricercanti però alternative al neoliberismo, ma anche e soprattutto per affermare il principio dell'inviolabilità della sovranità nazionale come prerequisito dell'autodeterminazione dei popoli. Malgrado quanto appena detto, come cittadino italiano ed europeo so però che il mandato di Trump rappresenta anche un'opportunità fortemente positiva per liberarsi da pericoli esistenziali che gravano su tutti i cittadini del continente, vale a dire quell'agenda politica del World Economic Forum su cui si modella altresì l'agenda della Commissione Europea. La fuoriuscita di Trump dall'OMS assesta un duro colpo al progetto che tale istituzione - nonché Ursula von der Leyen e Mario Draghi - definirono anni fa "Era delle Pandemie". La fuoriuscita di Trump dall'Accordo di Parigi, parimenti, implica battuta d'arresto per un "Green Deal" che non è mai stato progettato per difendere l'ecosistema bensì per impoverire il ceto medio, sottrarre a esso il diritto al possesso di abitazione e allo spostamento, generare artificialmente una crisi alimentare devastante. Stesso può dirsi per le soluzioni di continuità determinate da Trump in merito al deregolazionismo sui flussi migratori e al transgenderismo fatto assurgere a modello socio-culturale. Data però la loro complessità, su questi ultimi due temi occorrerà parlare in apposita sede. In sintesi, da oggi non c'è nessun "noi" che possa associare Ursula von der Leyen e il singolo cittadino europeo: ogni colpo che Trump sferrerà contro l'Unione Europea, dev'essere al contrario colto come opportunità di abbattere definitivamente un sistema e un'oligarchia eurofederali che ci hanno portato solo miseria, restrizione della democrazia e stato di guerra. Pertanto, i destri continuino pure a fidarsi di Trump incondizionatamente; e i sinistri continuino pure a piangere per il parziale scacco subito dai loro padroni della élite trans-globalista: chi persegue il punto di vista dell'autonomia popolare, invece, valuta e scompone analiticamente gli avvenimenti d'una fase storica solo ed esclusivamente sulla base di quello che è l'interesse dei popoli. Riccardo Paccosi
|
|
|