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Il rasoio di Occam PDF Stampa E-mail

24 Luglio 2022

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 Da Rassegna di Arianna del 17-7-2022 (N.d.d.)

Narrano le storie che durante l’assedio di Bisanzio, i giorni del 1453 in cui si chiuse la vicenda millenaria dell’Impero Romano d’Oriente e iniziò la storia ottomana e mussulmana di Istanbul, filosofi e teologi di corte continuassero a discettare di questioni come il sesso degli angeli. Indifesa – rimase al suo fianco un piccolo contingente di ardimentosi veneziani e genovesi al comando di Giovanni Giustiniani – la nobile città capitolò e l’imperatore Costantino XI Paleologo con i suoi pallidi intellettuali furono passati a filo di scimitarra dai giannizzeri di Maometto II. Finiva una civiltà gloriosa, un nuovo capitolo – che dura ancora – si apriva, nell’indifferenza del resto d’ Europa. Sedici secoli prima, i Cartaginesi, sbarcati in Spagna, assediavano la colonia romana di Sagunto. Roma non reagì, prigioniera di interminabili discussioni e la città venne rasa al suolo. Solo dopo molti mesi l’Urbe repubblicana comprese il pericolo ed iniziò la seconda guerra punica. Celebre, nel resoconto di Tito Livio, è la frase “dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”, mentre a Roma ci si consulta, Sagunto è espugnata. Nel 1912 il transatlantico Titanic, orgoglio dell’industria e dell’impero britannico, svolgeva il suo viaggio inaugurale. La nave che avrebbe dovuto sconfiggere il mare per merito della tecnica, affondò sbattendo contro un iceberg. Fino a un attimo prima, nel salone delle feste si danzava al suono dell’orchestra. Tre esempi, tre momenti diversi della lunga vicenda umana in cui la fine, la sconfitta e la morte sembrano giungere inattese, uno scherzo del destino, un imprevedibile mossa sulla scacchiera della storia.

A questo pensavamo leggendo una cronaca relativa alla Chiesa d’Inghilterra. I prelati anglicani – malferme colonne spirituali di un impero in disfacimento – al termine dell’ultimo sinodo della confessione di cui è capo Sua Maestà britannica, hanno gettato la spugna. Alla domanda: qual è la definizione di donna della Chiesa d’Inghilterra? la risposta – ufficiale, scritta con tutti i crismi della dogmatica – è stata che “non esiste una definizione ufficiale che consideri […] le complessità associate all’identità di genere.” Sagunto non è più assediata, ma conquistata senza colpo ferire, ed è emblematico che le chiavi dell’ex fortezza siano consegnate da un’istituzione britannica, ossia della nazione-impero che ha forgiato per secoli il destino di buona parte del mondo. Per di più da un’autorità spirituale fortemente legata al potere politico. Sua Maestà – e con lei l’Europa e l’Occidente – concetto assurto a nome di una civilizzazione – ha perduto. Anzi no, ha sposato la causa nemica e i suoi dottori non sanno definire la donna. Di conseguenza, non sapranno districarsi con l’idea di uomo. Non sanno più chi sono e chi siamo. Non hanno perduto, sono morti di vecchiaia, di esaustione. Quando qualcuno ha un incidente o un malore, i medici pongono alcune domande elementari per capire se il paziente è orientato. Nel caso in questione, il paziente non solo non è più orientato, ma ha perduto del tutto i codici del giudizio. Non sa più definire l’esemplare femmina della specie umana – per gli animali si vedrà – annebbiato dall’ identità di genere, concetto posticcio, assai simile alla fede degli amanti secondo il Metastasio, “come l’araba fenice, che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa “. L’imbroglio dell’identità di genere penetra nelle antiche stanze di Canterbury e, anziché essere confutato con tutti gli argomenti della biologia, della filosofia, della sociologia e della cultura millenaria, diventa l’elemento destabilizzante, addirittura il virus, il trojan, la decostruzione finale, quella dell’identità personale e intima dell’essere umano. Le complessità dell’animo e della persona umana – non certo scoperte dalla cultura della cancellazione – inibiscono ormai anche ai reverendi padri (e madri, la parità di genere è cosa fatta tra gli anglicani) la proclamazione della verità della condizione umana. Reagiscono le femministe – che un’idea di donna ce l’hanno – e scrittrici come Joanna K. Rowling, la madre (si potrà dire?) di Harry Potter, già invisa al carrozzone progressista per aver affermato principi biologici ed esistenziali normalissimi diventati idee proibite nella patria della democrazia, in cui il dissenso può soltanto essere “lealissima opposizione di Sua Maestà”. […]

Poiché certo i chierici di Sua Maestà hanno dimestichezza con la filosofia medievale, rammentiamo loro un concetto che ben conoscono, il rasoio di Occam. Il francescano inglese del XIV secolo richiamava alla semplicità, al rigore, all’inutilità di disquisizioni astratte e dispute su questioni irrilevanti che perdevano di vista l’essenziale. Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, non si devono moltiplicare gli elementi più del necessario. Il rasoio taglia le ipotesi più azzardate e riduce alla spiegazione più semplice, evidente. Occam agiva all’interno della tradizione di ascendenza classico-aristotelica. Per lui, dibattere sulla definizione di donna sarebbe stato impensabile: la risposta era sotto gli occhi di chiunque. Certo, al tempo suo, non si parlava di prospettiva di genere, fluidità e orientamento sessuale: per questo la civiltà e l’umanità sono arrivate sino a oggi. La corsa è finita, il binario si è interrotto; resta l’inerzia di una velocità divenuta folle nell’ultimo mezzo secolo. Folle come pararsi dinanzi al treno che esaurisce la sua spinta. Aveva ragione Evola: non resta che tenersi in piedi tra le rovine – continuando a riconoscerle tali – e cavalcare la tigre, ossia restare in groppa alla fiera selvaggia come in un rodeo. Il rasoio di Occam ci impone di disinteressarci di argomenti risibili e contingenti (il sesso degli angeli, la prospettiva di genere) e guardare dritto credendo ai nostri occhi. Un po’ di sano realismo, o di disincanto del mondo; non moltiplicare gli enti: un uomo è un uomo, una donna è una donna, i due poli sessualmente distinti della specie umana. Punto. Tutto il resto è ridondante, gioco di parole, inganno da tagliare con il rasoio. In questo caso, e in tutti gli altri in cui agisce la decostruzione, la distruzione programmata di ogni identità e certezza, l’essenziale è visibile agli occhi. Con buona pace di spiriti non inquieti, ma disturbati, aveva ragione il franco disincanto del poeta di un secolo fa, agli albori della crisi. Nella sua lirica più famosa, Taci, anima stanca, Camillo Sbarbaro offre il suo personale rasoio di Occam. Al termine di tutte le illusioni e di tutti gli inganni, resta la nuda realtà. E allora “gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano son donne, e tutto è quello che è, soltanto quel che è”. Non sarà entusiasmante, non darà conto dell’immensa complessità dell’essere, ma è molto meglio del nichilismo, della destituzione di ogni verità, perfino che la neve è bianca e l’erba verde in primavera. Per una chiesa cristiana, sia pure secolarizzata e dal rapporto costitutivo con il potere come quella anglicana, non dovrebbe essere difficile scorgere l’ombra del Creatore sulle cose e perfino sui nomi e le definizioni, che, come sapevano Confucio e Maometto, sono l’anima e il senso di ciò che viviamo, vediamo, giudichiamo. Un disincanto che è in realtà un reincanto, un ritorno all’origine, come la saggezza antica dei nostri nonni, che avevano le idee chiare sull’essenziale e insieme una sincera apertura al trascendente. Per loro non avevano senso le domande oziose e sapevano assai bene chi è una donna e chi è un uomo. Ma la modernità, inaugurata dai Lumi, ha finito per accecare. Troppo sole può dare alla testa, produrre febbre. Troppo sole può fare morire: non lo ha detto un filosofo, ma una canzone (Un uomo, ma chi è? Non dire che assomiglia a me). La nostra civiltà muore divorando se stessa, come nel mito greco Saturno divorava i suoi figli per timore di essere soppiantato da loro. […]

Impaurito, ostaggio dei dubbi sparsi ad arte per destabilizzarlo, l’uomo occidentale postmoderno rinuncia a qualsiasi prospettiva storica, qualunque eredità. La soluzione è un presente ossessivo, che nega “prima” senza credere a “dopo”. […] Se uomini di fede non sanno più chi – anzi “che cosa” (un oggetto, un accidente) è la donna, l’essere umano, significa che non credono più alla verità cristiana, oltreché alle evidenze della biologia. Credenti del nulla, fortunatamente a loro volta non sono più creduti dal disperso popolo di Dio. Nessun’altra agenzia di senso – laica, politica o religiosa – sembra approssimarsi all’orizzonte, nessun fil di fumo appare in albe sempre più tempestose. Esauriti i maestri di ieri, caduti in confusione i loro esanimi eredi, ci è toccato in sorte di essere maestri a noi stessi. Non ci resta che tornare ad ascoltare la voce del cuore – la stessa della ragione – e trascurare tutto il resto. Non ti curar di lor, ma guarda e passa, esortava Virgilio al corteo dei pusillanimi. A noi è richiesto di fare di più: tapparci le orecchie, tenere spalancati gli occhi e credere a ciò che vediamo. I concetti, come le parole, hanno sempre dei padroni che determinano i significati e innanzitutto la percezione. Confucio voleva rettificare le denominazioni. Se le denominazioni non sono corrette, se non corrispondono alla realtà, il linguaggio diventa senza oggetto, per cui l’azione diventa impossibile. La verità confuciana è evidente in un mondo che alimenta una confusione insopportabile. Non esiste più la concordanza tra la parola e la cosa, la verità che altro non può essere che coincidenza della realtà con l’intelletto, adaequatio rei et intellectus. I padri anglicani – neo avanguardie del nichilismo – dovrebbero saperlo e non sarebbe male se tornassero alla lezione più semplice: una mela è una mela, un uomo è un uomo, una donna è una donna. Gli enti non devono essere moltiplicati (e confusi, e capovolti) senza necessità. Altrimenti, siamo a Bisanzio: il sesso degli angeli mentre volteggiano le scimitarre. Oppure a Sagunto, espugnata mentre si discuteva di sottigliezze giuridiche. O sul Titanic, il superbo manufatto spezzato dall’antica, primordiale forza della natura. E l’orchestra suonava, e i passeggeri di prima classe erano allegri un attimo prima dell’impatto. Morirono gai, confusi e sbigottiti: la nostra metafora.

Roberto Pecchioli

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