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L'alternativa dei beni comuni PDF Stampa E-mail

30 Settembre 2024

 Da Rassegna di Arianna del 27-9-2024 (N.d.d.)

Per individuare i beni comuni ai fine del bene comune occorre definire il significato di bene in termini economici e civili. Ci piace il ragionamento proposto da Maurizio Pallante. Gli oggetti e i servizi scambiati in denaro sono merci. La parola che definisce un oggetto o un servizio da cui le persone pensano di ricavare un’utilità è bene. Di questo intendiamo trattare. Esistono beni, cioè oggetti e servizi utili, che non si comprano, per scelta o perché si preferisce autoprodurli o scambiarli sotto forma di dono. Una bestemmia per il sistema mercantile in cui tutto ha un prezzo in denaro. Altri beni che non si possono acquistare sono i cosiddetti beni relazionali, ossia ciò che appartiene o riguarda la comunità di cui si fa parte, nonché alcuni beni comuni di cui si ha il diritto naturale di usufruire. I beni comuni, quelli autoprodotti o scambiati sotto forma di dono, i beni relazionali, non rientrano nella categoria delle merci. Dunque, vanno preservati e sottratti al mercato. Molti oggetti e servizi che si acquistano sul mercato e rientrano nella categoria delle merci non hanno alcuna utilità.

Tra i beni relazionali includiamo la tutela del territorio nella doppia accezione di salvaguardia della natura e di mantenimento delle comunità che ci vivono. Due elementi che hanno una crescente valenza economica, oltreché civile. Pensiamo alla spese di ripristino e ricostruzione dopo eventi climatici estremi. Investire nella difesa della natura , oltre a evitare catastrofi, determina cicli economici virtuosi, permette alle popolazioni di vivere meglio e di creare benessere attraverso l’inventiva, la sapienza antica e perenne della nostra gente. Si tratta di un bene relazionale che diventa bene comune, volano di sviluppo intelligente. Ugualmente, è un bene relazionale e insieme comunitario non privare – o ripristinare – livelli di servizi accettabili per milioni di cittadini che vivono – per nascita o scelta – nelle zone rurali e in aree lontane dai grandi flussi commerciali. La chiusura dell’ufficio postale, dell’ultimo negozio di prossimità, del bar che fa da punto di ritrovo e riferimento, è il colpo mortale per centinaia di comunità. L’aiuto pubblico diventa investimento a lungo termine con immense ricadute in termini di qualità della vita (un bene comune immateriale) difesa e ricostruzione del territorio, capacità di tenere in vita paesi e vallate intere.

Sotto il profilo materiale, il bene comune per eccellenza è l’acqua. Nessuna concessione al mercato: l’acqua è vita e non se ne può fare mercato. Anche in questo caso, investire su bacini che assicurino l’approvvigionamento civile, agricolo e industriale e insieme evitino il succedersi di catastrofi che sfigurano il territorio, devastano l’economia e la vita delle comunità, dovrebbe essere una priorità ineludibile, specie in considerazione dei mezzi tecnologici oggi a disposizione. I privati – ovvero i giganti speculativi – vanno esclusi, cacciati dallo sfruttamento dell’acqua. Altra cosa è la collaborazione tra il potere pubblico e le popolazioni, di cui va incentivata la capacità di innovazione, la fantasia nell’escogitare soluzioni e utilizzata la naturale propensione di risolvere i problemi della filiera idrica. Bene comune è anche la capacità di autogoverno delle comunità locali, a cui va finalmente permesso di esercitare il principio di sussidiarietà, che i colossi padroni del mercato contrastano con la forza del denaro. L’acqua è il più evidente dei monopoli naturali in capo alle comunità e alle istituzioni che le governano. Un altro bene comune che va sottratto al mercato – ossia alla volontà monopolistica, predatoria di pochi – è la sanità. La volontà delle oligarchie, in Occidente e in particolare nell’UE, è la privatizzazione del settore. Nessuna obiezione all’esistenza della sanità privata, ma ciò che accade, in Europa e in Italia, è intollerabile. Chi frequenta gli ospedali e i pronto soccorso precipita in gironi infernali: inefficienza, promiscuità, tempi di attesa interminabili che significano sofferenza, dolore, perdita di vite umane, non di rado in condizioni civili indegne. Tutto questo- al di là della dedizione di chi ci lavora – è voluto. La scelta scellerata è deviare verso il privato il maggior numero di prestazioni, servizi, professionisti. Non si fa mercato della salute, ossia della sopravvivenza, né è accettabile che un ambito così delicato sia devoluto interamente alle regioni. È lo Stato che deve riprendere le redini della sanità, è il potere politico che deve garantire il diritto di tutti, da Bolzano alla Barbagia, nelle aree metropolitane e in quelle marginali a un elevato livello di assistenza universale. Basta con la chiusura di presidi e ospedali pubblici, fatta salva la necessità di concentrare, per motivi di qualità di macchinari e tecnologie, le prestazioni più complesse. Nella sanità il flusso di denaro che passa dal sistema pubblico a quello privato è immenso. Al di là delle declamazioni elettorali, nessuna forza politica ha la volontà di affrontare il problema.

Beni comuni sono la casa di abitazione, il terreno agricolo, la rete di infrastrutture per la mobilità. Il potere politico deve garantire l’accesso alla proprietà diffusa dell’abitazione; impossibile se non si sconfigge la tenaglia della finanza speculativa e della precarizzazione sociale. È sempre più difficile oltre che costoso accedere ai mutui per l’abitazione (e per l’avvio della piccole e medie attività imprenditoriali, commerciali e artigianali) a causa delle condizioni imposte in regime pressoché monopolistico dal sistema bancario. Esclusione dei più giovani, dei lavoratori con contratti precari, dei lavoratori poveri, che pur avendo un impiego stabile, ne ricavano un reddito insufficiente . È il mercato, si sente dire dai suoi adoratori, ossia gli interessati beneficiari. Non è vero e comunque il mercato non è la misura di tutto né la giustificazione di ogni ingiustizia.

Il sistema creditizio – nato per sostenere il benessere, l’intraprendenza, le buone idee – è stato del tutto privatizzato. Non esistono più, se non come imprese volte al profitto, le casse di risparmio e le banche popolari. Resiste in forma residuale il credito cooperativo. L’abolizione delle leggi bancarie che fecero grande l’Italia (1926, 1936), tanto da essere copiate dagli Usa di Roosevelt, ha avuto l’ effetto di una bomba sociale che esplode nel tempo. Anziché privatizzare – senza riguardo per gli interessi nazionali- serve creare una grande banca pubblica con funzioni di credito all’impresa nazionale, alla ricerca e all’innovazione. Una banca pubblica ha il diritto di approvvigionarsi di moneta alle condizioni delle banche centrali, bypassando -almeno in parte- il più odioso dei monopoli, quello della creazione monetaria a debito, demandata a un soggetto finanziario privato indipendente, il sistema delle banche centrali. Non vi è stata misura più devastante della privatizzazione della moneta, che ha prodotto il sistema perverso del debito pubblico, impagabile per evidenza matematica. La menzogna più grande, alimentata dal falso mito delle “autorità monetarie”, i Mario Draghi e le madame Lagarde, agenti della cupola finanziaria, sottratti da assurde guarentigie legali internazionali alle norme, ai controlli, alle responsabilità .

Nel XXI secolo l’altro gigantesco oligopolio privato da attaccare riguarda le grandi reti informatiche e tecnologiche, le autostrade virtuali su cui corrono miliardi di dati e metadati utilizzati in ambito economico, finanziario, militare. Il sistema di telecomunicazioni è decisivo per la sicurezza degli Stati e la libertà dei cittadini. Non può essere in mano al grumo fintech. Nella guerra russo ucraina i satelliti utilizzati sono in gran parte proprietà di colossi privati legati allo Stato profondo di alcune potenze, Usa e Israele su tutte. Non è pensabile che i dati relativi alla sicurezza dello Stato – con il relativo immenso potere di ricatto – non siano di esclusiva pertinenza degli Stati, espressione dei popoli.

Sin troppo ovvio rivendicare la natura di bene comune delle reti energetiche, di infrastrutture quali porti e aeroporti, di alcuni settori industriali strategici. Al contrario, i governi continuano a privatizzare. È di questi giorni l’autorizzazione data a Leonardo, che opera nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, di cedere una quota del tre per cento a Black Rock, il più potente fondo del pianeta. Entusiasmo sciocco del governo: è la prova, afferma, che il sistema funziona e le imprese italiane sono appetibili. Sì, dalle cupole transnazionali che finiranno con dominare settori economici e di ricerca vitali, orientandoli senza riguardo all’ interesse nazionale. Analoghe privatizzazioni – parziali ma indicative di un percorso di spoliazione di beni comuni – riguarderanno Ente Poste (con la conseguente fine della capillare diffusione territoriale degli sportelli) e le ferrovie. Campane a morto per le linee non redditizie, in violazione del dettato costituzionale che assicura la mobilità di tutti i cittadini, indipendentemente dalla residenza.

Purtroppo potremmo continuare, ad esempio parlando della ricerca scientifica, che deve essere libera ma i cui risultati sono un bene comune in cui il mercato va subordinato all’interesse pubblico. Oppure, delle infrastrutture stradali. La privatizzazione di Autostrade ha offerto un enorme polmone finanziario a chi ha privilegiato il profitto alla sicurezza e all’innovazione, con il risultato di incuria, malfunzionamenti, disastri come il crollo del Ponte Morandi. Spesso la giustificazione politica delle privatizzazioni è l’asserito vantaggio in termini di qualità e tariffe. Abbiamo nelle nostre tasche la prova del contrario; avere affidato beni comuni a privati (generalmente stranieri, incontrollabili, più potenti dello Stato) ha tagliato spietatamente stipendi e occupazione. Senza peraltro cambiare la situazione del debito pubblico: pochi miliardi in cassa a fronte di un debito enorme e soprattutto alla rinuncia alla sovranità su beni comuni e – assai concretamente – ai profitti certi di attività (distribuzione di energia, telefonia ) esercitate ora da privati in regime di monopolio.

Un libro dei sogni, diranno molti, la rivendicazione di beni comuni come pegno del bene comune. Vero, ma solamente se non riconosciamo la possibilità di rovesciare il vigente sistema fondato sulla privatizzazione oligarchica generalizzata. Povertà e proletarizzazione in basso, ricchezza sino all’onnipotenza in alto, con la superstizione della maledetta “stabilità”, ossia il divieto – legalmente stabilito da leggi fatte da lorsignori per se stessi – di modificare il sistema. L’eternità del male per falsa assenza di alternative, la negazione del bene comune attraverso l’appropriazione dei beni comuni.

Roberto Pecchioli

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