L'asse che non vacilla

7 Giugno 2023

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 Da Rassegna di Arianna del 5-6-2023 (N.d.d.)

Dall’interesse di Ezra Pound per l’insegnamento confuciano nacque, tra l’altro, una versione italiana del Chung Yung, il testo canonico attribuito a Tzu-ssu, nipote di Confucio vissuto nel V sec. a.C. In esso “la moralità assume funzione cosmica, in quanto l’uomo opera la trasformazione del mondo e continua, quindi, nella società, il compito creativo del Cielo”; insomma, il Chung Yung “insegna a sviluppare la capacità di perfezionare sé ed il mondo mediante la comprensione delle cose e la consapevolezza della propria azione”. Il commento che tradizionalmente accompagna questo testo spiega che chung è “quello che non si sposta né da una parte né dall’altra” e che yung significa “invariabile”, sicché Pound scelse di rendere il titolo dell’opera con L’asse che non vacilla, mentre i traduttori successivi hanno optato per soluzioni quali Il costante mezzo o Il giusto mezzo.

Il medesimo significato “assiale” risuona nel nome mandarino della Cina, che è Chung Kuo, “il Paese del Centro”, “l’Impero di Mezzo”. Se è vero, come fa notare Carl Schmitt, che fino all’epoca delle grandi scoperte geografiche “ogni popolo potente si considerava il centro della terra e guardava ai propri domini territoriali come alla casa della pace, al di fuori della quale regnavano guerra, barbarie e caos”, in buona misura ciò sembra vero anche nel caso della Cina odierna, la cui oggettiva centralità geografica e geopolitica è efficacemente descritta da Heinrich Jordis von Lohausen (1907-2002) in Mut zur Macht. “Fra tutti i subcontinenti dell’Eurasia – scrive il generale austriaco –  la Cina occupa la posizione strategica più forte: la triplice copertura delle montagne e dei deserti dell’Asia interiore, la corona delle isole periferiche e la barriera insormontabile della razza, della lingua e della scrittura che si erge contro ogni guerra psicologica delle nazioni bianche (…) la natura l’ha posta vicino all’oceano, le ha dato una posizione decisiva tra l’India e il Giappone, tra la Siberia e il Pacifico. Sulla costa occidentale del Pacifico, la Cina si presenta come il baricentro naturale, il centro fisso da sempre. Tutte le questioni relative all’equilibrio mondiale trovano risposta a Pechino. (…) I tentativi di una presa di potere economica o militare non possono nulla contro di essa, poiché la sua estensione è troppo vasta. È di un’altra razza e di una cultura antica, molto più antica. Ha accumulato in sé tutta l’esperienza della storia del mondo e resiste ad ogni trasformazione. Essa è inattaccabile”. Il fatto che la Cina sia oggi in procinto di riacquisire il ruolo assiale al quale sembrano destinarla una posizione geografica centrale e un’esperienza storica di cinquemila anni ossessiona da tempo gli strateghi e gl’ideologi dell’imperialismo statunitense, i quali ormai scorgono nella Repubblica Popolare una “minaccia peggiore dell’Asse [Roma-Berlino-Tokio] nel XX secolo” e vedono nella solidarietà sino-russo-iraniana un nuovo “Asse del Male”.

A Richard Nixon, che dal 21 al 29 febbraio 1972 si trattenne in Cina nel corso di una visita ufficiale che sanciva il disgelo dei rapporti tra gli Stati Uniti d’America e la Repubblica Popolare Cinese, viene attribuita la frase seguente: “Basta fermarsi un momento a riflettere su cosa accadrebbe se qualcuno capace di assicurare un buon sistema di governo riuscisse a ottenere il controllo di quel territorio. Buon Dio, nessuna potenza al mondo potrebbe… Voglio dire, mettete 800 milioni di cinesi al lavoro con un buon sistema di governo, e diventeranno i leader del mondo”. Un quarto di secolo dopo, l’incubo della “Sfera di coprosperità della Grande Asia orientale” (in giapponese Dai Tōa Kyōeiken) tornava ad agitare i sonni degli yankee, poiché il teorico statunitense dello “scontro delle civiltà” assegnava alla Repubblica Popolare Cinese l’eredità del progetto imperiale nipponico, il cui obiettivo era stato quello di creare un’unione economica e politica coi paesi dell’area del Pacifico, dell’Asia orientale, dell’Asia centrale e dell’Oceano Indiano. “Quello di ‘Grande Cina’scriveva nel 1996 Samuel P. Huntington nel paragrafo La Grande Cina e la sua ‘sfera di coprosperità’ – non è dunque semplicemente un concetto astratto, ma al contrario una realtà economica e culturale in rapida espansione, e che ha cominciato a diventare anche una realtà politica”. Il quadro dipinto da Huntington veniva ulteriormente arricchito dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, il quale insisteva sul tema della centralità della Cina e sulla naturale espansione dell’influenza cinese verso le aree circostanti. “La storia – scriveva Brzezinski – ha predisposto l’élite cinese a pensare alla Cina come al centro naturale del mondo [the natural center of the world]. In effetti, la parola cinese per la Cina – Chung-kuo, o ‘Regno di Mezzo’ – trasmette la nozione della centralità della Cina [China’s centrality] negli affari mondiali e riafferma l’importanza dell’unità nazionale. Tale prospettiva implica anche un’irradiazione gerarchica di influenza dal centro alle periferie, sicché la Cina come centro [China as the center] si aspetta deferenza dagli altri (…) È quasi certo che la storia e la geografia renderanno i Cinesi sempre più insistenti – ed anche ‘carichi’ sotto il profilo emotivo – circa la necessità dell’eventuale riunificazione di Taiwan con la terraferma (…) Anche la geografia è un fattore importante che guida l’interesse cinese a stringere un’alleanza col Pakistan e a stabilire una presenza militare in Birmania (…) E se la Cina dovesse controllare lo Stretto di Malacca e la strettoia geostrategica a Singapore, essa controllerebbe l’accesso del Giappone al petrolio mediorientale e ai mercati europei”.

In un dibattito del 2011 che annoverava Henry Kissinger tra i suoi partecipanti, un professore di storia dell’economia dell’università di Harvard che di Kissinger era il biografo ufficiale, Niall Ferguson, disse: “Ritengo che il XXI secolo apparterrà alla Cina, perché lo sono stati quasi tutti i precedenti secoli della storia. Il XIX e il XX rappresentano un’eccezione. Per ben diciotto degli ultimi venti secoli la Cina è stata, in vario grado, la maggiore economia mondiale”. L’ex segretario di Stato nordamericano replicò al suo biografo: “Il punto non è se il XXI secolo apparterrà alla Cina, bensì se, in questo secolo, riusciremo a integrare la Cina in una visione più universale” – dove “visione universale” deve essere ovviamente inteso come “visione occidentalista del mondo”. In che cosa consistesse il compito proposto da Kissinger risulta chiaro da una risposta che egli diede nel corso di un’intervista da lui rilasciata in quello stesso anno: “Dobbiamo ancora vedere che cosa produrrà la Primavera araba. È possibile che in Cina ci saranno rivolte e manifestazioni (…) Non mi aspetto però sommovimenti della stessa portata della Primavera araba”. Kissinger infatti escludeva, giudicandola fallimentare, l’idea di applicare alla Cina la strategia perseguita a suo tempo dall’Occidente contro il blocco guidato dall’URSS: “Un piano americano che si proponesse esplicitamente di dare all’Asia un’organizzazione capace di contenere la Cina o di creare un blocco di Stati democratici da arruolare in una crociata ideologica non avrebbe successo”.

La tesi americana relativa alla translatio imperii dal Giappone alla Cina sotto l’insegna della “coprosperità” si è ripresentata nel saggio di Graham Allison Destined for War: Can America and China escape Thucydides’ Trap? L’autore, professore emerito di Harvard ed ex consigliere e assistente alla Segreteria della Difesa nelle Amministrazioni che si sono succedute da Reagan a Obama, lancia un avvertimento che è un autentico grido d’allarme: “Una volta che il mercato economico dominante della Cina, come pure le sue infrastrutture fisiche, saranno riusciti a integrare tutti i paesi limitrofi nella più vasta area di prosperità della Cina, per gli Stati Uniti diventerà impossibile mantenere il ruolo avuto in Asia nel secondo dopoguerra. Invitato a impartire un messaggio da parte della Cina agli Stati Uniti, la risposta di un collega cinese è stata: fatevi da parte. Un collega di quest’ultimo, però, ha suggerito una sintesi ancora più schietta: fuori dalle scatole. (…) Di recente, il tentativo di persuadere gli Stati Uniti ad accettare la nuova realtà si è fatto più risoluto nel Mar Cinese Meridionale. (…) Mentre continua lentamente a spingere gli Stati Uniti fuori da queste acque, la Cina sta anche fagocitando nella sua orbita economica le nazioni di tutto il Sudest asiatico, attirandovi pure il Giappone e l’Australia. Finora ci è riuscita senza che avvenissero scontri. Qualora però dovesse rendersi necessario combattere, l’intenzione di Xi è quella di vincere”. Perciò l’esigenza fondamentale avvertita dagli analisti statunitensi è quella espressa da John J. Mearsheimer, secondo il quale è indispensabile arginare l’ascesa della Cina. Il teorico del cosiddetto “realismo offensivo” esorta quindi l’attuale Amministrazione a “lavorare assiduamente per migliorare le relazioni con gli alleati asiatici dell’America e creare un’alleanza efficace che possa tenere a bada Pechino”. Ma per conseguire un tale obiettivo, argomenta Mearsheimer, è indispensabile attirare la Federazione Russa in una coalizione anticinese: “Oggi è Pechino, non Mosca, a rappresentare la principale minaccia per gli interessi degli Stati Uniti, e la Russia potrebbe essere un prezioso alleato nell’affrontare tale minaccia”. Si tratta, come è evidente, della stessa tattica suggerita a suo tempo a Donald Trump dai suoi strateghi e teorici conservatori e populisti e condivisa dagli ambienti “sovranisti” occidentali. Ma questa soluzione “richiederebbe di abbandonare la tradizionale russofobia dei democratici nordamericani di cui lo stesso Biden (…) si è spesso fatto portavoce”. E così alla fine la Casa Bianca e il Pentagono hanno scelto di arginare la Cina attraverso il “contenimento” della Federazione Russa: il minaccioso avvicinamento della NATO ai confini russi, che il Cremlino è stato obbligato a contrastare dando il via all’Operazione Militare Speciale, si inquadra infatti in una più ampia strategia nordamericana di “contenimento” anticinese, oltre che antirusso. Consapevole dell’obiettivo delle manovre nordamericane in Europa, la Cina “si è vista costretta a consolidare il suo partenariato strategico con la Russia fino a trasformarlo in un’alleanza; di qui, per definirne i particolari, il viaggio del Presidente Xi” a Mosca e i colloqui al vertice col Presidente Putin. La visita di Xi Jinping nella capitale russa richiama inevitabilmente alla memoria quella compiuta settant’anni fa da un altro Presidente cinese: il 15 febbraio 1950 Mao Tse-tung sottoscrisse con Stalin a Mosca un Trattato di Alleanza e Mutua Assistenza che sanciva la nascita di un grande blocco eurasiatico, esteso da Pankow a Mosca a Pechino a Pyongyang. L’alleanza russo-cinese dovette affrontare la sua prima prova soltanto quattro mesi più tardi, allorché la Repubblica Popolare Democratica di Corea intraprese la “Guerra di liberazione della Patria”, che i Cinesi chiamano “Guerra di resistenza all’America e in aiuto della Corea”. Grazie all’intervento diretto della Repubblica Popolare Cinese, che inviò 100.000 combattenti, e grazie al sostegno materiale fornito dall’URSS, il conflitto militare si concluse nel 1953, quando le forze degli Stati Uniti e le truppe ausiliarie di altri diciassette Paesi furono ricacciate a sud del 38° parallelo.

Claudio Mutti

 

 

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