Un calcio alla modernità

29 agosto 2007

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E’ ripartito il campionato di calcio. I più snob diranno: “Ecchissenefrega”. I nostalgici invece aggiungeranno: “Questo calcio non mi appassiona più: partite dal sabato al lunedì, calciatori divenute star televisive di programmi dove impazzano nani e ballerine, interessi economici e politici che soffocano la componente sportiva…”. Tutto giusto, ed è per questo che del calcio deve fregarci: è una perfetta metafora della società che avversiamo. Non mitizziamo il calcio del passato, ma è certo che quello attuale è tutto ormai fuorché uno sport. E lo è da quando, anche lui, si è piegato alle logiche totalizzanti dell’economia e del mercato: promettevano più ricchezza, più spettacolo, più divertimento, e hanno finito invece per ucciderlo trasformandolo in una kermesse televisiva. La bellezza del calcio erano la tradizione, il rispetto di regole fisse ed immutabili (almeno così si credeva, prima che comparissero le partite alle 20.30 e gli arbitri con le maglie gialle), la passione, persino i suoi eccessi e le sue derive maniacali. Adesso è il carrozzone che permette ai Mughini di intascare migliaia di euro e ai Berlusconi milioni di voti.
Come tutti i riti aveva il suo tempio: lo stadio. Anche questo hanno violato. In Italia il tifo per la propria squadra è sempre stato indissolubilmente legato al campanilismo, a rivalità di vecchia data sublimate in un tifo verbalmente violento che permetteva di scaricare le tensioni in modo simbolico e sostanzialmente innocuo, fatta eccezione per sporadici atti di violenza intorno ai quali si è generata l’ipocrita indignazione di chi pretende che lo stadio sia un modello di virtù e non l’inevitabile specchio di ciò che sta fuori di esso. Quale migliore pretesto per rafforzare la dimensione televisiva del calcio e, con la scusa di combattere la violenza, far diventare le gradinate gremite di tifosi salottieri dove ospitare pochi intimi che possono permettersi di pagare il biglietto 500 euro? Quale miglior palcoscenico per sperimentare tecniche di imposizione del pensiero unico proibendo striscioni e addirittura cori (!!!) demonizzati come espressioni di inciviltà da eliminare anche attraverso leggi penali degne di regimi totalitari? 
Il tutto, ovviamente, per dar vita ad un prodotto il più possibile standardizzato, politicamente corretto e accattivante per il mercato televisivo mondiale. Presto la finale di Coppa Campioni si disputerà magari a Pechino (quella dell’Intercontinentale già si gioca a Tokio) e forse l’Inter diventerà la squadra di Seul ed il Milan di Los Angeles: il tutto nel nome di un calcio globalizzato dove è il mercato a dettare le regole.
Peccato che, esattamente come il resto della nostra società, anche questo sia un treno impazzito destinato a terminare la sua corsa nel baratro. E non parlo di tracolli economici stile Lazio di Cagnotti o Fiorentina di Cecchi Gori: da questi eventi il capitalismo, a tutti i livelli, esce solo rafforzato. Parlo del crollo delle fondamenta, del declino della passione genuina ed autentica che ha reso questo sport un grande fenomeno popolare e sociale: uno spettacolo televisivo può fare audience, al limite anche generare schiere di aficionados, ma alla lunga stanca.
Dittatura del dio denaro, assoggettamento alle logiche economiche e di mercato, abbandono della tradizione, dominio della televisione, imposizione del pensiero unico, perbenismo ipocrita e conformista, soffocamento della libertà in nome della sicurezza, ricerca del profitto immediato a scapito del proprio futuro: i nuovi imperativi del pallone non sono forse anche i connotati della società moderna?

Andrea Marcon

Commenti
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max (Registered) 29-08-2007 23:24

Infatti anche nel calcio come altrove, nei confronti della violenza, avviene che i veri colpevoli non vengono mai puniti (se presi vengono rilasciati subito) e tutti i tifosi accesi -ma sostanzialmente innocui- devono pagare in termini di comportamento standardizzato e omologato. Vanno invece fermati i pochi violenti e lasciati liberi tutti gli altri di esprimersi come vogliono.
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