Monumentale errore di calcolo |
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9 Giugno 2023 
Da Rassegna di Arianna dell’8-6-2023 (N.d.d.) L’offensiva militare, economica, finanziaria e commerciale scatenata dal cosiddetto “Occidente collettivo” contro la Federazione Russa nasce da una palese sottovalutazione «della coesione sociale della Russia, del suo potenziale militare latente e della sua relativa immunità alle sanzioni economiche». L’intera campagna sanzionatoria imposta da Stati Uniti ed Unione Europea, in particolare, si fondava sulla previsione che la Russia non sarebbe stata in grado di reggere un lungo periodo di pressione economica e finanziaria esterna, in virtù della debolezza strutturale, dell’arretratezza e degli squilibri che caratterizzano il suo sistema produttivo. I dati indicano che, alla fine del febbraio 2022, la Russia registrava un debito pubblico corrispondente ad appena il 12,5% del Pil, una posizione finanziaria netta fortemente positiva e riserve auree pari a circa 2.300 tonnellate. L’oro riveste una rilevanza particolare, trattandosi del tradizionale “bene rifugio” che tende sistematicamente a rivalutarsi proprio in presenza di congiunture critiche come quella delineatasi per effetto dell’attacco all’Ucraina. Stesso discorso vale per tutte le commodity di cui la Russia è produttrice di primissimo piano, dal petrolio al gas, dall’alluminio al cobalto, dal rame al nichel, dal palladio al titanio, dal ferro all’acciaio, dal platino ai cereali, dal legname all’uranio, dal carbone all’argento, dai mangimi ai fertilizzanti. L’incremento combinato dei prezzi delle materie prime e dei prodotti raffinati i cui mercati risultano fortemente presidiati dalla Federazione Russa – la cui posizione si è ulteriormente rafforzata con l’incorporazione dei giacimenti di carbone, ferro, titanio, manganese, mercurio, nichel, cobalto, uranio, terre rare di vario genere e idrocarburi non convenzionali presenti nei territori delle repubbliche secessioniste di Donec’k e Luhans’k – ha per un verso penalizzato enormemente la categoria dei Paesi importatori netti, in cui rientra gran parte dell’“Occidente collettivo”. Per l’altro, ha assicurato alla Russia un volume di proventi talmente imponente da attenuare in maniera sensibile l’impatto dirompente prodotto dal congelamento delle riserve russe detenute presso istituzioni finanziarie estere. Le principali categorie merceologiche di cui si compone l’export russo (petrolio, gas, materie prime, prodotti agricoli) delineano i contorni di un’economia non all’avanguardia, ma il discorso cambia completamente se si tengono in debita considerazione sia le punte di eccellenza raggiunte dal Paese in campo nucleare, aerospaziale, informatico e militare, sia il volume assai considerevole di entrate assicurato allo Stato dalla vendita all’estero di macchinari ed equipaggiamenti. Le attuali economie avanzate, strutturatesi nella forma odierna sulla base degli indirizzi strategici affermatisi a partire dagli anni ’80, poggiano soprattutto su attività ad alto valore aggiunto riconducibili al settore terziario, che apportano un contributo alla formazione del Pil di gran lunga superiore a quello assicurato dai comparti ricompresi nei settori primario e secondario. Nelle economie moderne, servizi finanziari e assicurativi, consulenze, nuovi sistemi di comunicazione e design risultano predominanti rispetto ad agricoltura, manifattura, estrazione di idrocarburi e minerali. Un Paese come gli Stati Uniti può quindi contare sul colossale apporto alla “produzione di ricchezza” fornito dalle spese sanitarie gonfiate a dismisura, dalla crescita esorbitante delle cause legali fittizie che arricchiscono interi eserciti di avvocati, dal sistema carcerario privatizzato che fa lobby al Congresso per ottenere leggi in grado di garantire il maggior numero di detenuti possibile, ecc. Alcuni economisti sia europei che statunitensi si sono addirittura spinti a sostenere l’integrazione della prostituzione e del traffico di stupefacenti nel paniere dei servizi che concorrono alla formazione del Pil. Se, come evidenziano i dati della Banca Mondiale, in termini di Pil nominale l’economia russa (1.779 miliardi di dollari nel 2022) risulta paragonabile per dimensioni a quella italiana (2.108 miliardi), sotto il profilo della parità di potere d’acquisto (4.808 miliardi, contro i 2.741 dell’Italia) tende invece ad avvicinarsi a quella tedesca (4.848 miliardi). Ma, evidenzia l’economista Jacques Sapir, neppure il Ppa riflette appieno la rilevanza della Federazione Russa, i cui vantaggi strategici connessi a “stazza”, posizione geografica e struttura economica a trazione agricolo-industriale-edilizia le conferiscono una capacità di resistenza pressoché inconcepibile per ogni altro Paese. L’economia della Russia, che con una popolazione universitaria di 2,2 volte inferiore rispetto a quella degli Stati Uniti forma il 30% di ingegneri in più, si incardina infatti su produzioni fondamentali, perché necessarie alla soddisfazione dei bisogni primari. Idrocarburi, metalli, cereali, fertilizzanti, mangimi sono risorse imprescindibili per garantire riscaldamento e sicurezza sia alimentare che energetica. Condizioni assicurate in periodi di stabilità, ma che divengono improvvisamente vacillanti in presenza di congiunture geopolitiche altamente conflittuali, in cui si riscopre il primato di petrolio, gas, alluminio, nichel, grano, ecc. rispetto a tutto il resto. La rivista «The American Conservative» nota in proposito che: «la spettacolare crescita dei settori ad alta intensità di capitale, insieme alla loro ricchezza nominale e produttività, ha portato molti a Washington e in varie capitali occidentali non solo ad abbracciarli, ma anche a preferirli politicamente, culturalmente e ideologicamente. Noi americani siamo particolarmente orgogliosi, ad esempio, del successo dei nostri giganti della tecnologia come motori di innovazione, crescita e prestigio nazionale. Internet e le varie applicazioni per gli smartphone sono considerate da molti intrinsecamente democratizzanti, fungendo effettivamente da canale di diffusione per i valori americani e di promozione degli interessi nazionali statunitensi. Questo amore per i settori dei servizi si traduce in una tendenza a identificare le industrie ad alta intensità di manodopera del passato – energia, agricoltura, estrazione di risorse, produzione – come reliquie del passato. Ma questa prospettiva distorta ci ha lasciato impreparati per un mondo in cui i beni tangibili sono ancora una volta di vitale importanza, come dimostrato plasticamente dalla guerra in Ucraina». Come ha dichiarato nel febbraio 2023 il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, lo schieramento atlantista aveva fino a quel momento assicurato all’Ucraina un’assistenza militare, finanziaria e umanitaria senza precedenti, quantificata in 120 miliardi di dollari. Il trasferimento di materiale bellico a Kiev si è rivelato talmente ingente da svuotare letteralmente gli arsenali di molti Paesi membri della Nato. La Danimarca ha consegnato tutti e 19 gli obici semoventi di fabbricazione francese Caesar in proprio possesso. Il Ministero della Difesa tedesco ha ammesso che, qualora si fosse ritrovata a combattere una guerra ad alta intensità come quella russo-ucraina, la Germania avrebbe esaurito le munizioni nell’arco di appena due giorni. Stesso discorso vale per Francia e Gran Bretagna, mentre il Pentagono ha avanzato dubbi circa la capacità degli Stati Uniti di continuare a rifornire l’Ucraina senza distogliere armi ed equipaggiamenti da teatri di primario interesse quali quello del Mar Cinese meridionale. Alla fine del 2022, rilevava il Royal United Services Institute britannico, il Dipartimento della Difesa statunitense aveva ceduto all’Ucraina «circa un terzo delle riserve di missili anticarro Javelin e di quelli antiaerei Stinger: ripianare tali scorte richiederà rispettivamente 5 e 13 anni». Per quanto concerne le munizioni dei lanciarazzi campali multipli Himars, «a fronte di una produzione di 9.000 razzi all’anno, le forze armate ucraine ne consumano almeno 5.000 al mese». Nemmeno il rapido e imponente incremento (500%) della produzione di proiettili d’artiglieria realizzato dal “complesso militar-industriale” è risultato sufficiente a compensare l’erosione delle riserve strategiche di armi e munizioni a disposizione degli Usa. Al punto da indurre Washington a rivolgersi alla Corea del Sud, il cui governo ha «accettato di fornire in prestito agli Stati Uniti 500.000 proiettili di artiglieria da 155mm che non saranno però forniti a Kiev ma consentiranno all’Us Army di non depauperare troppo le sue riserve di munizioni ridottesi in seguito alle massicce forniture all’Ucraina». Come ha riconosciuto Stoltenberg, «il nostro attuale ritmo di produzione delle munizioni è di molte volte inferiore al livello di consumo da parte dell’Ucraina», che risulta a sua volta enormemente ridotto rispetto a quello della Russia. La quale è riuscita a sparare fino a 50.000-60.000 proiettili d’artiglieria al giorno a fronte dei 5.000-6.000 esplosi dall’Ucraina e – secondo fonti di intelligence britanniche riportate dal «Washington Post» – a produrne nell’arco del 2022 qualcosa come 1,7 milioni di unità, contro le 180.000 fabbricate dagli Usa. Segno di una capacità industriale notevolissima, supportata da catene di approvvigionamento di materiali critici e componentistica solide e perfettamente funzionanti. Il finanziamento dello sforzo bellico, per di più, non ha comportato alcuna distorsione della struttura economica russa; lo si evince da una stima formulata da una fonte “al di sopra di ogni sospetto” come l’«Economist», secondo cui le spese militari sostenute da Mosca nel corso del primo anno di guerra avrebbero assorbito circa 67 miliardi di dollari, pari ad “appena” il 3% del Pil russo. Una percentuale tutto sommato modesta, specialmente se raffrontata a quelle raggiunte sia dall’Unione Sovietica (61%) che dagli Stati Uniti (53%) nelle fasi più acute della Seconda Guerra Mondiale. La vera forza dell’arsenale difensivo a disposizione della Russia risiede quindi nelle caratteristiche della sua struttura economica, nella centralità che il Paese riveste rispetto al commercio internazionale, oltre che nell’indisponibilità del resto del mondo ad aderire alla campagna sanzionatoria imposta dal cosiddetto “Occidente collettivo”. Nonché dall’attivismo della Repubblica Popolare Cinese; di fronte al deflusso delle multinazionali occidentali dal Paese, Mosca ha reagito non soltanto nazionalizzandone gli asset e affidando la gestione degli stabilimenti sottoposti a confisca ad amministratori esterni secondo una logica di preservazione della continuità aziendale implicante necessariamente anche il sequestro dei brevetti (in assenza dei quali la produzione rimane pressoché impossibile), ma anche schiudendo le porte del mercato nazionale alle società sia pubbliche che private cinesi. Le quali hanno prontamente occupato gli spazi lasciati vuoti – soltanto parzialmente – dalle aziende europee e statunitensi, e costituito allo stesso tempo alleanze strategiche con le imprese locali operanti nei cruciali settori energetico, minerario e metallurgico. Tutti aspetti, questi ultimi, che politici e specialisti di spicco del cosiddetto “Occidente collettivo”, persuasi che le misure punitive “da fine del mondo” avrebbero condannato la Russia all’isolamento e alla bancarotta nell’arco di poche settimane, non sono stati minimamente in grado di prevedere, nell’ambito di quello che l’economista Patricia Adams considera «il più monumentale errore di calcolo della storia moderna». Giacomo Gabellini
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7 Giugno 2023 
Da Rassegna di Arianna del 5-6-2023 (N.d.d.) Dall’interesse di Ezra Pound per l’insegnamento confuciano nacque, tra l’altro, una versione italiana del Chung Yung, il testo canonico attribuito a Tzu-ssu, nipote di Confucio vissuto nel V sec. a.C. In esso “la moralità assume funzione cosmica, in quanto l’uomo opera la trasformazione del mondo e continua, quindi, nella società, il compito creativo del Cielo”; insomma, il Chung Yung “insegna a sviluppare la capacità di perfezionare sé ed il mondo mediante la comprensione delle cose e la consapevolezza della propria azione”. Il commento che tradizionalmente accompagna questo testo spiega che chung è “quello che non si sposta né da una parte né dall’altra” e che yung significa “invariabile”, sicché Pound scelse di rendere il titolo dell’opera con L’asse che non vacilla, mentre i traduttori successivi hanno optato per soluzioni quali Il costante mezzo o Il giusto mezzo. Il medesimo significato “assiale” risuona nel nome mandarino della Cina, che è Chung Kuo, “il Paese del Centro”, “l’Impero di Mezzo”. Se è vero, come fa notare Carl Schmitt, che fino all’epoca delle grandi scoperte geografiche “ogni popolo potente si considerava il centro della terra e guardava ai propri domini territoriali come alla casa della pace, al di fuori della quale regnavano guerra, barbarie e caos”, in buona misura ciò sembra vero anche nel caso della Cina odierna, la cui oggettiva centralità geografica e geopolitica è efficacemente descritta da Heinrich Jordis von Lohausen (1907-2002) in Mut zur Macht. “Fra tutti i subcontinenti dell’Eurasia – scrive il generale austriaco – la Cina occupa la posizione strategica più forte: la triplice copertura delle montagne e dei deserti dell’Asia interiore, la corona delle isole periferiche e la barriera insormontabile della razza, della lingua e della scrittura che si erge contro ogni guerra psicologica delle nazioni bianche (…) la natura l’ha posta vicino all’oceano, le ha dato una posizione decisiva tra l’India e il Giappone, tra la Siberia e il Pacifico. Sulla costa occidentale del Pacifico, la Cina si presenta come il baricentro naturale, il centro fisso da sempre. Tutte le questioni relative all’equilibrio mondiale trovano risposta a Pechino. (…) I tentativi di una presa di potere economica o militare non possono nulla contro di essa, poiché la sua estensione è troppo vasta. È di un’altra razza e di una cultura antica, molto più antica. Ha accumulato in sé tutta l’esperienza della storia del mondo e resiste ad ogni trasformazione. Essa è inattaccabile”. Il fatto che la Cina sia oggi in procinto di riacquisire il ruolo assiale al quale sembrano destinarla una posizione geografica centrale e un’esperienza storica di cinquemila anni ossessiona da tempo gli strateghi e gl’ideologi dell’imperialismo statunitense, i quali ormai scorgono nella Repubblica Popolare una “minaccia peggiore dell’Asse [Roma-Berlino-Tokio] nel XX secolo” e vedono nella solidarietà sino-russo-iraniana un nuovo “Asse del Male”. A Richard Nixon, che dal 21 al 29 febbraio 1972 si trattenne in Cina nel corso di una visita ufficiale che sanciva il disgelo dei rapporti tra gli Stati Uniti d’America e la Repubblica Popolare Cinese, viene attribuita la frase seguente: “Basta fermarsi un momento a riflettere su cosa accadrebbe se qualcuno capace di assicurare un buon sistema di governo riuscisse a ottenere il controllo di quel territorio. Buon Dio, nessuna potenza al mondo potrebbe… Voglio dire, mettete 800 milioni di cinesi al lavoro con un buon sistema di governo, e diventeranno i leader del mondo”. Un quarto di secolo dopo, l’incubo della “Sfera di coprosperità della Grande Asia orientale” (in giapponese Dai Tōa Kyōeiken) tornava ad agitare i sonni degli yankee, poiché il teorico statunitense dello “scontro delle civiltà” assegnava alla Repubblica Popolare Cinese l’eredità del progetto imperiale nipponico, il cui obiettivo era stato quello di creare un’unione economica e politica coi paesi dell’area del Pacifico, dell’Asia orientale, dell’Asia centrale e dell’Oceano Indiano. “Quello di ‘Grande Cina’ – scriveva nel 1996 Samuel P. Huntington nel paragrafo La Grande Cina e la sua ‘sfera di coprosperità’ – non è dunque semplicemente un concetto astratto, ma al contrario una realtà economica e culturale in rapida espansione, e che ha cominciato a diventare anche una realtà politica”. Il quadro dipinto da Huntington veniva ulteriormente arricchito dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, il quale insisteva sul tema della centralità della Cina e sulla naturale espansione dell’influenza cinese verso le aree circostanti. “La storia – scriveva Brzezinski – ha predisposto l’élite cinese a pensare alla Cina come al centro naturale del mondo [the natural center of the world]. In effetti, la parola cinese per la Cina – Chung-kuo, o ‘Regno di Mezzo’ – trasmette la nozione della centralità della Cina [China’s centrality] negli affari mondiali e riafferma l’importanza dell’unità nazionale. Tale prospettiva implica anche un’irradiazione gerarchica di influenza dal centro alle periferie, sicché la Cina come centro [China as the center] si aspetta deferenza dagli altri (…) È quasi certo che la storia e la geografia renderanno i Cinesi sempre più insistenti – ed anche ‘carichi’ sotto il profilo emotivo – circa la necessità dell’eventuale riunificazione di Taiwan con la terraferma (…) Anche la geografia è un fattore importante che guida l’interesse cinese a stringere un’alleanza col Pakistan e a stabilire una presenza militare in Birmania (…) E se la Cina dovesse controllare lo Stretto di Malacca e la strettoia geostrategica a Singapore, essa controllerebbe l’accesso del Giappone al petrolio mediorientale e ai mercati europei”. In un dibattito del 2011 che annoverava Henry Kissinger tra i suoi partecipanti, un professore di storia dell’economia dell’università di Harvard che di Kissinger era il biografo ufficiale, Niall Ferguson, disse: “Ritengo che il XXI secolo apparterrà alla Cina, perché lo sono stati quasi tutti i precedenti secoli della storia. Il XIX e il XX rappresentano un’eccezione. Per ben diciotto degli ultimi venti secoli la Cina è stata, in vario grado, la maggiore economia mondiale”. L’ex segretario di Stato nordamericano replicò al suo biografo: “Il punto non è se il XXI secolo apparterrà alla Cina, bensì se, in questo secolo, riusciremo a integrare la Cina in una visione più universale” – dove “visione universale” deve essere ovviamente inteso come “visione occidentalista del mondo”. In che cosa consistesse il compito proposto da Kissinger risulta chiaro da una risposta che egli diede nel corso di un’intervista da lui rilasciata in quello stesso anno: “Dobbiamo ancora vedere che cosa produrrà la Primavera araba. È possibile che in Cina ci saranno rivolte e manifestazioni (…) Non mi aspetto però sommovimenti della stessa portata della Primavera araba”. Kissinger infatti escludeva, giudicandola fallimentare, l’idea di applicare alla Cina la strategia perseguita a suo tempo dall’Occidente contro il blocco guidato dall’URSS: “Un piano americano che si proponesse esplicitamente di dare all’Asia un’organizzazione capace di contenere la Cina o di creare un blocco di Stati democratici da arruolare in una crociata ideologica non avrebbe successo”. La tesi americana relativa alla translatio imperii dal Giappone alla Cina sotto l’insegna della “coprosperità” si è ripresentata nel saggio di Graham Allison Destined for War: Can America and China escape Thucydides’ Trap? L’autore, professore emerito di Harvard ed ex consigliere e assistente alla Segreteria della Difesa nelle Amministrazioni che si sono succedute da Reagan a Obama, lancia un avvertimento che è un autentico grido d’allarme: “Una volta che il mercato economico dominante della Cina, come pure le sue infrastrutture fisiche, saranno riusciti a integrare tutti i paesi limitrofi nella più vasta area di prosperità della Cina, per gli Stati Uniti diventerà impossibile mantenere il ruolo avuto in Asia nel secondo dopoguerra. Invitato a impartire un messaggio da parte della Cina agli Stati Uniti, la risposta di un collega cinese è stata: fatevi da parte. Un collega di quest’ultimo, però, ha suggerito una sintesi ancora più schietta: fuori dalle scatole. (…) Di recente, il tentativo di persuadere gli Stati Uniti ad accettare la nuova realtà si è fatto più risoluto nel Mar Cinese Meridionale. (…) Mentre continua lentamente a spingere gli Stati Uniti fuori da queste acque, la Cina sta anche fagocitando nella sua orbita economica le nazioni di tutto il Sudest asiatico, attirandovi pure il Giappone e l’Australia. Finora ci è riuscita senza che avvenissero scontri. Qualora però dovesse rendersi necessario combattere, l’intenzione di Xi è quella di vincere”. Perciò l’esigenza fondamentale avvertita dagli analisti statunitensi è quella espressa da John J. Mearsheimer, secondo il quale è indispensabile arginare l’ascesa della Cina. Il teorico del cosiddetto “realismo offensivo” esorta quindi l’attuale Amministrazione a “lavorare assiduamente per migliorare le relazioni con gli alleati asiatici dell’America e creare un’alleanza efficace che possa tenere a bada Pechino”. Ma per conseguire un tale obiettivo, argomenta Mearsheimer, è indispensabile attirare la Federazione Russa in una coalizione anticinese: “Oggi è Pechino, non Mosca, a rappresentare la principale minaccia per gli interessi degli Stati Uniti, e la Russia potrebbe essere un prezioso alleato nell’affrontare tale minaccia”. Si tratta, come è evidente, della stessa tattica suggerita a suo tempo a Donald Trump dai suoi strateghi e teorici conservatori e populisti e condivisa dagli ambienti “sovranisti” occidentali. Ma questa soluzione “richiederebbe di abbandonare la tradizionale russofobia dei democratici nordamericani di cui lo stesso Biden (…) si è spesso fatto portavoce”. E così alla fine la Casa Bianca e il Pentagono hanno scelto di arginare la Cina attraverso il “contenimento” della Federazione Russa: il minaccioso avvicinamento della NATO ai confini russi, che il Cremlino è stato obbligato a contrastare dando il via all’Operazione Militare Speciale, si inquadra infatti in una più ampia strategia nordamericana di “contenimento” anticinese, oltre che antirusso. Consapevole dell’obiettivo delle manovre nordamericane in Europa, la Cina “si è vista costretta a consolidare il suo partenariato strategico con la Russia fino a trasformarlo in un’alleanza; di qui, per definirne i particolari, il viaggio del Presidente Xi” a Mosca e i colloqui al vertice col Presidente Putin. La visita di Xi Jinping nella capitale russa richiama inevitabilmente alla memoria quella compiuta settant’anni fa da un altro Presidente cinese: il 15 febbraio 1950 Mao Tse-tung sottoscrisse con Stalin a Mosca un Trattato di Alleanza e Mutua Assistenza che sanciva la nascita di un grande blocco eurasiatico, esteso da Pankow a Mosca a Pechino a Pyongyang. L’alleanza russo-cinese dovette affrontare la sua prima prova soltanto quattro mesi più tardi, allorché la Repubblica Popolare Democratica di Corea intraprese la “Guerra di liberazione della Patria”, che i Cinesi chiamano “Guerra di resistenza all’America e in aiuto della Corea”. Grazie all’intervento diretto della Repubblica Popolare Cinese, che inviò 100.000 combattenti, e grazie al sostegno materiale fornito dall’URSS, il conflitto militare si concluse nel 1953, quando le forze degli Stati Uniti e le truppe ausiliarie di altri diciassette Paesi furono ricacciate a sud del 38° parallelo. Claudio Mutti
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Un linguaggio di grugniti sarà l'ultimo stadio |
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4 Giugno 2023 Faccio una profezia. Come adesso stanno sparendo a una a una le edicole, perché nessuno legge più i quotidiani, così in un futuro non tanto lontano (2040, 2050?) spariranno tutte le librerie perché nessuno leggerà più i libri. E non finirà qui. Arriverà un momento in cui la gente non userà più le parole e per parlare avrà un vocabolario limitato di 500-1000 termini, non sapendo più il significato di tantissimi termini come "accidia", "baluginìo", "demagogo", "grottesco", "scrupolo", "tabù", “volubile", "vulnerabile", "zelo" e così via. I dizionari saranno degli oggetti misteriosi e, sfogliandoli, si ignorerà il significato di almeno il 99% delle parole contenute. Sarà il penultimo stadio prima dell'ultimo: il linguaggio fatto di grugniti, emoticon e gesti. Già adesso questo impoverimento del linguaggio, questa semplificazione del complesso, questa riduzione delle emozioni e dei pensieri a dei puri segni senza un vero significato, sta avvenendo su Instagram. Ho analizzato il profilo di circa 100 spunte blu (vip e influencer) ed è tutto un susseguirsi di: "My favorite place", "Settimana meravigliosa", "Red Passion", "Verso nuove avventure", "Buon risveglio a tutti", "Ready to go", "L'ora più bella", "Best of these days", "Sunset vibes", "Miami Style", "Details", "Day 3", "Woman in black", "Happy!", "Night out" e così via all'infinito. Ho trovato fino a 300 espressioni simili, che rimbalzano da un profilo all'altro di Instagram, creando un villaggio globale del vuoto. Sotto una foto in notturna, una influencer scrive "About last night" e questa espressione la troviamo ripetuta in centinaia di altri profili di influencer. Vanno a Roma e l'unica cosa che sanno dire è "Quanto sei bella #Roma" oppure "Roma città eterna". O #Napule o sole o mare È tutto un dire senza esprimere nulla, è un pensare privo di pensieri, è un essere felici non mostrando una vera felicità Loro sono solo l'avanguardia, presto la maggioranza li seguirà, prima sui social, poi nella realtà. Quando? Difficile dirlo, va tutto così veloce oggi, sicuramente prima del nuovo secolo. Quelli come me che vivono di parole, che sarebbero disposti a difendere una parola - come un re difende il suo popolo - diventeranno una minoranza, emarginata e incomprensibile. Farò la fine dei gettoni del telefono, dei dischi in vinile e delle antiche fotografie in bianco e nero. Fabrizio Caramagna
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Candidati alla guerra civile |
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2 Giugno 2023 
Da Rassegna di Arianna del 28-5-2023 (N.d.d.) […] Riguardo gli USA, c’è da segnare come, finita la presidenza Trump, le notizie date qui su quel mondo sono semplicemente sparite. Sulla Gran Bretagna, talvolta, qualche europeista prova piacere a raccontare i significativi malesseri britannici addebitandoli alla Brexit, ma niente di più. Infine, col nuovo governo, siamo diventati “amici preferiti” tanto dell’uno che dell’altro. Nel caso americano ne va anche della coerenza di allineamento geopolitico con attualità nel conflitto ucraino, posizione super-partes nello schieramento politico italiano che per altro, secondo scarni sondaggi, non rifletterebbe per niente il sentimento maggioritario del Paese. Quindi sugli USA, dal punto di vista interno, non c’è niente da dire? Nel 2022, una storica americana specializzata in conflitto civile (fondazione storica degli States), ha fatto clamore, sostenendo che in base alla letteratura di analisi storica generale, si potevano sintetizzare alcuni punti di crisi che potevano far prevedere l’imminente rischio di scoppio di una “stasis”. Secondo B.F. Walter, gli Stati Uniti sono oggi dei perfetti candidati a piombare nella guerra civile. È stata seguita da altri autori e molta eco mediatica, sia americana che britannica, hanno amplificato il tema ponendolo al centro del dibattito pubblico. In un recente articolo di Caracciolo sulla Stampa, lo studioso usa questa espressione “Oggi l'America non si piace più. Come può affascinare gli altri?”. Buon annusatore dello spirito del tempo, Caracciolo si è convertito già dall’editoriale sull’ultimo numero di Limes ora in edicola, alla verità dell’epocale transizione dei poteri nel mondo, segnalando come gli Stati Uniti abbiano perso l’aurea e con essa il soft power. Ribadisce George Friedman sulla stessa rivista, nel titolo della sua analisi “Gli Stati Uniti sono prossimi a un collasso interno”, sorbole! L’elenco di Friedman cita “rivendicazioni sociali al picco di intensità, questioni morali, religiose, culturali”, poi ci sono i fallimenti bancari, le revisioni strategiche verso la globalizzazione, il grande punto interrogativo cinese, ombre scure sui Big Five dell’on-line (che per altro licenziano a manetta) e le oscure sorti progressive dell’A.I., la Nasa che pare non sappia più come fare una tuta da astronauta, figuriamoci mandarlo sulla Luna; permangono attriti sui flussi migratori e sempre forti sulla convivenza razziale. C’è anche una profonda crisi interstatale/federale che arriva fino al ruolo del Congresso e della Corte Suprema. “Mai nella storia, vi è stato un tale livello di rabbia e disprezzo reciproco tra gli americani”, è la nota inquietante di Friedman. Se ne danno davvero di santa ragione su questo e su quello a livelli veramente pre-isterici, quando non si sparano e fanno e parlano di cose in modi davvero bizzarri (Dio, aborto, transessuali che risulterebbero solo lo 0,5% della popolazione, tradizionalismo e progressismo, pedofilia, complotti surreali et varia). Questa agitazione, che più d’uno ha interesse a radicalizzare, trova il suo inferno su Internet ed i social. Quanto ai social, è il formato stesso dell’interazione anonima, con scritto privo di corredo facciale e comportamentale, costretto in spazi più da battuta che da discorso argomentato (woke! cristofascista!), la clausura nelle piccole comunità dei comuni pensanti che si eccitano a vicenda, a dar benzina a braci già ardenti. Radicalizzazione ci mette del tempo a costruirsi e non si smonta in tempi brevi, deposita rancori, astio, odio viscerale. Alla fine, non è più una questione di argomenti ma di irrigidimenti. Sebbene sia una nazione di 330 milioni di persone (con, si stima, 400 milioni di armi private, molte di livello militare) e pure con una composizione assai varia, tende a spaccarsi semplicemente in due ed il formato “noi contro loro”, alimenta il suo stesso radicalizzarsi semplificando. La semplificazione, del resto, è un tratto caratteristico della mentalità americana empirico-pragmatica ovvero sovrastimante il fare al posto -o priva- del pensare. L’aspettativa di vita in America è in caduta libera da circa un decennio: è arrivata a 76,1 anni (da noi è da cinque a dieci anni di più). Grandi balzi in avanti tanto della mortalità infantile che di quella generale: diffusione armi ormai fuori controllo (in America oltre 200 persone al giorno vengono ferite da armi da fuoco, 120 vengono uccise. Di queste 120, 11 sono bambini e adolescenti), tasso di omicidi tra adolescenti +40% in due anni, overdosi ed abuso farmaci, incidenti auto. Nelle scuole, a molti bambini è imposto un corso di comportamento nel caso qualcuno entrasse in classe sparando con un mitra. E meno male che sono pro-life! Al 10° posto per teorica ricchezza pro-capite in realtà gli USA sono 120° per uguaglianza di reddito (WB 2020), dopo l’Iran ma prima del Congo (RD). L’ascensore sociale è rotto da almeno trenta anni, ammesso prima funzionasse davvero. Americani poveri, in contee povere, in stati del Sud, muoiono fino a venti anni prima degli altri. Gli afroamericani cinque anni -in media- prima dei bianchi. Col solo 4,5% della popolazione mondiale hanno il 25% della popolazione carceraria, spaventoso il grafico di incremento negli ultimi trenta anni. La media europea è di 106 incarcerati su 100.000 abitanti, in US è 626, sei volte tanto che è primato mondiale. Sebbene abbiano meno del 5% di popolazione mondiale spendono il 40% del totale mondo in spesa militare (a cui aggiungere le armi interne). Se ci si annoia coi libri di storia, basta guardare nell’immaginario la produzione cinematografico-televisiva per capire quanto attragga culturalmente la violenza, da quelle parti. La violenza è la cura dei contrasti sociali, atteggiamento pre-civile. Avendo a norma sociale il libero perseguimento della felicità versione successo economico-sociale su base competitiva delle qualità individuali nel far soldi, non avendo idea di come il gioco sia truccato, mancando tradizione di pensiero e di analisi di tipo europeo (ad esempio per classi), questa massa di reietti, che spesso vivono in condizioni subumane, ovviamente arrabbiati quando non rintontiti da tv-alcol-farmaci-droghe, vengono reclutati dalle varie élite per sostenere o combattere ora questo, ora quel diritto civile. Il che alimenta questa tempesta di odio reciproco a livello di “valori”, che siano della ragione o della tradizione, ma mai economico-sociali. […] È del resto certificato da studi di Princeton e Northwest sui contenuti delle leggi deliberate dal Congresso, già di dieci anni fa, che gli Stati Uniti sono una oligarchia e non una democrazia. È questa oligarchia che ha interesse ad incendiare il sottostante, lì dove il popolo si scanna per questioni di diritti civili, razza, prevalenza sessuale e non per diritti sociali, qualità della vita, ridistribuzione dei redditi e potere connesso. Ci sono presupposti per verificare questa profezia di una ipotetica guerra civile, profezia che dato il grande rilievo media dato in America rischia di diventare del tipo “… che si auto-avvera”? Ci sono parecchie ragioni per dubitarne, sempre che s’immagini barricate e vasti disordini per strada accompagnati da terrorismo interno. Tuttavia, per quanto l’analisi dovrebbe esser più profonda di quanto permetta un post, questa analisi specifica sulla crisi interna la società americana certifica che è il cuore della civiltà occidentale ad esser in crisi profonda. Per questo agli europei si consiglierebbe di allentare i legami trans-atlantici, gli americani sono destinati ad una continuata contrazione di potenza mondiale mentre all’interno danno sempre più di matto su tutto tranne che sul continuo aumento delle diseguaglianze, malattia mortale per ogni società. Parecchia della fenomenologia perversa qui brevemente descritta, ha già contagiato le nostre società. Dal globalismo-neoliberale alla lagna unidimensionale sui diritti civili e non sociali che eccita la risposta tradizionalista, l’intero immaginario che percola dalle serie tv e dal cinema, l’intero Internet e la logica dei social, ora dell’A.I. che discende da un preciso milieu psico-culturale comportamentista (cioè finalizzato al controllo del comportamento e della cognizione, altro che “intelligenza”), la ripresa europea ed italiana nelle produzione e commercio di armi, la distruzione democratica già programmata dai primi anni ’70, la demagogia, l’ignoranza aggressiva, il drastico scadimento qualitativo delle élite, la scomparsa della funzione intellettuale, il semplicismo, l’infantile entusiasmo tecnologico, una irrazionale fede sul ruolo della tecnica, le epidemie di solitudine sociale e depressione, la farmaco-dipendenza, la plastificazione corporea e la manipolazione neurale. La crisi del centro anglosassone del sistema occidentale irradia da tempo tutta l’area di civiltà, anche dove l’antropologia culturale, sociale e storica, sarebbe ben diversa. Si consiglierebbe di cominciare a programmare un divorzio, una biforcazione dei destini, una rifondazione dell’essere occidentali che chiuda la parentesi anglosassone. Viaggiare i tempi complessi con questa gente alla guida potrebbe esser molto pericoloso. […] Pierluigi Fagan
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1 Giugno 2023 
Da Appelloalpopolo del 30-5-2023 (N.d.d.) È la convinzione più diffusa, direi di massa. La cultura occidentale sarebbe superiore a quelle orientali, islamiche, africane e indigene dell’America latina. Il cristianesimo sarebbe superiore all’islam. Il capitalismo sarebbe superiore al socialismo. L’esercizio di un’attività autonoma, impresa o libera professione, sarebbe moralmente superiore allo svolgimento di un lavoro subordinato, pubblico o privato. L’ultra-liberalismo contemporaneo sarebbe moralmente superiore al vecchio liberalismo, temperato dalla cultura borghese. L’odierno pluralismo conf-industriale di TV, radio e quotidiani sarebbe superiore alla partitocrazia da manuale Cencelli della prima repubblica. La cosa interessante è che il 99% delle persone, che condividono la gran parte di queste affermazioni, è antirazzista e anti-sessista (ma mai, fateci caso, anticlassista). Una vita trascorsa nella credenza della superiorità di una civiltà, rispetto alle altre, e ad atteggiarsi ad antirazzisti e anti-sessisti: gli scemi del villaggio globale. Stefano D’Andrea
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