Un risveglio in gestazione |
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8 Dicembre 2024 Da Comedonchisciotte del 5-12-2024 (N.d.d.) La lunga guerra per riaffermare la supremazia occidentale e israeliana sta subendo un cambiamento di forma. Su uno dei fronti, il calcolo rispetto alla Russia e alla guerra in Ucraina è cambiato. E in Medio Oriente, il luogo e la forma della guerra si stanno spostando in modo netto. La famosa dottrina sovietica di Georges Kennan aveva costituito a lungo la base della politica statunitense, prima verso l’Unione Sovietica e poi verso la Russia. La tesi sostenuta da Kennan nel 1946 era che gli Stati Uniti avrebbero dovuto lavorare con pazienza e determinazione per sventare la minaccia sovietica e per rafforzare e aggravare le fratture interne del sistema sovietico, fino a quando le sue contraddizioni ne avrebbero provocato il crollo dall’interno. Più di recente, il Consiglio Atlantico ha attinto alla dottrina Kennan per suggerire che le sue linee generali dovrebbero servire come base della politica statunitense nei confronti dell’Iran. “La minaccia che l’Iran pone agli Stati Uniti assomiglia a quella rappresentata dall’Unione Sovietica dopo la Seconda Guerra Mondiale. A questo proposito, la politica delineata da George Kennan per trattare con l’Unione Sovietica ha alcune applicazioni per l’Iran“, si legge nel rapporto dell’Atlantic. Nel corso degli anni, questa dottrina si è ossificata in un’intera rete di intese sulla sicurezza, basata sulla convinzione archetipica che l’America sia forte e che la Russia sia debole. La Russia avrebbe dovuto “saperlo” e quindi, si sosteneva, non poteva esserci alcuna logica per gli strateghi russi se non immaginare di non avere alte opzioni se non quella di sottomettersi alla schiacciante superiorità della forza militare combinata della NATO contro una Russia “debole”. E, se gli strateghi russi avessero incautamente continuato a sfidare l’Occidente, si diceva, l’intrinseca contrarietà avrebbe semplicemente causato la frattura della Russia. I neoconservatori americani e l’intelligence occidentale non hanno ascoltato nessun altro punto di vista, perché erano (e in gran parte sono ancora) convinti dalla formulazione di Kennan. La classe politica americana che si occupa di politica estera semplicemente non poteva accettare la possibilità che una tesi così fondamentale fosse sbagliata. L’intero approccio rifletteva più una cultura radicata che un’analisi razionale, anche quando i fatti visibili sul campo indicavano una realtà diversa. Così, l’America ha aumentato la pressione sulla Russia attraverso la consegna incrementale di ulteriori sistemi d’arma all’Ucraina; attraverso lo stazionamento di missili a gittata intermedia con capacità nucleare sempre più vicini ai confini della Russia e, più recentemente, lanciando ATACMS all’interno della “vecchia Russia”. L’obiettivo è quello di spingere la Russia a sentirsi obbligata a fare concessioni all’Ucraina, ad esempio ad accettare il congelamento del conflitto e a essere costretta a negoziare con le “carte” ucraine appositamente scelte per ottenere una soluzione accettabile per gli Stati Uniti. O, in alternativa, che la Russia venga messa con le spalle al muro nell’“angolo nucleare”. In definiva, la strategia americana si basa sulla convinzione che gli Stati Uniti potrebbero ingaggiare una guerra nucleare con la Russia – e avere la meglio; che la Russia è consapevole del fatto che, se dovesse ricorrere al nucleare, “perderebbe il mondo”. O che, sotto la pressione della NATO, la rabbia dei russi probabilmente costringerebbe Putin a dimettersi dal suo incarico se facesse concessioni significative all’Ucraina. Sarebbe un risultato in ogni caso vantaggioso – dal punto di vista degli Stati Uniti… Inaspettatamente, però, è apparsa sulla scena una nuova arma che libera il Presidente Putin dalla scelta “tutto o niente”, quella di dover concedere una “mano” negoziale all’Ucraina o ricorrere alla deterrenza nucleare. Invece, la guerra può essere risolta dai fatti sul campo. In effetti, la “trappola” di George Kennan è implosa. Il missile Oreshnik (utilizzato per attaccare il complesso Yuzhmash a Dnietropetrovsk) fornisce alla Russia un’arma mai vista prima: un sistema missilistico a raggio intermedio che, di fatto, dà scacco alla minaccia nucleare occidentale. La Russia può ora gestire l’escalation occidentale con una minaccia di ritorsione credibile, estremamente distruttiva e, allo stesso tempo, convenzionale. Ha invertito il paradigma. Ora è l’escalation dell’Occidente che deve diventare nucleare, oppure limitarsi a fornire all’Ucraina armi come l’ATACMS o gli Storm Shadow, che non modificheranno il corso della guerra. Se la NATO dovesse intensificare ulteriormente l’escalation, rischierebbe come rappresaglia un attacco Oreshnik, in Ucraina o su qualche obiettivo in Europa, lasciando l’Occidente con il dilemma di cosa fare dopo. Putin ha avvertito: “Se colpirete ancora in Russia, risponderemo con un attacco Oreshnik su una struttura militare in un’altra nazione. Daremo un preavviso, in modo che i civili possano evacuare. Non c’è nulla che possiate fare per impedirlo; non avete un sistema antimissile che possa fermare un attacco che arriva a Mach 10”. Le carte in tavola sono cambiate. Naturalmente, ci sono altre ragioni che vanno oltre il desiderio dei vertici permanenti della sicurezza di “gulliverizzare” Trump e convincerlo a continuare il conflitto in Ucraina e macchiarlo di una guerra che aveva promesso di terminare immediatamente. In particolare, i britannici, e altri in Europa, vogliono che la guerra continui, perché sono alle corde dal punto di vista finanziario, dopo aver acquistato circa 20 miliardi di dollari di obbligazioni ucraine attualmente in “stato di default”, o per loro garanzie al FMI per i prestiti all’Ucraina. L’Europa, semplicemente, non può permettersi i costi di un default completo. Né l’Europa può permettersi di assumersi l’onere, se l’amministrazione Trump dovesse rinunciare a sostenere finanziariamente l’Ucraina. Per questo motivo, essi colludono con la struttura interagenzie degli Stati Uniti per rendere la continuazione della guerra a prova di un’inversione di politica da parte di Trump: l’Europa per motivi finanziari e il Deep State perché vuole sconvolgere Trump e la sua agenda interna. L’altra ala della “guerra globale” riflette un paradosso speculare: “Israele è forte e l’Iran è debole”. Il punto centrale non è solo il suo fondamento culturale, ma il fatto che l’intero apparato israeliano e statunitense è parte della narrazione secondo cui l’Iran sarebbe un Paese debole e tecnicamente arretrato. L’aspetto più significativo è il fallimento pluriennale della capacità di comprendere le strategie e di riconoscere i cambiamenti nelle capacità, nei punti di vista e nelle comprensioni delle altre parti. La Russia sembra aver risolto alcuni dei problemi fisici generali degli oggetti che volano a velocità ipersonica. L’uso di nuovi materiali compositi ha permesso alle testate plananti di volare su lunghe distanze praticamente in condizioni di formazione di plasma. Arrivano sul bersaglio come meteoriti, come una palla di fuoco. La temperatura sulla loro superficie raggiunge i 1.600-2.000 gradi Celsius, ma le testate vengono guidate in modo affidabile. E l’Iran sembra aver risolto i problemi associati a un avversario che gode del dominio aereo. L’Iran ha creato una deterrenza basata sull’evoluzione degli sciami di droni a basso costo abbinati a missili balistici con testate ipersoniche di precisione. Questo mette droni da 1.000 dollari e missili di precisione a basso costo contro costosissime cellule pilotate – un’inversione della guerra che è stata realizzata in vent’anni. La guerra israeliana, tuttavia, si sta metamorfosando in altri modi. La guerra a Gaza e in Libano ha messo a dura prova le truppe israeliane; l’IDF ha subito pesanti perdite; i suoi uomini sono esausti; i riservisti stanno perdendo l’impegno nelle guerre di Israele e non si presentano in servizio. Israele ha raggiunto i limiti della sua capacità di mettere scarponi sul terreno (a meno di arruolare gli studenti ortodossi della Yeshiva Haredi – un atto che potrebbe far crollare la Coalizione). In breve, la consistenza delle truppe dell’esercito israeliano è scesa al di sotto degli attuali impegni militari ordinati dal comando. L’economia sta implodendo e le divisioni interne sono crude e laceranti. Questo è particolarmente visibile nell’iniquità di israeliani laici che muoiono, mentre altri rimangono esentati dal servizio militare – un destino riservato ad alcuni ma non ad altri. Questa tensione ha avuto un ruolo importante nella decisione di Netanyahu di accettare il cessate il fuoco in Libano. Il crescente astio nei confronti dell’esenzione degli Haredi ortodossi ha rischiato di far cadere la coalizione. Ci sono – metaforicamente parlando – due Israele: Il Regno di Giudea contro lo Stato di Israele. Alla luce di questi profondi antagonismi, molti israeliani vedono nella guerra con l’Iran la catarsi che unirà di nuovo un popolo fratturato e, in caso di vittoria, porrà fine a tutte le guerre di Israele. All’esterno, la guerra si allarga e cambia forma: il Libano, per ora, cuoce a fuoco lento, ma la Turchia ha scatenato una grande operazione militare (secondo quanto riferito, circa 15.000 uomini) in un attacco ad Aleppo, utilizzando Jihadisti addestrati dagli Stati Uniti e dalla Turchia e miliziani di Idlib. L’intelligence turca ha senza dubbio i suoi obiettivi, ma gli Stati Uniti e Israele hanno un interesse particolare a interrompere le vie di rifornimento di armi a Hezbollah in Libano. Lo sfrenato massacro di Israele nei confronti di non combattenti, donne e bambini – e la sua esplicita pulizia etnica della popolazione palestinese – ha lasciato la regione (e il Sud globale) in fermento e radicalizzata. Israele, con le sue azioni, sta distruggendo il vecchio ethos. La regione non è più “conservatrice”. Piuttosto, è in gestazione un “risveglio” molto diverso. Alastair Crooke (tradotto da Markus)
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6 Dicembre 2024 Da Rassegna di Arianna dell’1-12-2024 (N.d.d.) Del tramonto dell'Occidente si parla da più di un secolo, e da ben prima della pubblicazione del fortunato volume di Oswald Spengler. Quando ne parlava Spengler si era all'indomani della grande distruzione della Prima Guerra Mondiale, e, paradossalmente, si era alle soglie di una possibile svolta nel processo di decadenza: l'Europa scossa profondamente da cinque anni di guerra e undici milioni di morti sembrava prendere coscienza della necessità di un cambiamento di paradigma. Ma i tentativi che emersero in quel periodo, dapprima all'insegna della Rivoluzione d'Ottobre (i tentativi di rivoluzione degli spartachisti in Germania, il biennio rosso 1919-1920, ecc.) e poi sotto l'egida delle dittature degli anni '20, non riuscirono a creare condizioni stabili per una ricostruzione alternativa. I “fascismi” cedettero molto rapidamente le pretese di rivoluzione popolare a favore di un patto strutturale con la grande borghesia liberale, mantenendo l’impianto aggressivo e “darwiniano” che era stato proprio dell’imperialismo prebellico. Due decenni dopo, il secondo grande massacro del XX secolo aprì un nuovo tentativo di revisione del modello liberalcapitalistico con cui l'Occidente aveva finito per identificarsi. Questo tentativo ebbe maggior successo e durò circa tre decenni, producendo la prima e finora unica situazione moderna in cui autentici meccanismi democratici vennero implementati e in cui migliorarono distintamente le condizioni di vita generali di chi viveva del proprio lavoro. Ma quel tentativo venne minato dall'interno e infine rovesciato con successo nella seconda metà degli anni '70, a causa della scarsa consapevolezza della natura profonda della crisi di civiltà dell'Occidente (chi di questa crisi aveva consapevolezza, come Pasolini, rimase una vox clamantis in deserto). Il modello liberalcapitalista riuscì a travestirsi negli anni '80 da movimento libertario ed emancipativo, con la complicità militante di gran parte della concettualità postmoderna. Con la caduta dell'URSS l'idea stessa che potessero (dovessero) esistere modelli di sviluppo storico diversi dal liberalcapitalismo venne meno. La storia degli ultimi tre decenni è la storia di una ripresa dei medesimi meccanismi che precedettero la Prima Guerra Mondiale, solo in forma più potente e virulenta. L'accelerazione e il potenziamento della tecnica, finanziaria, mediatica e bellica, presentano le dinamiche distruttive “fin de siècle” in una forma iperbolica. Gli esiti distruttivi si stanno affacciando in maniera vigorosa e priva di serio contrasto. Mediamente, le classi dirigenti e i ceti intellettuali sembrano avere una consapevolezza della crisi persino inferiore a quella delle classi dirigenti e dei ceti intellettuali del 1914, del 1938 o del 1968. In Occidente l’idea che “non c’è alcuna alternativa” (TINA) e che la forma di vita liberalcapitalistica rappresenta l’ideale fine della storia (Fukuyama) rimane ampiamente maggioritaria, serenamente propalata, seriosamente sostenuta da stuoli di giornalisti e accademici. La coscienza critica appare, quando appare, nella forma di richieste di ritocchi, di cambiamenti di dettaglio, di riformismi settoriali. Rispetto al passato esiste un elemento differente: l’Occidente non rappresenta più l’unica concentrazione rilevante di potere economico e militare. Durante la guerra fredda la sfida era stata sempre impari: dalla Seconda guerra mondiale gli USA come centro dell’impero liberalcapitalistico ne era uscito arricchito, intoccato nelle infrastrutture, demograficamente solido, militarmente egemone (unico detentore della bomba atomica). La Russia, lo sfidante ideologico, era un paese straziato, con venti milioni di morti in guerra, infrastrutture devastate e già precedentemente carenti, e una condizione di inferiorità tecnologico-militare. Nonostante queste premesse l’URSS riuscì a giocare un ruolo di contraltare ideologico e ideale per altri quattro decenni. La situazione odierna è diversa perché gli sfidanti sono potenzialmente molto più solidi e credibili. E tuttavia questo può rappresentare un’aggravante della situazione. Per la prima volta da quando è divenuta la forma trainante dello sviluppo europeo a fine XVIII secolo il modello liberalcapitalistico si ritrova sfidato da modelli ibridi, differenti, che ciascuno a modo suo tenta di cavalcare la tigre tecnologica e produttiva in modo da non essere più inerme rispetto alle pretese imperiali dell’Occidente a guida americana. In ciascuno di questi sistemi la legittimazione del potere avviene secondo forme di accreditamento non prevalentemente economiche, che è invece ciò che caratterizza il modello occidentale moderno. Per questo la sfida appare come una sfida esistenziale, una sfida in cui l’Occidente liberalcapitalistico non ha alcun piano B perché da tempo non riesce ad immaginare un futuro che non ricalchi il modello corrente (individualismo acquisitivo, materialismo astorico, universalismo globalista, capitalismo politico). Che nel futuro alberghi una deflagrazione per il mondo occidentale è ovvio e strettamente necessario: il sistema liberalcapitalistico è sempre stato un sistema generatore di grandi accelerazioni e grandi squilibri, con crisi esplosive ricorrenti. La vera questione è quale sarà la natura della deflagrazione prossima ventura. Infatti una condizione di accettazione della pacifica convivenza con forme di sviluppo radicalmente differenti e non subordinabili risulterebbe fatale per l’Occidente a guida americana. L’ammonimento di Trump, che dichiara letteralmente guerra ad ogni tentativo di proseguire il processo di dedollarizzazione, è espressione di una chiara presa di coscienza in questo senso. L’Occidente a guida americana sa che se non può continuare a giocare la partita di sfruttamento unilaterale che ha giocato finora, capitalizzando forme di scambio asimmetrico, non può sopravvivere. Il problema, ideologico non meno che strutturale, dell’Occidente liberalcapitalistico è che può esistere solo come vertice della catena alimentare. Nel momento in cui si accettasse come un primus inter pares, senza mutare modello di sviluppo, finirebbe per collassare. Per questo motivo, in maniera sempre più tenace, l’Occidente a guida americana cercherà il confronto diretto con tutti i suoi potenziali competitori, per sfruttare ancora la propria posizione di relativa superiorità in alcuni campi. Dunque, che all’orizzonte ci sia una deflagrazione è certo. Se questa possa avere natura limitata o non invece il carattere proverbiale di Sansone che decide di morire portando con sé tutti i filistei (ed ogni cenno alla vicenda mediorientale è puramente intenzionale), questo è tutto da vedere. Andrea Zhok
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5 Dicembre 2024 Da Rassegna di Arianna del 2-12-2024 (N.d.d.) Perché le "Élite", quelle del tanto nominato "Deep State", hanno capito di dover, senza essere troppo recalcitranti, fare affidamento su Trump, che a questo giro non lo hanno effettivamente contrastato? Per una ragione molto semplice: gli Stati Uniti hanno perso posizioni su tanti settori strategici che ne compromettono l'egemonia. Si potrebbe anche parlare del calcolo sbagliato della globalizzazione ma questo ora non è il punto. Il fatto è che quelle idee su come gestire il futuro economico di un mondo alla fine della Storia erano essenzialmente sbagliate. Lyndon LaRouche prevedeva che il crollo dell'Occidente sarebbe arrivato a causa della forbice di investimenti fra economia finanziaria ed economia reale. Le classi dirigenti russe e cinesi, o quelle di altri neo-imperi emergenti, Turchia, Iran etc. non hanno aderito a questa deriva ideologica dell'iperfinanza, che in fondo sembra molto lo stadio terminale, postmoderno, dello stesso liberalismo in quanto ideologia dell'emisfero occidentale. Gli Stati Uniti si sono quindi scoperti del tutto impreparati e arretrati rispetto ai loro concorrenti, con il vecchio e un tempo onnipotente apparato militare-industriale che oggi è del tutto inadatto a produrre armamenti su vasta scala, economicamente sostenibili e soprattutto in modo autarchico, senza dipendere dalla Cina per la componentistica e l'high-tech. In altre parole: gli Stati Uniti, tolta la loro riserva strategica, non sono in grado di sostenere una guerra moderna ad alta intensità contro un'altra grande potenza, e soprattutto per un periodo di tempo non programmabile, se si escludono gli armamenti nucleari. Quindi l'opposizione elitaria o "di apparato" a Trump assume un connotato e un senso del tutto diverso, così come molto diverso probabilmente sarà lo sviluppo della seconda amministrazione Trump. Nel 2016 delle élite molto ideologiche e snob pensavano di ostacolare un populista che voleva presentare loro il conto della globalizzazione. Oggi le stesse aristocrazie del capitalismo finanziario corrono a chiedere di farsi guidare dal Tycoon neopopulista perché si sono accorte di avere perso la base della competitività del loro blocco egemonico. Quindi una parte considerevole del potere statunitense ora spera che Trump possa guidare il processo di reindustrializzazione americana. Non hanno scelto Trump ovviamente, che probabilmente detestano, ma la sua ricetta. Del resto se non ci fosse lui, probabilmente questa missione sarebbe stata tentata con qualcun altro della galassia trumpiana americana, come Ron Desantis. Il parallelo storico è con il secondo mandato a Necker per dirigere le finanze di Francia, in un disperato tentativo di salvarsi dalla bancarotta prima del diluvio rivoluzionario, dopo che la Corte lo aveva precedentemente messo alla porta. All'epoca la seconda gestione Necker arrivò ovviamente troppo tardi. Come troppo tardivo sembra il ripensamento dei poteri dirigenti americani di fronte all'affondamento della Medusa. La sostanza è molto semplice ed è questa. Nessun complottismo o dietrologia, né nel senso di chi vorrebbe un Trump ormai venduto al Deep State, né alla QAnon con tanto di allucinati che inneggiano alla "trattativa" con le misteriose élite che decidono di patteggiare per non finire deportate a Guantanamo dai Cappelli Bianchi. Non c'entrano l'adrenocromo, i bambini, la pizza, il satanismo, i pedofili e altre amenità. La zuppa è molto semplice ed è questa che ho esposto. La domanda che ora resta è: è ancora in tempo Trump a riportare l'America su posizioni dominanti o quanto meno competitive nella sua base industriale, senza fare marcia indietro rispetto a un intero sistema incentrato sulla finanza, o il ruolo di egemone mondiale andrà perso in un mondo con altre grandi potenze? E anche a noi, come italiani, poi come europei, e infine come membri dell'umanità in cammino, ci serve veramente che l'America ritorni di nuovo grande? Oppure non sarà meglio che il "Secolo americano" si chiuda definitivamente e per sempre? Matteo Martini
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Avviare una dinamica internazionalista |
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4 Dicembre 2024 Da Rassegna di Arianna del 2-12-2024 (N.d.d.) Sull'ipotesi di una guerra termonucleare globale, nessuno è in grado di fare previsioni (e chi le fa, quindi, è un ciarlatano). Per ciò che riguarda invece una guerra in Europa, il problema delle previsioni non si pone in quanto c'è solo da prendere atto di quello che stanno affermando e materialmente attuando tanto i governi nazionali del continente quanto gli organismi dell'Unione Europea. Provando a imbastire un parziale e sbrigativo elenco dei recenti atti e pronunciamenti, infatti, emerge il seguente quadro. 1) Il Parlamento Europeo ha votato contro ogni ipotesi di negoziato fra Russia e Ucraina e a favore del proseguimento a oltranza della guerra nonché, ovviamente, delle spese militari. 2) In diversi paesi europei, si sta parlando di reintroduzione della leva e, per quanto riguarda l'Italia, si comincerà col richiamare i giovani che sono stati in questi anni scartati per la carriera di militare di professione. 3) La Germania ha avviato un costosissimo "piano bunker" per allestire, all'incirca, 200.000 rifugi anti-atomici. 4) In Svezia, Germania e altri paesi, vengono distribuite brochure informative su come sopravvivere nelle prime 72 ore successive a un'esplosione nucleare (con effetti involontariamente comici, a causa della somiglianza con quegli spot informativi americani degli anni '50 che suggerivano di mettersi al riparo sotto al tavolo della cucina). Appare dunque evidente che l'Unione Europea rappresenti, oggi, il principale dispositivo di compattamento e disciplinamento delle nazioni verso l'obiettivo della guerra con la Russia. Ne consegue che una prospettiva che voglia scongiurare tale possibilità e riportare la pace deve, oggi più che mai, puntare politicamente alla distruzione delle istituzioni eurofederali. La differenza sostanziale fra l'emergenza pandemica di qualche anno fa e l'attuale emergenza bellica, consta del fatto che i popoli non credono affatto a quest'ultima narrazione dominante. La vivono con depressione e rassegnazione, certo, ma non la appoggiano. Se a questo aggiungiamo il tracollo della produzione industriale, i licenziamenti e la diminuzione drastica del potere d'acquisto del ceto medio, osserviamo un potenziale di dissenso e rifiuto decisamente maggioritario in buona parte delle opinioni pubbliche nazionali. Per tale motivo, bisogna dunque avviare una dinamica internazionalista di mobilitazione congiunta e continuativa (per esempio una volta a settimana) nelle piazze dell'Italia, della Germania e della Francia. In breve, si tratta d'innescare una dinamica internazionalista per un'Europa che non aspiri più allo stato unico imperiale progettato dai neoliberisti, bensì che sappia pensarsi come plurale, molteplice, multipolare. Una dinamica internazionalista come quella materializzatasi dal basso durante la Primavera dei Popoli del 1848, un'insurrezione dei popoli congiunta ma dove, al contempo, ciascun popolo lotti per la propria sovranità nazionale, contro il mostro eurofederale e contro i mastini della guerra che lo governano. Riccardo Paccosi
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2 Dicembre 2024 Da Rassegna di Arianna del 30-11-2024 (N.d.d.) Da giovane pensavo di essere troppo ignorante per comprendere l’arte contemporanea. Da vecchio, sono troppo bisbetico per non essere convinto che si tratta di un grande imbroglio. Che cosa pensare della banana di Maurizio Cattelan, il cui titolo è Comedian, ossia attore comico? Sincerità dell’artista, assai bravo a scoperchiare la menzogna dei mercanti e dei critici d’arte, nonché a trarre vantaggio dalla supponente dabbenaggine modaiola di collezionisti che non capiscono – come me – ma si adeguano alla vulgata di “color che sanno” (che cosa, poi?) e pagano fior di quattrini per esibire in salotto opere – ma la parola magica è “installazioni” – che il mondo al contrario considera espressioni artistiche. La realizzazione di Cattelan, inizialmente venduta per centoventimila dollari, consiste in una comune banana fissata al muro con nastro adesivo. La performance artistica, informa Wikipedia, è consistita in una serie di eventi che ruotavano attorno al frutto in una fiera d’arte a Miami, luogo della prima esposizione. La banana, una volta marcita, può essere sostituita con un’ altra. O tranquillamente mangiata, ciò che avrebbe già fatto il suo ultimo acquirente, un miliardario cinese, Justin Sun, finanziere specialista in criptovaluta. Tutto si tiene: criptomoneta per criptoarte. Chissà se è virtuale anche il pagamento di oltre sei milioni di dollari. Novanta minuti di applausi a Cattelan, capace con una banana e qualche centimetro di nastro adesivo di smascherare il nichilismo artistico, sbeffeggiare acquirenti e critici e diventare ricco. Peraltro, è anche l’autore del gigantesco dito di marmo – tecnicamente magnifico – esposto a Milano di fronte al palazzo della borsa, il cui titolo è l’acronimo LOVE (libertà, odio, vendetta, eternità) . Uno sberleffo alla finanza, o forse è la finanza che si rivolge a noi attraverso l’opera per spiegarci – esibendo il dito medio alzato – che cosa pensa delle sue vittime. La forza del capitalismo è assorbire tutto, anche le critiche più feroci sino a metterle in vendita e guadagnarci sopra. Pensiamo all’immagine-culto di Che Guevara diventata un brand o al “no logo” (dal libro anticapitalista di Naomi Klein) trasformato a sua volta in marchio di successo. Viene voglia di applaudire chi è capace di farsi pagare dai suoi avversari. Un’arte sopraffina anch’essa. Inutile, nel caso della banana, scomodare le definizioni di arte. Basta un aforisma dell’austriaco Karl Kraus: arte è ciò che il mondo diventerà, non ciò che il mondo è. Appunto: il mondo capovolto. Oppure una riflessione del pessimo Theodor W. Adorno in Minima Moralia: il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine. Missione perfettamente compiuta, a partire dal celebre orinatoio (Fontana è il nome ufficiale) di Marcel Duchamp del 1917, il primo a teorizzare che tutto può essere arte. Da allora ogni espressione di creatività può essere considerata (o spacciata) come arte. Citiamo ancora la bibbia laica postmoderna, Wikipedia. “Fontana è un’opera ready-made (??) realizzata dall’artista Marcel Duchamp nel 1917. Non fu mai esposta al pubblico e andò successivamente perduta. Consiste in un comune orinatoio firmato R. Mutt e intitolato Fontana, e viene considerata da alcuni storici dell’arte e teorici specializzati una delle maggiori opere d’arte del ventesimo secolo. Dal 1964 esistono nel mondo sedici repliche dell’oggetto. “ Con buona pace di Walter Benjamin che teorizzò la differenza tra valore culturale e valore espositivo e scrisse un saggio su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. E, nella fattispecie, della sua sostituzione con un’altra banana. Onore a Maurizio Cattelan, che prende in giro il circo artistico e diventa ricco. Epigono di altri artisti, da Piero Manzoni con il famoso barattolo di deiezioni sue (Merda d’artista) a Lucio Fontana che realizzò i celeberrimi “tagli” sulla tela vuota per evocare la quarta dimensione, sino alla pop art di Andy Warhol con la serie di trentadue tele sulle scatolette di fagioli Campbell. Se io inventassi un nuovo modello di scopa, potrei rivendicare la qualifica di artista: creatività. Del resto, ho un amico che si dedica veramente alla storia delle scope. È l’impero dell’equivalenza in basso: non ci sono distinzioni o gerarchie, né tra gli uomini, né tra le cose. Tutto è accidentale e ha il medesimo valore. Di conseguenza, tutto può essere arte. Iniziò il russo Malevich, astrattista, che all’inizio del Novecento dipinse – o meglio realizzò, poiché l’atto del dipingere non lo compì – il noto Quadrato nero su sfondo bianco, cui seguì il Quadrato bianco su sfondo bianco. Malevich dichiarava la pittura un pregiudizio del passato, affermando che era scoccata l’ora finale dell’arte. Siano proscritte le belle arti, concludeva. Una profezia che si è avverata, poiché non solo l’’arte contemporanea (postmodernità e post-arte) sembra spesso l’apologia del brutto, ma perfino del deforme, dell’osceno, dei sogni, degli incubi e del perverso. Capì tutto il grande Goya nell’incisione nota come Il sonno della ragione genera mostri. Al di là della provocazione, della trasgressione obbligatoria diventata nuovo conformismo, molti artisti – sedicenti tali – non sono che interessati analisti delle follie di quest’epoca, sicuri dell’ applauso del mondo al contrario inconsapevole della propria decadenza. Di recente hanno fatto notizia gli attentati all’”arte” compiuti da ignare addette alla pulizia di alcuni musei, che hanno gettato nel bidone dell’ immondizia certe “installazioni” esposte, a base di rifiuti, chiare allusioni alla realtà contemporanea di “creativi” ribattezzati artisti. Ignoranza crassa o saggezza popolana? Che dire di un’altra opera, la fotografia dell’americano Andrès Serrano, Piss Christ, una statuetta di Cristo Crocifisso immersa nell’urina, che ottenne anche un premio in denaro da un ente governativo statunitense? Cattelan, peraltro, ha giocato tutta la sua carriera sul filo della provocazione e dell’happening. Nel 1999 presentò come opera vivente, intitolata A perfect day, il gallerista milanese Massimo De Carlo, appendendolo a una parete della galleria con nastro adesivo grigio. Il poveretto, stremato e privo di sensi, fu ricoverato al pronto soccorso. Giusta punizione di un addetto ai lavori? Abbiamo letto un articolo del giornalista progressista Luca Ciarrocca, estimatore dell’arte contemporanea, sul caso della banana milionaria. Depreca l’esagerazione del prezzo, condanna l’insulto alla povertà, parla di trumpismo rampante (il senso del ridicolo non è di casa tra i Giusti e Sapienti), pare non credere al valore artistico della banana sino a dubitare di se stesso – lorsignori, quando pensano liberamente, si sentono in colpa – ma poi si rassicura. Un amico competente – un esperto, vil razza dannata più dei cortigiani odiati da Rigoletto – lo convince. Questo lavoro, spiega, è sostanzialmente in linea con il pensiero dominante dell’autore, è una presa in giro del mercato dell’arte. Cattelan sta semplicemente spingendo i confini per vedere fino a dove può arrivare con la sua provocazione e, visto che ha trovato un compratore, sicuramente non si fermerà qui. Esatto: non di arte si tratta (l’esperto usa il termine “lavoro”) ma di mercato. E magari di imbroglio, diciamolo una buona volta. Come aveva capito Voltaire due secoli e mezzo fa, conta “ épater les bourgeois”, stupire i borghesi, i quali, convinti da un nugolo di intellettuali a fattura, crederanno che sia arte e compreranno a caro prezzo qualsiasi “lavoro” per non fare la figura degli ignoranti e stupire a loro volta gli ospiti, invidiosi di chi possiede un’ opera famosa di cui non capiscono nulla, benché mai lo ammetteranno. Il mercato dell’arte contemporanea è una truffa, riconosce Ciarrocca, ma finisce per prendersela con l’acquirente, colpevole di incarnare il peggio del nuovo capitalismo. Vero, ma che dire dell’ assurdo di chiamare arte ciò che manifestamente non lo è, come capiscono i semplici, ma non gli intellettuali, e di attribuire a tutto il cartellino del prezzo? Come dimenticare che il degrado – in questo e in mille altri ambiti – è figlio di un sistema che ha rovesciato ogni principio e giudizio di valore, sino a confondere la creatività – o il semplice fare – con l’arte, che esprime bellezza, elevazione, perizia, stile, trascendenza. Pensava forse Michelangelo che l’affresco della Cappella Sistina fosse un’installazione? Comodo prendersela con Justin Sun, che – consapevole o meno – ha svelato a colpi di dollari ciò che è evidente a noi poveri ignoranti, ossia che l’astuzia di autori, galleristi, critici non è altro che la sovrastruttura per giustificare un giro di denaro estraneo al concetto di arte. La stessa estraneità delle somme assurde pagate da qualcuno per autentici capolavori ridotti a fenomeni da baraccone, da mostrare a pagamento a un pubblico armato di smartphone, intento a fotografare frettolosamente – incombe il selfie “artistico” del visitatore successivo – il frutto del genio di un Van Gogh, osservato solo perché pagato molto. Il regno della quantità, segno dei tempi. Povero Vincent, non avevi capito come vanno le cose del mondo. Meglio Cattelan, che ha realizzato vere sculture, ma è diventato celebre con le performance, le installazioni e le banane. Meditate, artisti, meditate. Roberto Pecchioli
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