12 Novembre 2024 Ciò che c’è La cultura che ci avviluppa, nei suoi popolari svolazzi, si mostra nelle battute da bar, nei titoli dei giornali, nei testi delle pubblicità. Sotto la superficie che tutto ricopre, in profondità se ne trova il cuore nei vanti della scienza, nella concezione del prossimo, della vita e di se stessi, nell’ideologia del progresso, nella medicina, nell’educazione, nella formazione (un’eccellenza), nella comunicazione o presunta tale. Tale brodo di coltura in cui, più o meno tristi, tutti sguazziamo, nuotiamo, navighiamo o naufraghiamo è convenzionalmente detto materialista. Vale a dire, concentrato sulla dimensione cosiddetta materiale della realtà e di tutto. Ne deriva che intelligenza e creatività, scorrazzano nel limitato campetto di gioco governato da regole, linguaggio e significati definitivi, ai quali tutti possono e devono attenersi al fine della propria integrazione sociale o, al contrario, per non venire emarginati. È il campetto del meccanicismo, cioè quello dove tutte le relazioni con qualsivoglia elemento della realtà, umano e non, emergono da uno sfondo di calcolo al fine della prevedibilità e modifica. In cui, il potere assoluto attribuito alla logica non lascia scampo al pensiero degli uomini che ne sono schiavi, propagandisti, giudici. Come i crociati avanzano a spada sguainata in mano e diritto di morte nel cuore. La loro presunzione è apicale, niente e nessuno può far cambiare loro idea. Neppure i culmini del loro discorso da paladini della cultura: la mortificazione generale delle persone, la guerra come pratica ordinaria, i soprusi e la violenza che, incuranti, si lasciano alle spalle del loro passaggio. Alla natura materialista e meccanicista della cultura in corso, fanno seguito e corpo quella positivista, progressista, capitalista, razionalista. E anche la conoscenza come accumulo di dati, ovvero tutto ciò che l’unità di misura logico-razionale può quantificare, e oggi – non plus ultra – mercificare: se non hai un qualche valore misurabile, non sei. Null’altro che, nel rispetto delle regolette del campetto di gioco prima citato, non possa venire dimostrato, e quindi riprodotto a volontà tutte le volte che lo si desidera, ha la dignità del reale. L’esaltazione plebiscitaria della meritocrazia, ne è una sconsolante conseguenza, così come lo è stata la democrazia. Entrambe, piccole verità secolari, pronunciate come universali, ma semplicemente campionesse incontrastate di materialismo applicato agli uomini o di intelligenza ergastolana nei loculi delle ideologie e obesa di intellettualismo. Con tale terreno sotto i piedi diviene normale concepire e quindi pensare e fare come se il mondo, esseri senzienti inclusi, fossero oggetti, cioè elementi inerti, nei confronti dei quali ci poniamo come al cospetto di una sedia: la utilizziamo alla bisogna, la sfruttiamo per sostituire la lampadina bruciata, la modifichiamo se non ci piace il colore, ce ne sbarazziamo anche se funziona ancora, la colpevolizziamo se cede sotto il nostro peso. L’altro, l’altra parte non solo è suggestione non misurabile ma proprio non esiste, la cultura lo impone, il sistema funziona così, come una macchina di cui siamo pezzi e accessori quando non cagnolini con la testa dondolante. Come altrimenti dare ragione alla politica che tutto fa meno che lavorare per concorrere a creare individui consapevoli di sé e della comunità a cui appartengono. Un lavoro permanente e lungimirante al quale ha preferito quello a breve termine offertole dalle leggi, ancora una volta, espressione materialista. In quale altro modo concepire la questione del genere, la maternità surrogata, la cancellazione delle culture, la prostrazione della tecnologia, il politicamente corretto, le quote rosa, la deliberata censura, il viatico del controllo e della sorveglianza, per tenere a bada miliardi di persone, per farne pupazzi. Ciò che non c’è Nulla è esente dal maglio materialista. La terra, l’intero pianeta, risulta così essere un oggetto, ovvero qualcosa di cui poter disporre senza neppure porsi il problema se esso ci può davvero appartenere, tanto da farne deliberatamene ciò che più ci aggrada. Per le medesime circostanze è esistita ed esiste la schiavitù, gli allevamenti che, più che chiamarli intensivi, è opportuno chiamarli della vergogna, o dell’abiura dell’uomo, la comunicazione creduta insita nel linguaggio logico e tanto altro. Una differente cultura e quindi realtà e pensieri scaturirebbe da una concezione del mondo che non ci veda osservatori ma autori di quanto osserviamo. Realtà e conoscenza da oggettiva diverrebbero relazionale, ovvero terza cosa rispetto alle parti della relazione stessa. La consapevolezza dell’autonomia della relazione comporta la presa di coscienza del modo condizionato, autoreferenziale, arrogante, nel quale si era prigionieri. Una premessa per avviare il modo dell’ascolto di quanto accade, una modalità di porsi che implica la piena dignità dell’interlocutore, alla pari con quella che vorremmo ci fosse accreditata. La realtà nella relazione è quella in cui si muove l’esploratore. Questo, valuta e considera tutto e, se commette una sconvenienza, ha piena consapevolezza di esserne il solo responsabile. Se nel modo della relazione, al pari della mente di Gregory Bateson, che ha vita propria, cioè comportamenti che non possiamo prevedere, dominare e determinare, significa che non siamo al cospetto di un oggetto ma di un organismo. Significa che applicare il meccanicismo ad oltranza, senza la consapevolezza del suo essere elefante in cristalleria quando la relazione va oltre i campetti normati, è l’espressione di una patologia culturale terminale. Campioni di consapevolezza che la realtà è nella relazione sono la madre e il maestro. Il figlio e l’adepto non subiranno pressioni né forzature, ma godranno di pazienza e rispetto. I loro cosiddetti fallimenti, lo saranno anche di chi se ne ha cura e i loro successi, li vedranno gioire insieme. Il contrario della madre e del maestro sono la pretesa, l’indifferenza, il sopruso come prassi inconsapevole, autorizzata dal titolo o dal potere che l’ambito ci conferisce e autorizza ad esercitare. In questi casi, le conseguenze sono tendenzialmente di tipo spiacevole. Il meglio che da questa sterile modalità può nascere sono il kapò, il delatore e il sottomesso, il delfino, l’uomo stampino. Matricidio Ma se il modo della relazione, che comporta ascolto e tiene a bada l’autoaffermazione, induce a riconoscere l’organismo di cui facciamo parte, una natura dalla quale non possiamo mai essere altra cosa, significa che anche gli eventi meteorologici non ordinari che da qualche anno si stanno realizzando hanno a che vedere con la pratica dell’umiliazione, malefica deriva implicita nella concezione materialista del mondo. Null’altro che un’alterazione della stabilità che comporta sofferenza, che può divenire incontenibile. È un male di tipo sistemico: ogni intervento correttivo è parziale per definizione; quindi, sostanzialmente inadatto e perciò peggiorativo in quanto più che correggere, alimenta la vita del paziente terminale. Il controllo della meteorologia, l’ingegneria climatica, per ragioni economiche – come in Marocco e in altri paesi – o belliche – da chi ritiene di avere in sé il mandato di esportare il proprio modello e il diritto all’egemonia mondiale – non è ancora considerato la causa dei violenti, o fuori statistica, episodi di alluvioni. Si preferisce colpevolizzare tutti noi sudditi del loro capitalismo. Come non lo è l’incremento di campi elettromagnetici per la guerra dello spionaggio e della guida di armi a controllo remoto nei confronti del comportamento anomalo di tanti animali e insetti. Tartarughe marine e delfini che deragliano incaponiti a puntare a terra anche se invitati a prendere il largo, api che spariscono dai territori di residenza, così come avevano già fatto cervi volanti e lucciole ai tempi del primo inquinamento socio-industriale del secolo scorso, la popolazione più che dimezzata delle farfalle monarca, causata dalle connaturate violenze chimiche e ambientali in seno al cosiddetto progresso. Il mantenimento dell'equilibrio, istinto inestinguibile di ogni organismo senziente, non ha potuto assorbire la pesante invasività di certe azioni compiute sotto l’egida dell’egocentrico delirio di onnipotenza di certa umanità e, ancor più, sotto il patrocinio della narcisistica presunzione di essere altro dalla natura, di non avere con essa alcun legame e quindi, di non elaborare più un pensiero di rispetto e pari dignità, con le relative conseguenze di soddisfazione e bellezza. Urbanizzare i conoidi dei valloni, i bordi degli alvei dei corsi d’acqua, fare politica secondo la priorità assoluta dell’interesse economico, replicata indipendentemente dalle caratteristiche locali e ancor più da quelle bio-regionali, ne rappresenta il contrario. Non significa che divenire immobili, non è in questi termini che si incarna il rispetto. Significa invece ringraziare, come facciamo con chiunque, per quanto essa ci offre. Come nei confronti di ogni essere senziente, l’organismo natura non può essere bistrattato. L’Emilia e la Valencia sono solo gli ultimi episodi di una collana di reazioni, indicatori di una tendenza, che forse mai la terra avrebbe mostrato se la relazione con essa non fosse stata tanto miserabile dal crederla conquistabile, se fosse stata vissuta come un organismo, di cui siamo peluria. Se gli uomini non si credessero altro da lei, se non avessero creduto di poter reciderne il legame, pensando perciò di poter vivere facendo a meno del sentimento per rispettarla quanto una madre. Quanto sacra origine. Lorenzo Merlo
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Processo di disumanizzazione |
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10 Novembre 2024 Da Rassegna di Arianna del 9-11-2024 (N.d.d.) Nella degenerazione contemporanea dello scenario politico una delle cose che più colpisce è lo scatenarsi di atteggiamenti di ferocia, disprezzo, disumanizzazione, psichiatrizzazione, demonizzazione dell’avversario. Lo si vede in questi giorni dopo la vittoria di Trump, con un proliferare di crolli nervosi che emergono in rete e nella pubblicistica di fronte alla “vittoria del Male”, ma lo si vede continuamente in mille contesti. Lo abbiamo visto nei giorni del Covid, dove abbiamo cercato di giustificare esibizioni di malvagità, crudeltà, auspici di morte con la dinamica psicologica della paura. Lo vediamo nel modo in cui si sviluppano (o meglio NON si sviluppano) i discorsi sulle tematiche del “politicamente corretto”, dove ogni discussione aperta è impossibile e dove sensibilità isteriche pronte a scatenarsi sbranando “il Male” sono onnipresenti. Lo vediamo nella demonizzazione delle alterità politiche sul piano internazionale. Ciò che colpisce è come questa tendenza allo scontro inconciliabile, alla repulsione senza sconti né mediazioni, avvenga proprio nell’epoca per eccellenza della “fine delle ideologie”, della “fine delle grandi narrazioni”, della “secolarizzazione”. Per come ci sono state raccontate molte vicende storiche, siamo abituati ad associare lo scontro senza esclusione di colpi all’attrito tra identità forti, identità collettive irriducibili, visioni del mondo radicalmente alternative. La modernità (o postmodernità) ci è invece stata spesso venduta come il luogo dove abbiamo sì sacrificato forti radicamenti, visioni ambiziose e palingenetiche, ma almeno lo abbiamo fatto nel nome della pace, della fratellanza, della pacifica convivenza in un “villaggio globale” esente da contrapposizioni radicali. Solo che le cose appaiono alquanto diverse da quanto ci è stato fatto balenare. Nel secondo dopoguerra abbiamo assistito alla capacità di riconoscimento reciproco, e persino alla collaborazione pragmatica, di soggetti che pochi anni prima si erano sparati addosso, di appartenenti a visioni del mondo davvero nettamente divergenti. Democristiani e comunisti erano portatori di ideologie robuste e profondamente diverse, e tuttavia riuscirono a produrre quel mirabile ed equilibrato documento che è la Costituzione. Persino gli ex fascisti vennero reintegrati, con la sola clausola che non pretendessero di riproporre tale quale la proposta politica che aveva portato il paese al disastro bellico (divieto di ricostituzione del PNF). Oggi che ovunque in Occidente la “politica dell’alternanza” è alternanza tra varianti della stessa ideologia liberale, con una sovrapponibilità delle politiche al 90%, proprio oggi l’odio inconciliabile tra le parti, il mutuo disprezzo sembrano essere le caratteristiche dominanti. Com’è possibile tutto ciò? Ecco, credo che per capire questo stato di cose noi dobbiamo prima comprendere qualcosa di fondamentale intorno alla forma delle contrapposizioni umane. Una contrapposizione di carattere ideale, quali che siano le idealità a confronto, è una contrapposizione che si muove pur sempre in una sfera umanamente condivisibile, almeno di diritto: la sfera delle idee appunto. Un’idea diversa da un’altra, una ragione inconciliabile con un’altra ragione sono pur sempre idee e ragioni, e come tali sono potenzialmente condivisibili: è possibile cambiare idea, è possibile comprendere le ragioni altrui. Questo significa, banalmente, che due visioni del mondo articolate in idee e ragioni, per quanto possano essere diverse, sono comunque parte di un comune gioco umano. Il processo di disumanizzazione avviene invece in forme diverse, essenzialmente prepolitiche, tipicamente radicate in variabili naturali. Il caso idealtipico è naturalmente il razzismo, dove qualunque cosa il “razzialmente-diverso-e-inferiore” faccia o dica diventa irrilevante, perché niente potrà cambiare la sua “inferiorità naturale”. Ma questa sfera naturale e prepolitica è, in effetti, divenuta nel discorso pubblico contemporaneo la sfera dominante. Così, non rileva se Trump e Harris avessero contenuti decenti o indecenti, seri o ridicoli, diversi o uguali; la questione seriamente discussa diventa: “Com’è possibile che le donne, o gli immigrati, o i “coloured”, ecc. non abbiano votato per <<uno dei loro>>?” La differenza politica in primo piano ora appartiene ad una sfera prepolitica, naturalistica, impermeabile alla ragione. L’aver trasformato la politica in una competizione tra gruppi di interesse, lobby, e l’aver svuotato la sfera ideologica convergono nel trasformare il discorso pubblico in una sorta di “razzismo universale”. Che le differenze siano di “razza”, “genere”, “orientamento sessuale”, “etnia”, o che trascolorino in giudizi di ordine psichiatrico, epidermico, antropologico, comunque ci troviamo su di un terreno dove le ragioni non hanno più cittadinanza: resta solo la ripulsa (o l’attrazione) istintiva. La distruzione della sfera politica, nutrita e alimentata per decenni dal “pilota automatico dell’economia”, è arrivata al capolinea, producendo una nuova forma di tribalismo naturalistico, di “razzismo universale polimorfo”, che non conosce più nessuna alternativa all’esclusione dell’altro, eventualmente al suo annichilimento. Lungi dall’essere il viatico per forme di pacifica convivenza, la distruzione delle identità politiche e delle ideologie porta con sé il germe del conflitto senza limiti. Le premesse per un futuro di guerre civili all’interno e disposizioni genocide all’esterno sono state poste. Andrea Zhok
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7 Novembre 2024 Credo che sia un errore di valutazione, o nel migliore dei casi una speranza che sarà rapidamente delusa, credere che con Trump gli Usa cambieranno la propria politica estera e diminuiranno la propria tendenza a costituire un fattore di produzione di guerra e instabilità politica globale. La supremazia politica e militare globale è infatti, per gli Usa, un’esigenza sistemica oggettiva, una necessità di sopravvivenza di un sistema che vive al di sopra delle proprie possibilità a spese degli altri popoli del pianeta. Il complesso finanziario-militare-industriale, che garantisce all’élite occidentale la propria ricchezza, ha un’oggettiva necessità di controllo politico del pianeta e di produzione sistematica di guerre, a prescindere dalla guida politica degli Usa. Con Trump, con tutta probabilità, non avremo più l’afflato ideologico della civiltà superiore che ha il diritto / dovere di “esportare la democrazia” nel mondo, quindi l’imperialismo non sarà più colorato con le tinte del millenarismo liberal-progressista: tuttavia, l’imperialismo statunitense non diminuirà affatto e anzi ci sono valide ragioni per credere che ora con Trump si imporrà in modo più diretto e brutale, senza la mediazione della giustificazione ideologica. Non a caso dietro Trump si annida il sionismo più brutale e feroce, che vuole rimuovere ogni flebile freno - anche di semplice facciata - alla volontà di potenza israeliana che non è altro che la punta dell’iceberg della volontà di potenza e dominio delle oligarchie occidentali. C’è da credere, penso, che con Trump si inasprirà anzi la lotta contro “l’antiamericanismo”, e cioè quelle variegate forme di critica alla supremazia imperialistica statunitense e le varie componenti del cuore del suo modello di civiltà (capitalismo, libertà economiche, antistatalismo, rifiuto feroce di ogni forma di socialismo) e per l’Europa si tratta di affrontare un periodo di rinnovata e potenziata restrizione degli spazi di autonomia politica. D’altra parte, il controllo dello spazio politico ed economico europeo è un’altra esigenza oggettiva del sistema-Usa, in questa fase storica, e la crescita dell’estrema destra in tutta Europa è funzionale allo scopo - con l’Italia che sta costituendo un caso di scuola, con il governo Meloni di estrema destra in salsa atlantista che svende il Paese ai fondi finanziari statunitensi. D’altra parte, e qui veniamo al lato positivo, Trump è un fattore di caos, e del caos c’è bisogno in una fase storica in cui la speranza deve essere quella di un’accelerazione del declino politico ed economico degli Stati Uniti, dove si sta aggravando la spaccatura politica interna e i contrasti feroci tra parti della società. Grama consolazione, tifare per il caos, me ne rendo conto, ma strategicamente parlando è dell’aumento del caos nel cuore dell’Occidente che, in questo momento storico, c’è bisogno per un’accelerazione della transizione al mondo multipolare, l’arretramento del modello liberal-capitalistico a livello globale, l’affrancamento dell’Europa nel medio-lungo periodo rispetto al controllo politico e militare statunitense. Osservatorio Italiano sul Neoliberalismo
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4 Novembre 2024 Da Comedonchisciotte del 3-11-2024 (N.d.d.) Ci risiamo: altra consultazione, altro giro di giostra, altra retorica della vittoria. I numeri sono numeri. Vince il centro destra. Il Pd esulta e lancia messaggi, per niente velati, ai compagni di avventura (o sventura), tra i quali quel tal Giuseppe Conte che si impuntò nel pretendere l’esclusione, nel fantomatico “campo largo”, di Matteo Renzi, e della sua manciata di voti, che forse avrebbero fatto la differenza. Forse. Anche perché l’apporto dei “centristi” alla Calenda non pare aver inciso un granché. Tutta da interpretare l’ulteriore perdita dei voti del M5S: colpa delle posizioni di Conte verso Renzi? Oppure ha influito lo scontro tra Conte e Grillo? Oppure i simpatizzanti del movimento non hanno digerito l’alleanza con il PD? Non manca la “preoccupazione” per il poderoso peso dell’astensione (ma davvero?). Anche qui si consuma il solito copione: manifesto disappunto, dispiacere, per quanti non hanno sentito la necessità di consumare il rito democratico delle urne. Ma giusto il lasso di tempo in cui ci si incupisce e ci si indigna in Italia: più o meno la durata di un orgasmo (maschile). Già dell’astensione non si parla più: da molto tempo nel paese chi dissente, e ritiene inaccettabile il basso livello cui è giunta la politica, discute e si confronta sulla efficacia del rifiuto di recarsi alle urne. L’evidenza dei numeri è impietosa: prevale un sentimento diffuso di inutilità del proprio voto, un disgusto per l’assenza di una “normale” coerenza tra le promesse profuse in campagna elettorale e i comportamenti parlamentari. L’astensione ha molteplici sfaccettature: può essere legittima protesta per chi sente di non aver altri strumenti di difesa, di ribellione verso un sistema opprimente. O può essere semplice indifferenza; il “virus” dell’ipocrisia, ha infettato tanto la destra quanto la sinistra. Quello che dovrebbe essere un segnale forte inviato alla classe dirigente, viene, di fatto, impunemente ignorato. Così il cittadino medio vede nel “politico” solamente più un mercenario interessato a occupare una poltrona: un burattino nelle mani di poteri “altri”, oscuri, non dichiarati, inconfessabili. Le rivoluzioni, storicamente, han sempre visto una “classe” sociale come promotrice. Insoddisfatti, o contestatori, oppure oppositori, di una data situazione: nella maggioranza dei casi di natura economica. Da lì comincia un processo, dapprima intellettuale, sino a giungere al progetto politico, alla lotta per il cambiamento. La questione reddituale è sempre lo stimolo primario, per coloro che “soffrono” economicamente, o temono di perdere benefici e diritti acquisiti. […] Gli anni ’60 e ’70 han visto fiorire lotte sociali per conquistare diritti e maggiore retribuzioni per i lavoratori. Le crisi petrolifere hanno posto fine allo sviluppo economico e sociale dei “Trenta gloriosi”, riportando in auge le teorie economiche neoclassiche, con i suoi mantra sullo Stato cattivo e sprecone, avverso al privato virtuoso ed efficiente. Comunque gli anni ’80 e parzialmente ‘90, hanno diffuso un benessere materiale indiscutibile. E sulle lotte operaie calò inesorabile la “marcia dei quarantamila” quadri della Fiat. Il Filosofo Nicola Donti, in uno dei suoi acutissimi interventi riprodotti sul web, parlando di cambiamento, di crescita personale, di mutamenti della società, sottolinea: ma quando io, a casa mia, ho il televisore a 50 pollici, l’abbonamento a tre canali per vedere film, cartoni, calcio, spettacoli di varietà discutibili, più tutti gli altri comfort… ma chi me lo fa fare di impegnarmi nella rivoluzione?!? Qui lambiamo uno degli aspetti “pratici” (e psicologici) del problema “astensione”. La società che fonda il proprio benessere sull’individualismo spinto, nella quale l’irrazionalità del “mercato” promuove (attraverso una pubblicità martellante) il “paese dei balocchi”, in cui la tua unica preoccupazione è di “avere”, e non di “essere”, per poter esprimere sempre di più con forza la tua megalotimia (il sentirsi “superiore” agli altri, ovvero il contrario della isotimia democratica), difficilmente può produrre dei “rivoluzionari”. Annullata così la “tensione morale” verso il rinnovamento, il cambiamento, il miglioramento della comunità – affogata questa nella melma del consumismo personale, dell’ambizione a-morale -, cosa resta, se non la visione limitata del proprio ombelico? Il pensiero economico dominante è fossilizzato sulla crescita del PIL, con la messa in stato d’accusa del debito pubblico (mentre promuove il debito privato), incurante della ripartizione sociale della ricchezza, indifferente alla povertà (assoluta, relativa, potenziale), considerata come un male inevitabile, o frutto di colpe individuali (“la società non esiste…” sentenziava la Thatcher!): un prezzo da pagare per agevolare il benessere dei più. Dove sono quei borghesi intellettuali che promuovevano il dibattito sociale, politico, economico, nutrimento fondamentale per costruire visioni del futuro, che non si accontentavano di un eterno presente? Non possiamo certo confonderli con il ciarpame mediatico salottiero, proposto quotidianamente dalla TV degli ultimi 30 anni, seppur con le dovute nobili (e rare) eccezioni. All’assenza di una visione intellettuale, segue, di conseguenza, quella progettuale. La sinistra che vuol essere realmente alternativa alla destra… quale progetto di cambiamento individua? Dove sono i programmi realmente alternativi alla destra? Quelli che sanno dire i NO!, belli e corposi, alla sudditanza americana, alla Nato, a una Unione Europea neoliberista, a una idea di occidente che più nessuno vede come riferimento? Quelli che sanno riconoscere il linguaggio orwelliano che si appella alla Pace con la bocca, mentre foraggia di armi i contendenti, riempiendosi il portafoglio di denaro sporco del sangue dei civili bombardati dalle bombe “intelligenti”? In quali cassetti si nascondono quei programmi che puntano al ribaltamento di un sistema economico e finanziario incancrenito sulle disuguaglianze, sull’austerità (espansiva! Sic!), e sulla precarietà? Un modello che relativizza la vita di ciascuno, rendendola potenzialmente “povera” al mutare della situazione finanziaria globale, oppure aziendale, o bancaria? E dove sono i “leader” veri, autentici, quelli che non guardano al proprio ombelico, o solo a quello dei propri sostenitori, ma sanno cogliere la visione d’insieme della pluralità degli “ombelichi”, della inevitabile poliarchia sociale, per costruire un progetto comunitario spendibile e condivisibile? Il Deserto dei Tartari era più popolato. In mezzo alla sabbia rimangono, come velenosi scorpioni in agguato, i cupi interessi individualistici, spettri di una collettività che non si vergogna più di garantire impunità (anche elettorale) al reo di malefatte, di complicità, di interessi privati, menzogne e tradimenti, che prevaricano quelli della comunità tutta. L’astensione non è un solamente numero: è tante cose, è legittima e consapevole protesta, ma è anche l’identità di una società che ha smarrito se stessa tra le pieghe della propria opulenza e indifferenza diffusa. Dove gli esclusi, i “perdenti”, rimangono marchiati con l’emblema scarlatto dell’insuccesso, in una visione sociale americanizzata, drogata di neoliberismo, di darwinismo sociale, ben lontana dalla filosofia impressa tra le righe della nostra Costituzione. Davide Amerio
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Il nuovo capo di Hezbollah |
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1 Novembre 2024 Da Rassegna di Arianna del 31-10-2024 (N.d.d.) Punti salienti del discorso di "investitura" di Naim Qassem come Segretario Generale di Hezbollah: 1) Il Partito di Dio non ha iniziato questo conflitto (così come non l'ha iniziato Hamas - la Palestina subisce l'oppressione da 75 anni e oltre), ma è pronto a una guerra prolungata con Israele. 2) Rimangono aperte le porte della diplomazia se Israele ritira le sue truppe. Qualora ciò non avvenga subirà perdite senza precedenti (le notizie dal campo di battaglia non sono esattamente rosee per Tel Aviv). 3) Tel Aviv sta investendo tutto nel conflitto, mentre la Resistenza ha risorse nascoste ed ancora inutilizzate. Soprattutto ha il tempo dalla sua parte (qualcosa che Netanyahu e soci non hanno, essendo in forte bisogno di risultati concreti ed immediati). 4) Hezbollah non combatte per conto di nessuno. Hezbollah combatte per il Libano. A questo proposito è bene sottolineare che Qassem è stato, con Abbas al-Musawi, il fautore della "libanizzazione" di Hezbollah. Con loro - Musawi (predecessore di Nasrallah) è stato ucciso da Israele nel 1992 - il Partito ha assunto un carattere prettamente nazionalista-conservatore, superando gli accenti ideologici volti all'esportazione della rivoluzione del khomeinismo. In questo senso risulta fondamentale la lettura del testo di Qassem "Hezbollah. La storia dal suo interno" del 2002 (il libro è stato tradotto in inglese e francese). 5) Il sostegno a Gaza era (ed è) necessario per frenare la minaccia che Israele rappresenta per la regione (anche alla luce delle affermazioni degli esponenti del governo Netanyahu). 6) La minaccia non è rivolta solo contro la Palestina ed il Libano ma contro tutti gli Stati arabi (dall'Egitto all'Arabia Saudita). Per questo, Qassem, storicamente filo-arabo, si augura un aiuto degli stessi Stati arabi (che difficilmente arriverà, nonostante tutto). 7) Questa guerra non è solo una guerra di Israele contro il Libano e la Palestina ma è anche una guerra degli Stati Uniti e dell'Europa (forse il punto più interessante, perché sottolinea come Israele, senza il loro supporto, non potrebbe sostenere in alcun modo il peso del conflitto). P. S. Faccio notare che, ad oggi, la strategia israeliana di assassinio mirato contro i vertici delle organizzazioni ostili non ha portato grossi vantaggi. Come affermato in precedenza, nel 1992 Musawi venne sostituito da Nasrallah. Con Nasrallah alla guida, Hezbollah ha conosciuto diverse vittorie strategiche contro il nemico sionista. Dopo che, tra 2004 e 2005, Israele ha assassinato Ahmad Yasin e al-Rantisi, Hamas si è rapidamente trasformato nella prima forza politica palestinese. Daniele Perra
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La globalizzazione è reversibile |
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29 Ottobre 2024 Da Appelloalpopolo del 23-10-2024 (N.d.d.) Quanti asseriscono l’irreversibilità del processo denominato globalizzazione, affermano come corollario la velleitarietà di aspirazioni “sovraniste”. In realtà è proprio il processo di integrazione economica mondiale a rendere necessario il recupero di forme, se non autarchiche, quantomeno tendenti all’autosufficienza. Finché la reciproca dipendenza veniva infatti perseguita unilateralmente dall’Occidente, che prima costringeva gli altri ad aprire i porti con le cannoniere e poi imponeva loro di produrre per le sue esigenze e infine si faceva arbitro e gestore dei traffici intercontinentali, unico acquirente delle esportazioni e unico fornitore di importazioni, allora poteva delegare agli altri l’agricoltura, l’industria, l’approvvigionamento energetico, terziarizzandosi sempre di più. Ma dal momento che gli altri si emancipano dall’invadente tutela e iniziano a commerciare direttamente tra loro, magari senza neanche più utilizzare la moneta occidentale, allora diventa giocoforza necessario riportare a casa almeno parte delle attività delocalizzate per non essere tremendamente vulnerabili. Per intendersi, finché i cinesi acquistano materie prime e vendono manufatti in Sud America pagando e facendosi pagare in dollari, l’egemonia si regge in piedi, ma nel momento in cui cinesi e sudamericani cominciano a regolare le loro transazioni nelle rispettive valute, il dollaro progressivamente si svaluta mettendo in crisi la sostenibilità del debito estero, pubblico e privato, statunitense. Quando questo processo sarà giunto a compimento, gli Usa dovranno scegliere tra rinunciare alla supremazia militare mondiale o utilizzarla. E se sceglieranno questa seconda ipotesi sarà pianto e stridor di denti. Se invece si vuole perseguire la prima, occorre iniziare a lavorare all’indipendenza economica dal resto del Mondo. Poi se un giorno saranno gli altri a bussare ai tuoi porti con le loro cannoniere, potrai valutare l’opzione militare, ma fino a quel giorno, se ami la vita, è meglio fare il “sovranista”. Trump da questo punto di vista non si era inventato nulla, si era limitato a rilevare una necessità impellente. Più a parole che a fatti in realtà. Biden a parole ha voluto riprendere la postura imperiale, il che ha causato una pesante controffensiva delle civiltà extra-occidentali, dall’Ucraina all’Africa passando per il Medio Oriente, ma nei fatti ha iniziato a perseguire la reindustrializzazione. L’Italia farebbe bene a fare lo stesso. Andrea Alquati
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