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L'anno che verrą PDF Stampa E-mail

1 Gennaio 2024

 Da Rassegna di Arianna del 30-12-2023 (N.d.d.)

Ho un pessimo rapporto con la fine dell’anno. Già da bimbo non riuscivo a capire perché si dovesse festeggiare il tempo che fugge. Le riflessioni filosofiche infantili non potevano comprendere l’esorcizzazione della morte e, per contrasto, la necessità di sperare, l’illusione di un nuovo inizio. Tuttavia, volevo partecipare all’evento della nascita del nuovo anno, che nel mio mondo incantato non significava botti e brindisi, ma la convinzione che a mezzanotte precisa avvenisse una vera e propria staffetta tra un vecchio barbuto in disarmo – l’anno vecchio – e un giovane baldanzoso che ne prendeva il posto, l’anno nuovo. […] Pure, bisogna assoggettarsi alle abitudini e fare qualche bilancio di fine anno. Aiuta il testo – bellissimo e sorprendente – dell’ Anno che verrà, la canzone di Lucio Dalla. Caro amico ti scrivo, inizia (anch’io scrivo al me stesso di allora) poiché “l’anno vecchio è finito, ormai, ma qualcosa ancora qui non va”. Era il 1979 quando uscì il disco, e già l’imbroglio era chiaro: “Ma la televisione ha detto che il nuovo anno/ porterà una trasformazione. E tutti quanti stiamo già aspettando”. L’artista finge di credere alle speranze: “sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno, ogni Cristo scenderà dalla croce, anche gli uccelli faranno ritorno. Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno; anche i muti potranno parlare mentre i sordi già lo fanno”. Finzione, illusione, il futuro come posticipo della speranza. Forse il bambino di allora aveva ragione a non capire: “vedi caro amico cosa si deve inventare, per poter riderci sopra, per continuare a sperare”. […]

Ogni volta dobbiamo sperare, fingere festa per dimenticare, immaginare nuovi inizi. Dovrebbe essere più facile – ma non lo è, il nichilismo costa – per l’uomo occidentale contemporaneo, che, dismessa ogni altra credenza, si è attaccato al mito del progresso. Domani sarà inevitabilmente meglio di ieri. Perché dunque volgersi indietro, restare attaccati a tradizioni, modi di vita, valori che domani il progresso renderà obsoleti, perfino ridicoli? Per Jean Paul Michéa i devoti del progresso somigliano a Orfeo, il mitico cantore che cercò di riportare alla vita terrena la moglie Euridice. Commosse dal suo canto, le Erinni, arcigne guardiane dell’Ade – l’oltretomba degli antichi – permisero che Orfeo portasse con sé Euridice. La condizione era che non dovesse mai voltarsi indietro. Alle porte dell’Ade Orfeo non resistette al dubbio: Euridice era ancora dietro di lui? C’era, ma la promessa era infranta e la fanciulla tornò al suo destino. Strane considerazioni, trucioli di mito buoni per non affrontare la realtà, metafore, simboli dell’enigma umano, l’incomprensione del destino, la ribellione dell’animale sapiente all’ordine delle cose, il cui simbolo sono le feste di fine anno, il baccano che cancella il pensiero, i brindisi, l’allegria comandata, spesso sguaiata, le speranze rinnovate nonostante la certezza che saranno presto vanificate. L’anno vecchio e quello nuovo sono assai simili, anzi non esistono. Siamo noi ad averli inventati per misurare, attraverso il corso del sole, l’unico astro che vediamo ogni giorno , un’astrazione che chiamiamo tempo.

Il lettore è spazientito: perché divaga, perché evita il tema del titolo? L’anno che verrà. Hai ragione, amico lettore: divago, giro attorno all’argomento perché ne ho paura. Lo stato d’animo è lo stesso del Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Che fai tu Luna in ciel, dimmi che fai, silenziosa Luna? La domanda che pone è la stessa che evitiamo, sfioriamo, cacciamo con ostinazione ogni momento e specialmente al cambio dell’anno: “Dimmi, o luna: a che vale/ al pastor la sua vita/ la vostra vita a voi? dimmi: ove tende/ questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale?” Ossia, perché ci affanniamo ai bordi del nulla, dopo aver smesso di credere in Dio, finanche in forma di ipotesi, possibilità, o scommessa (la pari di Blaise Pascal) . Che importa dell’anno che verrà? Ben probabilmente sarà simile a quello che prende commiato, succeduto a sua volta ad altri anni in chiaroscuro, con prevalenza del buio. Per questo esito a dire la mia sul futuro prossimo, a rientrare nella realtà rifugiandomi nell’eldorado infantile o nelle metafore della civiltà di cui sono erede postumo, poiché l’Orfeo postmoderno figlio di nessuno ha imparato la lezione e non si guarda più indietro. Ignaro del passato corre in tondo nel presente.

Il 2023, a dire il vero, non si farà troppo rimpiangere. La guerra in Ucraina è continuata, con il suo carico di morte, distruzione, paura. Rispetto a un anno fa, anche i più creduloni hanno capito che vincerà l’orso russo e che gli sfortunati ucraini “ semplici” ( non le classi dirigenti di servizio…) sono le vittime della volontà occidentale di tenere in scacco la Russia. Vecchia geopolitica, nuove giustificazioni. L’anno che verrà vedrà probabilmente finire quel conflitto e scopriremo la portata delle macerie, il numero delle vittime, il conto a piè di lista. Ne sarà valsa la pena? No, risposta elementare. Tuttavia, se fossimo Black Rock, Vanguard, State Street o un altro dei giganti finanziari occidentali, la penseremmo diversamente. Avremmo comprato a prezzi di saldo il territorio ucraino e le sue risorse, guarderemmo le rovine fregandoci le mani in vista delle ricostruzione. Quanti affaroni e affaracci: è sempre così dopo le guerre. E a noi, all’Italietta fornitrice di armi, che toccherà? Poco, temiamo. Alla Germania l’Oscar del peggior attore non protagonista. Allontanata una volta ancora dall’intesa naturale con il vicino russo, privata dell’energia per la sua industria manifatturiera, sconfitta dal nanismo politico militare, esito della disfatta di ottant’anni fa. L’Europa avrà perduto, il Grande Fratello a stelle strisce no. In difficoltà in tutti gli scenari del mondo, rafforza la presa sui vassalli (o servi della gleba) europei. Si sveglieranno l’anno che verrà? Ne dubitiamo, se “dai fatti occorre trarre significazione”. Allineati e coperti anche nel sostegno all’odiosa operazione di Gaza, ultimo frutto velenoso del 2023, gli europei sempre più escono dalla storia. Coperti di ridicolo, un po’ più poveri, l’anno che verrà faranno i conti con gli strascichi della crisi energetica e batteranno nuovi record nella corsa a disfarsi della loro civiltà. Tutti sperimenteranno le delizie del patto di stabilità europoide, la stretta finanziaria che impedirà per anni ogni politica autonoma e arricchirà ulteriormente i (falsi) creditori finanziari. L’Italia sperimenterà le delizie del mercato libero dell’energia. Aumenti del gas del settanta-ottanta per cento. L’anno che verrà qualcuno dovrà scegliere se riscaldarsi o cenare. Nell’anno che verrà non cambierà il governo. Se dovesse accadere, dopo il governo Draghi e quello Dragoni-Draghetti (Draghi più Meloni e Giorgetti) avremmo il gabinetto (oops…) Dragh-schlein, con vernice arcobaleno e camera LGBT. Per il resto, business, as usual, affari come al solito. In compenso, sono morti il quasi centenario Jacques Delors, l’artefice dell’Unione Europea reale e Wolfgang Schaeuble, il cerbero tedesco che strozzò la Grecia nel 2011. Rispetto per la sua fine, non per la cura che impose: il paziente è morto. Solo l’emigrazione di massa ha fatto diminuire la disoccupazione, il malato ellenico non si è rialzato. Non è certo casuale che sia stata uccisa per prima la nazione che inventò, trenta secoli fa, la civiltà europea.

L’anno che verrà avvicinerà ulteriormente la fine e ciò che più stupisce è l’indifferenza, la voluttà suicida degli ultimi epigoni. Orfeo divenuto fluido non si volterà, non ama più Euridice, anzi neppure sa chi è. Che cosa potranno cambiare i prossimi dodici mesi? Ah, sì, rinnoveremo il parlamento europeo, l’istituzione più inutile della Terra, una mecca per i suoi settecento e passa membri, i loro aiutanti e la ricca, onnipotente burocrazia di Bruxelles. Ci divertiremo con il lungo percorso delle elezioni americane, tra colpi bassi, l’evidenza che la democrazia è sempre più una farsa e che al centro dell’impero comandano il denaro e lo Stato profondo, l’alleanza tra industria, finanza, apparati militari e agenzie riservate. Lo scoprì a sue spese un presidente che veniva dall’esercito, Eisenhower, addirittura nel 1960. I suoi moniti rimasero inascoltati. La libertà di pensiero, di stampa e di parola subiranno pesanti giri di vite. L’ Europa è all’avanguardia con il bavaglio del Digital Service Act. Sonno narcotico delle vittime: basta che nessuno vieti le dipendenze che tanto amano, sesso, droga, alcool, gioco, sballo, “diritti”.

Interessante sarà osservare le convulsioni della chiesa cattolica. I preti predicano al deserto – il giorno di Santo Stefano dodici presenti, compreso il vostro scrivano, per la messa mattutina del vescovo di Chiavari – ma riescono comunque a far danni. Chi finanzia gli scafisti, chi fa presepi in chiesa con due madri attorno al bambino, chi scrive le regole per le benedizioni omo, chi – il cardinale Zuppi – depreca che il presepe sia “divisivo” ma non spende una parola per difenderlo. Ci divertiremo vedendo all’opera la neo Chiesa, a patto, beninteso, di non essere credenti. Dopo essere stata protagonista della storia per molti secoli, e poi antagonista per altri secoli, la Chiesa, scrisse un appartato, acuto pensatore italiano, Andrea Emo, è diventata cortigiana della storia, una cocotte invecchiata dal trucco pesante, al basso servizio di un “potere che non la vuole più “ ( P.P. Pasolini).

Non saranno i rintocchi dell’orologio del 31 dicembre a cambiare le cose, dopo la mezzanotte. L’intuizione degli artisti è più fulminante dei pistolotti dei sapienti: “l’ anno che sta arrivando tra un anno passerà. Io mi sto preparando, è questa la novità”.

Roberto Pecchioli

 

 
Vecchie cariatidi ipocrite PDF Stampa E-mail

31 Dicembre 2023

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Da Rassegna di Arianna del 27-12-2023 (N.d.d.)

L’epoca in cui viviamo non sarà forse la più violenta della storia (violenze efferate vi sono state fin dalla notte dei tempi) ma è di sicuro la più ipocrita. Oggi i massacri non si compiono più in nome del sacro egoismo delle nazioni, ma in nome dei diritti umani e dei buoni sentimenti.

In Afganistan, quelle stesse donne che dovevano essere liberate dalla medioevale tirannia dei talebani potevano però essere fatte a pezzi, insieme ai loro figli, dai droni lanciati contro le abitazioni dei presunti terroristi ( in questa pratica, che ha provocato decine di migliaia di vittime, si è distinto il buon presidente premio Nobel per la pace, Barac Obama). Per portare la democrazia in Libia, si sono chiusi entrambi gli occhi di fronte ai pogrom di cui è stata vittima la locale popolazione di colore. Il sistema mediatico dell’Occidente si è persino inventato, con ributtante cinismo, la presenza dei “mercenari neri di Gheddafi”.

Il razzismo, del resto, può sempre tornar buono. I “buu” di sfregio al centravanti avversario suscitano uno sdegno unanime. Se però dal campo di calcio passiamo al campo di battaglia,  le cose cambiano completamente. Da quasi tre mesi Israele colpisce in modo indiscriminato la popolazione di Gaza. I morti sono più di ventimila. I video postati dagli stessi soldati israeliani ci mostrano scene indecenti: abbattimento di moschee, ospedali, scuole e case private; interi quartieri rasi al suolo;  prigionieri (tra essi anche alcuni bambini) denudati ed esposti come trofei. Come non bastasse, gli attacchi si estendono alla Cisgiordania, alla Siria e al  Libano. Il giorno di Natale, per esempio, è stata bombardata Betlemme.

Di fronte a queste enormità, cosa fa il sistema mediatico?  Minimizza, nasconde, ammicca. Fa capire che, in fondo, se la sono meritata. È gente inferiore. Avrebbe dovuto starsene tranquilla, chiusa all’interno del suo bel muro. Sono arabi e musulmani, che non possono essere offesi facendo a scuola un presepio che non offende nessuno, ma possono essere massacrati. Il razzismo, cacciato con squilli di tromba e fanfare dalla porta principale, ritorna dalla finestra. Colmo dei colmi, a distinguersi in questa opera di demonizzazione sono spesso le vecchie cariatidi del Sessantotto. Quelli che a venti anni volevano fare la rivoluzione ed ora, arrivati alla terza età, si fanno paladini di tutte le più oscene nefandezze dell’Occidente.

Giorgio Bianchi

 
Un augurio per l'anno nuovo PDF Stampa E-mail

29 Dicembre 2023

 Coloro che fossero tentati di cedere allo scoraggiamento debbono pensare che nulla di quanto viene compiuto in quest’ordine può mai andar perduto; che il disordine, l’errore e l’oscurità possono trionfare solo in apparenza e in modo affatto momentaneo; che tutti gli squilibri parziali e transitori debbono necessariamente concorrere alla costituzione del grande equilibrio totale e che nulla potrà mai prevalere in modo definitivo contro la potenza della verità: la loro divisa sia quella adottata in altri tempi da certe organizzazioni iniziatiche dell’Occidente: Vincit omnia Veritas.

René Guénon

 
Il fattore tempo PDF Stampa E-mail

27 Dicembre 2023

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 Da Rassegna di Arianna del 24-12-2023

C’è una grande guerra globale in atto che oppone l’impero occidentale a guida statunitense a quei paesi che ne contestano il dominio. A questa guerra, prima o poi, finiranno per ricondursi tutte le piccole guerre in atto nel mondo, quali che ne siano state le cause scatenanti ed è forte il rischio che finiscano per saldarsi in una sola guerra aperta. In questo momento, ci sono due fronti di guerra che sono con ogni evidenza parte di questo scontro: quello ucraino e quello palestinese. Entrambe ci indicano qual è il fattore decisivo su cui si decidono le sorti. L’impero ha fretta, perché teme che i suoi nemici diventino troppo forti e la sua capacità di deterrenza cali. Il resto del mondo ha pazienza e vuole logorare l’impero finché non crolla. La grande guerra globale è una guerra con il tempo. Benché sia una delle cose che capitano più di frequente, non bisognerebbe mai dimenticare la lezione di von Clausewitz: la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi. Dunque, non solo la guerra – ogni guerra – è già di per sé un atto politico, ma i suoi obiettivi, benché si cerchi di conseguirli attraverso lo strumento militare, sono e restano di natura politica. Dunque, una guerra che fallisce i suoi obiettivi politici è una guerra persa, anche se ha prevalso in ogni battaglia.

La guerra ucraina, ad esempio, è cominciata con obiettivi politici ovviamente diversi, per l’una e l’altra parte. Ad un certo punto, ha visto la Russia modificare i suoi obiettivi, più precisamente, l’ha vista modificare la sua strategia militare attraverso cui conseguirli. Tra questi obiettivi, le conquiste territoriali sono sempre state secondarie, mentre il focus principale è sempre stato la smilitarizzazione dell’Ucraina (e la sua “denazificazione”, per usare le parole di Mosca). Obiettivo che Mosca ha dovuto alla fine perseguire attraverso la via più radicale, ovvero la distruzione materiale delle forze armate ucraine. Obiettivo ormai quasi completamente conseguito e ottenuto applicando una tattica e una strategia basata sul logoramento massivo del nemico. Non una Blitzkrieg né una campagna distruttiva devastante, seguita da un’azione conclusiva delle truppe di terra. Entrambe queste strade, a parte ogni altra considerazione, non avrebbero in realtà inferto il colpo duraturo che era invece necessario infliggere. Quindi, per quanto questo procedere abbia un costo più elevato, è stata scelta una via basata sul fattore tempo. Quanto più a lungo dura la guerra, quanto più la forza nemica viene logorata, tanto maggiori sono i risultati. Mosca ha scommesso ancora una volta sulla propria capacità di sfruttare questo fattore meglio di chiunque altro. E ha vinto la scommessa.

A ben vedere, in Palestina sta accadendo qualcosa di molto simile. Anche se i rapporti di forza appaiono invertiti rispetto al fronte ucraino, la strategia messa in atto dal Fronte della Resistenza (in senso ampio, non solo quella palestinese) ricalca in qualche modo quella adottata dai russi in Ucraina. Le forze della Resistenza sanno che il nemico ha bisogno di concludere in fretta, per una serie di motivi che vanno dagli aspetti economici agli equilibri interni ed internazionali. Per questo, l’asse USA-Israele sta mettendo in campo uno sforzo considerevole, cercando di ottenere vittorie quantomeno tattiche che le consentano di accelerare la conclusione del conflitto o, quanto meno, di congelarlo temporaneamente per riprendere fiato. Ovviamente, il problema gigantesco con cui devono confrontarsi gli israelo-americani, ancor prima della Resistenza armata, è la mancanza di obiettivi politici reali e, quindi, di una strategia elaborata in funzione di questi. Dove per reali si intende realisticamente perseguibili, quindi politici in senso proprio, e non certo i sogni messianici con cui li stanno sostituendo. Per tacere del fatto che i due poli dell’asse hanno oltretutto interessi ed obiettivi non sovrapponibili, anche se per molti versi coincidenti.

Va tenuto presente che l’operazione della Resistenza è molto più vasta di quanto appaia. Non solo c’è un completo coordinamento tra le formazioni politico-militari della Resistenza palestinese, che hanno una Joint Operations Room (il centro di comando e coordinamento delle varie brigate) operativo su Gaza. Da tempo è presente in Libano un ulteriore centro di coordinamento in cui sono rappresentate – oltre alle formazioni palestinesi – anche alcune delle milizie irachene e siriane ed ovviamente Hezbollah. Non ci sono notizie certe sulla presenza anche di Ansarullah (Yemen). In tal modo, tutte le forze della Resistenza possono coordinare le proprie azioni a livello strategico, calibrando la pressione su Israele e sugli USA, ed alternandola tra i vari fronti aperti – Gaza, confine israelo-libanese, Mar Rosso…

L’intento è quello di tenere impegnate le forze israeliane in una guerra d’attrito, il cui livello d’intensità varia nel tempo – così da risultare tatticamente imprevedibile – e nello spazio. Può acuirsi a Shuja’iya come a Khan Younis, a Metula oppure ad Eilat, sulle alture del Golan o a Kiryat Shmona. Tutte le formazioni che fanno parte del Fronte della Resistenza sono in grado di sviluppare un attacco assai più intenso e massiccio contro il territorio israeliano, ma non è questo l’intento – poiché qualsiasi accelerazione produrrebbe una reazione altrettanto intensa e massiccia. L’obiettivo è invece risparmiare al massimo possibile le proprie forze e puntare sul logoramento di Tsahal su tempi medio lunghi.

La situazione per le forze israeliane, nonostante i bombardamenti genocidi sulla Striscia di Gaza facciano da cortina fumogena, è di crescente difficoltà. Le perdite, in uomini e mezzi, cominciano a diventare significative e, soprattutto, emerge sempre più la difficoltà da parte dell’IDF nel gestire tatticamente il confronto. Sul fronte libanese, sono costretti a tenere impegnate una parte significativa delle forze di terra e dell’aviazione. E, nonostante abbiano schierate ben 8 delle 12 batterie di Iron Dome (di cui due certamente già distrutte o danneggiate), la minaccia dei missili di Hezbollah è così significativa che gran parte degli insediamenti e delle città vicine al confine sono state evacuate, con conseguenti danni all’economia e crescenti tensioni interne. Eilat e gli insediamenti vicini vengono attaccati quotidianamente senza praticamente incontrare resistenza. Analogamente, il blocco dello stretto di Bab el-Mandeeb lascia senza difese le navi dirette in Israele e difficilmente l’operazione navale Prosperity Guardian riuscirà a risolvere il problema, se non a prezzo di mettere seriamente in pericolo le flotte NATO e rischiare un blocco totale anche sullo Stretto di Hormuz. Scenario che rappresenterebbe un disastro per le economie occidentali.

La situazione non è certo migliore nella Striscia di Gaza, dove le truppe israeliane devono confrontarsi con un nemico sfuggente, di cui non riescono a prendere le misure, e che mantiene intatta la capacità non solo di resistere ai tentativi di penetrazione, ma anche di sviluppare offensive tattiche. I periodici lanci di missili verso Ashkelon o Tel Aviv, le sanguinose imboscate contro le unità IDF, il continuo martellamento – a distanza ravvicinata – contro i corazzati israeliani, testimoniano come Hamas disponga ancora di una significativa potenza di fuoco e, soprattutto, di un inalterato coordinamento tattico. Le fonti informative israeliane testimoniano che il numero dei morti e dei feriti è tenuto coperto o viene comunicato solo parzialmente. Il ritiro della Brigata Golani, forse la migliore unità dell’IDF, per via delle perdite subite, così come il mancato conseguimento degli obiettivi tattici dati continuamente per raggiunti (la rete di tunnel sotterranei è chiaramente ancora perfettamente operativa, non è stato scoperto un solo centro di comando, un solo deposito di armi, una sola delle fabbriche che producono i missili…), sono le prove più evidenti di tale difficoltà. A più di due mesi dall’inizio dei combattimenti, non solo l’IDF non è ancora penetrato in tutte le aree urbane della Striscia, ma continua ad essere impegnato in scontri a fuoco anche laddove la penetrazione è avvenuta. Nessuno dei prigionieri è stato liberato manu militari. I due soli tentativi sono tragicamente falliti e l’unico caso di cui avrebbero potuto menar vanto è stato azzerato da una applicazione ottusa delle regole d’ingaggio. Da almeno un paio di settimane viene data per imminente la morte di Yahya Sinwar, che invece continua a sfuggire. Nonostante tutta la potenza di cui dispone (aviazione, carri armati e corazzati, artiglieria, intelligence elettronica…), Tsahal non riesce a prevalere. Persino la guerra della comunicazione vede chiaramente in vantaggio le forze della Resistenza, che documentano inequivocabilmente in video gli attacchi portati contro le forze israeliane, mentre queste inanellano figure talvolta imbarazzanti, maldestramente coperte da filmati propagandistici costruiti su veri e propri set e già smontati persino da mainstream americani come il Washington Post.

Esattamente come in Ucraina, quindi, anche in Palestina le forze che combattono contro l’imperialismo USA-NATO mettono in campo una strategia di logoramento delle forze avversarie. In entrambe i casi, puntano sul fattore tempo per mettere in difficoltà il nemico. Che, oltretutto, si trova oggi ad essere impegnato su due fronti, con le difficoltà dell’uno che si riverberano sull’altro, mentre i suoi avversari agiscono separatamente. A riprova che la geografia è ineludibile e che la politica non può prescinderne. Ed oggi la situazione globale è che i tradizionali strumenti del dominio imperiale anglo-americano, la potenza talassocratica e la proiezione a grande distanza hanno fatto il loro tempo e risultano inadeguati. L’impero è costretto a combattere guerre assai problematiche ed impegnative, su fronti diversi. Sia la potenza navale che quella derivante dalla più estesa rete di basi militari della storia rischiano di risolversi in un problema più che in un atout. Per la semplice ragione che i nemici non sono più così deboli da poter essere rapidamente schiacciati (ma anzi possono a loro volta colpire) e sanno scegliere le strategie e le tattiche più efficaci per combattere. L’impero ha perso la sua arma più potente: la capacità di deterrenza. Costretto ad usare la forza in tempi e modi che non gli sono congeniali, arretra. I suoi nemici, invece, lo sfidano, non arretrano più dinanzi alla minaccia. Ingaggiano il combattimento, ne impongono i tempi ed i modi. E per vincere, gli basta resistere un minuto in più.

Enrico Tomaselli

 
Il nuovo patto di stabilitą PDF Stampa E-mail

25 Dicembre 2023

 Da Comedonchisciotte del 23-12-2023 (N.d.d.)

Il Governo Meloni ha accettato di fare 20 miliardi di euro di tagli alla spesa pubblica. Ogni anno. Fino al 2027. Dal 2028 i tagli raggiungerebbero invece i 100 miliardi di euro l’anno visto che rientrerà in gioco il computo degli interessi sul debito (più di 80 miliardi di euro l’anno) che è invece temporaneamente accantonato per il triennio 2025-27. Quadriennio se calcoliamo il 2024 che è l’anno in cui tornerà il Patto di (in)stabilità e (de)crescita e quello delle elezioni europee. Il piano di rientro verrà elaborato dalla Commissione Europea e riguarderà un periodo di 4 anni. Piano di rientro che, su richiesta del Paese sanzionato, potrà essere dilazionato in 7 anni in cambio di… indovinate di cosa? Esatto! In cambio delle riforme (quelle lacrime e sangue che i vari Governi ci hanno imposto negli ultimi 30 anni al grido di “ce lo chiede l’Europa!”).

Il Governo ha accettato l’accordo raggiunto da Francia e Germania sul nuovo Patto «in uno spirito di compromesso», per usare le parole del Ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita risulta addirittura peggiorativo rispetto alla versione precedente. Non era facile. Hanno insomma vinto i falchi guidati dalla Germania. Quella che trucca i conti nascondendo dal bilancio federale centinaia di miliardi di euro. Nel nuovo patto restano ovviamente sia il tetto del 60% al rapporto debito/PIL, sia quello del 3% per il deficit/PIL. I Paesi con un rapporto debito/PIL superiore al 90% dovranno ridurre il debito dell’1% l’anno (dello 0,5% i Paesi con rapporto superiore al 60% ma inferiore al 90%). Per l’Italia, come dicevamo, si tratterebbe di oltre 100 miliardi di euro di taglio della spesa pubblica tenendo conto degli interessi sul debito (86 miliardi di euro, il 4,2% del PIL, nel 2024). Scomputando il costo degli interessi, il taglio è di “soli” 20 miliardi di euro l’anno. L’accordo prevede anche che i Paesi che abbiano un rapporto debito/PIL superiore al 60% e un rapporto deficit/PIL superiore al 3% riducano il deficit dello 0,5% l’anno fino a raggiungere un rapporto dell’1,5%.

La Commissione Europea ha già detto che la legge di bilancio 2024 di molti Paesi non rispetta i nuovi parametri e che questi Paesi saranno quindi sanzionati. L’unica concessione ottenuta (dalla Francia, ovviamente) è che i Paesi sottoposti al piano di rientro forzoso possano nel triennio 2025/27 scomputare gli interessi sul debito dal taglio della spesa pubblica. Non è chiaro al momento se ci sarà un occhio di riguardo per la spesa legata agli investimenti. Ovviamente solo per quelli a debito legati al PNRR. Che sono poi quelli di cui non abbiamo bisogno.

Insomma una riforma che avrebbe fatto la gioia d i qualsiasi governo tecnico. O a guida PD. Che sono poi la stessa cosa. Parafrasando il deputato leghista Alberto Bagnai «La differenza tra un governo di centrodestra e uno di centrosinistra non salta all’occhio. Perché non c’è. Un giorno capirete».

Gilberto Trombetta

 
Ipocrisia demoniaca PDF Stampa E-mail

24 Dicembre 2023

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 Da Comedonchisciotte del 18-12-2023 (N.d.d.)

Basta una ricerca distratta su Internet per ottenere risultati infiniti sull’incredibile amore che molti esseri umani provano per gli animali. Che siano cani, gatti, maiali o ippopotami, istrici o scimmie appese a un albero, c’è sempre qualcuno che li ama di un amore impossibile e ritiene di doverli difendere a prescindere dalla crudeltà vera o presunta dell’essere umano. Perfino se si tratta di serpenti o granchi marini. Ma da quando è iniziata la terribile campagna militare israeliana contro i palestinesi, gli stessi che sono sempre svelti a lamentarsi per le sofferenze di un cane bastonato o di un verme che striscia sono rimasti in silenzio. Eppure la carneficina è sotto i nostri e i loro occhi. L’uragano di bombe che l’aviazione e l’esercito israeliano hanno sganciato e sganciano su Gaza non scuote il cuore di animalisti e ambientalisti. Né la grande stampa occidentale fa eco al male che dilaga impunito sui palestinesi. È evidente che se i palestinesi fossero nati cani, gatti o maiali, comunque animali, avrebbero avuto maggior fortuna nell’essere difesi dall’Occidente che conta (o che crede di contare ancora). Ma nessuno li difende, nati come sono solo in una miserabile forma umana e occupando un posto che la stragrande maggioranza degli ebrei contemporanei ritiene così loro da poter realizzare uno stermino di massa.

A Gaza finora sono morte più di 4000 donne, giovani, vecchie, bambine. Un numero in aumento. Dove sono le femministe occidentali che svelte manifestano nelle nostre piazze quando nel nostro Occidente buono e democratico muore una donna per mano di qualche maschio bianco, eterosessuale e quindi patriarcale? Perché non le vediamo manifestare contro la fine disumana delle donne palestinesi fatte a pezzi dalle bombe sioniste? Devo essere rimaste tutte senza voce… Caitlin Johnstone non segue questa strada. In un suo articolo del 3 dicembre 2023, questa coraggiosa giornalista australiana afferma chiaramente che: “Se dovessi commettere un genocidio, mi assicurerei di uccidere il maggior numero possibile di donne e bambini per eliminare le future generazioni delle persone che sto cercando di spazzare via. A pensarci bene, credo che in pratica farei quello che Israele sta facendo a Gaza.” Femministe, dove siete finite?

Al tempo della prima guerra del Golfo, una giovane volontaria kuwaitiana di nome Nayirah Al-Sabah testimoniò al congresso americano che nel suo Paese appena invaso dall’Iraq, i soldati di Saddam Hussein toglievano i neonati dalle incubatrici e li lasciavano morire sul pavimento. Grande fu l’emozione per questa testimonianza, che gli Stati Uniti dovettero per forza intervenire contro un così crudele dittatore e il suo feroce esercito. Si scoprì poi, a cose fatte e quindi come sempre troppo tardi, che non era vero niente: Nayirah Al-Sabah era la figlia dell’ambasciatore kuwaitiano negli Stati Uniti e le sue parole, la sua intera testimonianza, erano il frutto di un’abile agenzia di pubbliche relazioni. Tutte menzogne. Ma a Gaza è successo davvero: i neonati prematuri sono morti dentro le incubatrici rimaste senza corrente perché gli ebrei non si sono fatti scrupoli di colpire deliberatamente con le loro bombe gli ospedali palestinesi. I loro corpicini sono andati in putrefazioni e sono stati divorati da cani affamati, almeno quelli sopravvissuti ai bombardamenti. E non solo gli ospedali sono stati colpiti ma anche moschee e chiese: i palestinesi non sono tutti musulmani, alcuni di loro sono cristiani. Qualcuno ha forse sentito il papa piangerli?

L’ignobile guerra della NATO contro la Serbia ha avuto come paravento la pulizia etnica che il presidente serbo Milosevic sembrava stesse attuando contro la popolazione albanese del Kosovo. Ma l’operazione Ferro di Cavallo, come era chiamata, era l’ennesima invenzione della propaganda occidentale. Ciò non salvò Belgrado e la Serbia da una pioggia di bombe e missili occidentali (quindi giusti e democratici) e non salvò Milosevic da un processo farsa di cui non vide mai la fine, morendo avvelenato nel carcere dell’Aia, il suo corpo cremato per nascondere le tracce. Dove sono adesso i difensori dei diritti umani che all’epoca si sgolavano chiedendo l’intervento della comunità internazionale? A Gaza si realizza sotto i nostri occhi una oscena pulizia etnica che non può essere criticata perché è fatta dagli ebrei contro i palestinesi. È evidente quindi che i palestinesi, tutti i palestinesi, non sono neanche semplicemente Untermensch ma Unterhund, valgono cioè meno di un cane. Perché se fossero almeno cani, l’Occidente li difenderebbe.

Benjamin Netanyahu ha parlato agli israeliani incitandoli a combattere: “Ricordatevi di Amalek e del male che ci ha fatto!”, li ha esortati dalla televisione israeliana. Netanyahu e tutti quelli che lo seguono (e ne tirano i fili) giustificano i loro piani e le loro azioni alla luce del Deuteronomio, del Talmud e di chissà quali altri libri nascosti, ignoti ai Gentili Untermensch. A questo punto, dove sono tutti gli intellettuali occidentali, i grandi giornalisti, i grandi scrittori e gli altrettanto grandi professori universitari, tutti quelli che hanno sempre sbeffeggiato i cristiani che citavano la Bibbia, dicendo che questo libro dovrebbe stare nel reparto Fantasy delle librerie? Dove sono ora questi campioni di boria laica ed accademica? Tacciono ora come hanno sempre taciuto durante i soprusi nei lockdown Covid, pavidi guerrieri da salotto, nascosti sotto il divano di casa loro, con un pitale in testa come elmetto.

L’Occidente è intriso di una ipocrisia che sconfina nel demoniaco. Ma la scacchiera internazionale è complicata anche se l’Occidente collettivo non vuole ancora, ottusamente, tenere conto delle altre potenze globali e regionali e riconoscere che le sue azioni sono costantemente in contraddizione con gli alti principi di cui dice di essere alfiere. È tragico dover riconoscere che Israele può avere successo nel suo piano malvagio contro i palestinesi ma, a Dio piacendo, potrebbe anche essere una dolorosa vittoria di Pirro. Preghiamo perché ciò accada.

Costantino Ceoldo

 
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