13 Dicembre 2022 L’interesse personale ci impone la separazione e la diversità dall’altro, nonché la somiglianza, se questa ci eleva. L’interesse personale è un prodotto dell’identificazione di noi stessi con il nostro io. Questo è una incastellatura che gli ambienti culturali di cui risentiamo hanno montato e montano con silente pazienza. Così pensiamo di essere realmente il nome che portiamo, il titolo che abbiamo, il ruolo che svolgiamo nei luoghi privati e sociali che frequentiamo. Ne scaturisce una dimensione effimera della realtà. Ovvero la sua presunta oggettività. Nonché l’idea che il sapere cognitivo, lo studio, l’erudizione, la scienza possano portarci a scoprire verità come, per esempio, “la più piccola parte della materia”. Effimera, in quanto lo spirito che tutto genera rimane sopito sotto il peso greve della concezione materialistica della vita e del cosmo. In quanto non ci avvediamo di essere noi stessi, con il nostro sterile pensiero, ad aver creato ciò che riteniamo di osservare neutralmente. Sterile, poiché abbiamo generato un criterio di conoscenza esaurito nella misurazione, soggiogato dalla disgraziata idea che il nostro pensiero abbia il diritto assoluto e definitivo di porsi sul trono della conoscenza. Non vediamo l’autoreferenzialità delle affermazioni che esprimiamo, loro argomentazioni a sostegno incluse. Non riconosciamo in esse un imperativo categorico dell’io, obbligato a ciò per alimentare la sua struttura e il suo dominio su noi. Un frutto a cui cediamo tutta la nostra energia al fine della sua sopravvivenza, nonché della sua difesa. Se necessario, fino al conflitto o all’adeguamento o alla frustrazione, qualora un’affermazione opposta dovesse avere la meglio sulla nostra. Un gioco delle tre carte dal quale usciamo sempre perdenti. Nel quale si trova la sede della sofferenza e delle malattie. Quantomeno, fino alla scoperta del proprio sé. Fino all’emancipazione dall’io e dal suo potere, momento nel quale potremo disporre dell’energia, prima regalata, a vantaggio della vita ora nostra e creativa. Non più ordinata e dipendente da cliché altrui, né dal pensiero debole e uniformato o dall’apparenza. Senza quell’emancipazione, non vediamo che la burrasca di malessere/benessere dipende dall’io. Se soddisfatto ci beiamo; se insoddisfatto, alienato, violentato, umiliato, ne soffriamo. Nonostante la pesca a strascico che la rete dell’attuale cultura raschia sui fondali delle nostre vite, qualcuno si trova nelle circostanze adatte per prendere coscienza che un altro ordine delle cose sia possibile. Che quello che ci viene inconsapevolmente imposto non è il solo, come ci ripetono e costringono a farci credere. Che ha un limite oltre il quale si inceppa, come cadesse oltre il profilo della sua piatta terra. Si tratta della presa di coscienza della artificiosa ed effimera natura dell’io. Un passo che, contemporaneamente, comporta il riconoscimento del proprio sé. Quello che Jung ha chiamato individuazione. Quel luogo in cui troviamo noi stessi. Quello che fanfare e gran pavesi culturali, scientisti, razionalisti, etici, irresponsabili fautori del mito della conoscenza cognitiva, quale sola e rispettabile, ci impediscono di vedere. Costi quel che costi. Ed ecco, allora, i giovani suicidi perché tenuti fuori da gruppi social. Persone che, per eccellenza, rappresentano l’ultimo campione di una concezione di sé, del mondo, della vita, che dire superficiale non basta, in quanto anche autodistruttiva, esiziale. Chi ha l’opportunità di vivere certe consapevolezze, di vedere più in profondità ciò che ci muove, riconosce senza sforzo le ragioni storiche del mondo che abbiamo e le legittima. Ma, contestualmente, si avvede della dimensione spirituale che in esse manca. E la auspica. Ha chiaro ciò che è effimero e impermanente e, viceversa, ciò che è imperituro e sostanziale. Ciò che ci distingue e ciò che rende identici. Riconosce cioè la struttura dell’io. Non se ne libera, in quanto la vita nella storia non lo permette, ma se ne emancipa. Non si fa più dominare e inconsapevolmente succhiare energie da ciò che sa e che deve, ma si muove secondo quanto sente. Per gli interessati a questi temi è necessario precisare che il culmine del discorso non indica, né comporta, buttare a mare tutto e votarsi a mistica santità. Tutt’altro. Significa adottare scelte e pensieri corrispondenti alla nostra natura e talento, i soli idonei alla nostra realizzazione e felicità. Ideali per rischiare di realizzare al meglio le progressioni che ci stanno a cuore. Significa anche adeguarsi, ma senza più alienazione, frustrazione, mortificazione e prevaricazione del brutto e del cattivo nella nostra esistenza. Nonché alzare al massimo il rischio di realizzare una cultura e, quindi, una società diversamente ordinata da quella creata dai pensieri egoici che ci avviluppano. Non si tratta, perciò, in nessun modo, di reprimere le passioni e l’implicita identificazione col fare e progettare, ma di elevare al massimo l’invulnerabilità e il mantenimento della capacità di riconoscimento e accettazione di posizioni differenti. Significa conoscenza empatica, educazione all’ascolto, riconoscimento di noi nell’altro, consapevolezza della creazione del mondo, dell’identicità degli uomini, della circolarità del tempo, della sua variabilità in funzione del sentimento e dello stato di benessere/malessere. Tutti aspetti oggi misconosciuti, quando non derisi. Significa tolleranza autentica, capacità di legittimazione, consacrazione del principio di reciprocità, assegnazione di pari dignità a quella che chiediamo all’altro per noi stessi. E, anche forza sufficiente per rifiutare l’ipocrisia e la menzogna come ordinari elementi del nostro dire nelle relazioni e nella vita. Significa accettazione di sé e, dunque, disponibilità del necessario per migliorarci, per non nasconderci più dietro quelle bugie, finzioni, simulazioni e dissimulazioni. Significa saper esprimere i nostri sentimenti e non negare le nostre emozioni. Significa sapere cosa è adatto a noi e cosa è opportuno tenere alla larga; e sarà una discriminazione energetica. Perché di energia cosmica è costituito il nostro sé. Significa astrazione, perché le forme fanno la storia ma la vita è una soltanto. Lorenzo Merlo
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12 Dicembre 2022 
Da Comedonchisciotte del 3-12-2022 (N.d.d.) Il 13 novembre, il G20 – i rappresentanti delle 20 nazioni più influenti, tra cui gli Stati Uniti, il Regno Unito, l’Unione Europea (anche se non è una nazione), la Germania, l’Italia, la Francia, il Giappone, la Corea del Sud, la Cina e diversi Paesi in via di sviluppo, tra cui l’India, l’Indonesia e il Brasile – ha approvato una dichiarazione finale. Il primo, importante punto è un “appello per una trasformazione sempre più rapida verso un’agricoltura sostenibile e resiliente e verso sistemi e catene di approvvigionamento alimentare.” Inoltre, occorre “lavorare insieme per produrre e distribuire cibo in modo sostenibile, garantire che i sistemi alimentari contribuiscano meglio all’adattamento e alla mitigazione dei cambiamenti climatici, arrestare e invertire la perdita di biodiversità, diversificare le fonti alimentari...” Hanno poi chiesto “un commercio agricolo inclusivo, prevedibile e non discriminatorio, basato sulle regole dell’OMC.” Inoltre, “ci impegniamo a sostenere l’adozione di pratiche e tecnologie innovative, compresa la modernizzazione digitale nell’agricoltura e nei sistemi alimentari, per migliorare la produttività e la sostenibilità in armonia con la natura…” Poi arriva la dichiarazione rivelatrice: “Ribadiamo il nostro impegno a raggiungere l’azzeramento globale delle emissioni di gas serra/neutralità del carbonio entro o intorno alla metà del secolo.” “Agricoltura sostenibile” con “emissioni nette di gas serra pari a zero” è un tipico linguaggio orwelliano. Per un estraneo alla linguistica delle Nazioni Unite, le parole suonano fin troppo bene. In realtà, ciò che viene promosso è una radicale distruzione dell’agricoltura a livello globale nel nome di un’”agricoltura sostenibile.” A pochi giorni di distanza dalla conclusione del G20 di Bali, si è tenuto in Egitto l’incontro annuale del Cop27, il vertice sul clima dell’Agenda verde delle Nazioni Unite. In quella sede, i rappresentanti della maggior parte dei Paesi dell’ONU, insieme a Greenpeace e centinaia di altre ONG verdi, hanno redatto un secondo appello. Il Cop27 ha lanciato un’iniziativa denominata FAST [Food and Agriculture for Sustainable Transformation], la nuova agenda delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura per una trasformazione sostenibile. FAST, nel senso di “astenersi dal cibo…” Secondo Forbes, FAST promuoverà un “passaggio a diete sane, sostenibili e resistenti al clima e contribuirà a ridurre i costi della salute e del cambiamento climatico facendo risparmiare fino a 1.300 miliardi di dollari, sostenendo la sicurezza alimentare di fronte al cambiamento climatico.” Stiamo parlando di cifre importanti. Una riduzione di 1.300 miliardi di dollari dei costi legati al cambiamento climatico con la transizione verso “diete sane, sostenibili e resistenti al clima.” Cosa c’è davvero dietro tutte queste parole? Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, che ha rilasciato una dichiarazione alla Reuters durante il Cop27, entro un anno la FAO lancerà un progetto “gold standard” per la riduzione dei cosiddetti gas serra provenienti dall’agricoltura. L’impulso per questa guerra all’agricoltura proviene, non a caso, dai grandi capitali, dalla FAIRR Initiative, una coalizione di gestori di investimenti internazionali con sede nel Regno Unito che si concentra sui “rischi e le opportunità materiali ESG [Environmental Social and Governance] legati all’allevamento intensivo di bestiame.” Tra i suoi membri figurano i più influenti attori della finanza globale, tra cui BlackRock, JP Morgan Asset Management, la tedesca Allianz AG, Swiss Re, HSBC Bank, Fidelity Investments, Edmond de Rothschild Asset Management, Credit Suisse, Rockefeller Asset Management, UBS Bank e numerose altre banche e fondi pensione che gestiscono un patrimonio totale di 25.000 miliardi di dollari. Ora hanno dichiarato guerra all’agricoltura, proprio come avevano fatto con l’energia. Il vicedirettore della FAO per le politiche sul cambiamento climatico, Zitouni Ould-Dada, ha dichiarato durante il Cop27: “Non c’è mai stata tanta attenzione per il cibo e l’agricoltura prima d’ora. Questo vertice COP è sicuramente quello giusto.“ La FAIRR sostiene, senza alcuna prova, che “la produzione di cibo è responsabile di circa un terzo delle emissioni globali di gas serra ed è la principale minaccia per l’86% delle specie mondiali a rischio di estinzione, mentre gli allevamenti di bestiame sono responsabili della perdita di tre quarti della foresta amazzonica.” La FAO intende proporre una drastica riduzione della produzione zootecnica mondiale, in particolare dei bovini, che, secondo la FAIRR, sarebbero responsabili di “quasi un terzo delle emissioni globali di metano legate all’attività umana, derivanti dalle emissioni gassose dei bovini, dal letame e dalle coltivazioni di prodotti da mangimi.” Per loro, il modo migliore per eliminare i rutti e le deiezioni delle mucche è abbattere i bovini. Il fatto che la FAO stia per rilasciare una tabella di marcia per ridurre drasticamente i cosiddetti gas serra provenienti dall’agricoltura globale, con la falsa pretesa di promuovere un’”agricoltura sostenibile,” guidata dai più grandi gestori di patrimoni del mondo, tra cui BlackRock, JP Morgan, AXA e altri, la dice lunga su quella che è la vera agenda. Si tratta di alcune delle istituzioni finanziarie più corrotte del pianeta. Non investono mai un centesimo dove non siano garantiti enormi profitti. La guerra all’agricoltura è il loro prossimo obiettivo. Il termine “sostenibile “era stato creato dal maltusiano Club di Roma di David Rockefeller. Nel suo rapporto del 1974, Mankind at the Turning Point, il Club di Roma sosteneva che: Le nazioni non possono essere interdipendenti senza che ciascuna di esse rinunci ad una parte della propria indipendenza o almeno ne riconosca i limiti. È giunto il momento di elaborare un piano generale per una crescita organica e sostenibile e per uno sviluppo mondiale basato sull’allocazione globale di tutte le risorse limitate e su un nuovo sistema economico globale. Questa era stata la prima formulazione dell’Agenda 21 delle Nazioni Unite, dell’Agenda 2030 e del Grande Reset di Davos del 2020. Nel 2015 i Paesi membri dell’ONU avevano adottato i cosiddetti Obiettivi di Sviluppo Sostenibile o SDG: 17 obiettivi per trasformare il nostro mondo. L’obiettivo N° 2 era “Porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare e una migliore nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile.” Ma, se leggiamo nel dettaglio le proposte del Cop27, del G20 e del WEF di Davos di Klaus Schwab scopriamo qual è il vero significato di queste belle parole. Ora siamo inondati di previsioni, non verificate, provenienti da think tank finanziati da governi e privati, secondo cui i nostri sistemi agricoli sarebbero una delle principali cause del riscaldamento globale. Proprio così. Stiamo parlando non solo di CO2, ma anche di metano e azoto. Tuttavia, l’intera argomentazione sui gas serra globali, secondo cui il nostro pianeta andrà incontro ad un disastro irreversibile se non ridurremo radicalmente le nostre emissioni entro il 2030, è un’assurdità non verificabile, frutto di modelli informatici assai poco trasparenti. Sulla base di questi modelli, l’IPCC [Intergovernmental Panel on Climate Change] delle Nazioni Unite insiste sul fatto che, se non riusciremo a contenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5°C rispetto ai valori del 1850, nel 2050 il mondo finirà. Nel 2019, l’ONU e il WEF di Davos avevano collaborato alla promozione degli SDG dell’Agenda 2030 dell’ONU. Sul sito web del WEF si ammette apertamente che il loro obiettivo è quello di sbarazzarsi delle fonti proteiche della carne, promuovendo la carne coltivata in laboratorio e le proteine alternative, da formiche, grilli o vermi, per sostituire il pollo, il manzo o l’agnello. Al Cop27 si è discusso di “diete che possano rimanere entro i limiti del pianeta e che consentano la riduzione del consumo di carne, lo sviluppo di alternative alimentari e la promozione di un maggior numero di piante, colture e cereali autoctoni (riducendo così l’attuale dipendenza da grano, mais, riso e patate).” Il WEF promuove il passaggio dalle diete proteiche a base di carne a quelle vegane, sostenendo che sarebbero più “sostenibili.” Promuove anche alternative con carne coltivata in laboratorio o a base vegetale, come l‘Impossible Burger, finanziato da Bill Gates, che, secondo i test della FDA, è probabilmente cancerogeno in quanto prodotto con soia OGM e altri cereali saturi di glifosato. Lisa Lyons, l’amministratrice delegata di Air Protein, un’altra azienda produttrice di carne finta, è una consulente speciale del WEF. Il WEF promuove anche le proteine degli insetti come alternative alla carne. Si noti anche che Al Gore è un fiduciario del WEF. La guerra all’allevamento degli animali da carne sta diventando una cosa seria. Il governo dei Paesi Bassi, il cui primo ministro Mark Rutte, ex Unilever, è un collaboratore del WEF, ha creato un ministero speciale per l’ambiente e l’azoto, con a capo Christianne van der Wal. Utilizzando le linee guida Natura 2000 dell’Unione Europea per la salvaguardia dell’ambiente naturale, linee guida superate, mai prese in considerazione, progettate presumibilmente per “proteggere muschio e trifoglio” e basate su test fraudolenti, il governo olandese ha appena annunciato la chiusura forzata di 2.500 allevamenti di bestiame in tutto il Paese. L’obiettivo è costringere il 30% degli allevamenti a chiudere o a subire un esproprio. In Germania, l’Associazione tedesca dell’industria della carne (VDF) sostiene che, nei prossimi quattro-sei mesi, la Germania dovrà affrontare una carenza di carne e che quindi i prezzi saliranno alle stelle. Hubert Kelliger, membro del consiglio di amministrazione della VDF, ha dichiarato: “Tra quattro, cinque, sei mesi avremo dei vuoti sugli scaffali.” Si prevede che la carenza più grave riguarderà la carne suina. I problemi nella produzione di carne sono dovuti all’insistenza di Berlino nel voler ridurre il numero di capi di bestiame del 50% per ridurre le emissioni responsabili del riscaldamento globale. In Canada, il governo Trudeau, un altro prodotto del WEF di Davos, secondo il Financial Post del 27 luglio, prevede di ridurre del 30% entro il 2030 le emissioni causate dalla produzione di fertilizzanti, come parte di un piano per arrivare a zero emissioni nei prossimi tre decenni. Ma i coltivatori sostengono che, per raggiungere questo obiettivo, potrebbero dover ridurre significativamente la produzione di cereali. Quando, nell’aprile 2021, il presidente autocratico dello Sri Lanka aveva vietato tutte le importazioni di fertilizzanti azotati, in un brutale tentativo di tornare ad un passato di agricoltura “sostenibile,” in sette mesi i raccolti erano crollati e la carestia, la rovina degli agricoltori e le proteste di massa lo avevano costretto a fuggire all’estero. Aveva voluto che l’intero Paese passasse immediatamente all’agricoltura biologica, ma non aveva fornito agli agricoltori alcuna formazione in merito. Se a tutto questo si aggiunge la catastrofica decisione politica dell’UE di vietare il gas naturale russo utilizzato per la produzione di fertilizzanti azotati, con la conseguente chiusura degli impianti per la produzione di fertilizzanti in tutta l’UE, che, a sua volta, causerà una riduzione globale della resa dei raccolti, e la falsa ondata di influenza aviaria che sta costringendo gli allevatori del Nord America e dell’UE ad abbattere decine di milioni di polli e tacchini, per citare solo qualche altro caso, diventa chiaro che il nostro mondo si troverà a dover affrontare una crisi alimentare senza precedenti. Tutto per il cambiamento climatico? F. William Engdahl (tradotto da Markus)
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Lecito, obbligatorio, proibito |
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11 Dicembre 2022 
Da Rassegna di Arianna del 4-12-2022 (N.d.d.) Secondo i giuristi arabi, le azioni umane si classificano in cinque categorie, che essi elencano in questo modo: obbligatorio, lodevole, lecito, riprovevole, proibito. All’obbligatorio si oppone il proibito, a ciò che merita lode ciò che è da riprovare. Ma la categoria più importante è quella che sta al centro e che costituisce per così dire l’asse della bilancia che pesa le azioni umane e ne misura la responsabilità (responsabilità si dice nel linguaggio giuridico arabo «peso»). Se lodevole è ciò il cui compimento è premiato e la cui omissione non è proibita, e riprovevole è ciò la cui omissione è premiata e il cui compimento non è proibito, il lecito è ciò su cui il diritto non può che tacere e non è pertanto né obbligatorio né proibito, né lodevole né riprovevole. Esso corrisponde allo stato paradisiaco, nel quale le azioni umane non producono alcuna responsabilità, non sono in alcun modo «pesate» dal diritto. Ma – e questo è il punto decisivo – secondo i giuristi arabi è bene che questa zona di cui il diritto non può in alcun modo occuparsi sia la più ampia possibile, perché la giustizia di una città si misura proprio dallo spazio che lascia libero dalle norme e dalle sanzioni, dai premi e dalle censure. Nella società in cui viviamo sta avvenendo esattamente il contrario. La zona del lecito si restringe ogni giorno di più e una ipertrofia normativa senza precedenti tende a non lasciare alcun ambito della vita umana fuori dall’obbligo e dalla proibizione. Gesti e abitudini che erano sempre stati considerati indifferenti al diritto vengono ora minuziosamente normati e puntualmente sanzionati, al punto che non vi è quasi più una sfera dei comportamenti umani che si possa considerare semplicemente lecita. Prima non meglio identificate ragioni di sicurezza e poi, in misura crescente, ragioni di salute hanno reso obbligatoria un’autorizzazione per compiere gli atti più abituali e innocenti, come passeggiare per strada, entrare in un locale pubblico o recarsi nel luogo di lavoro. Una società che restringe a tal punto l’ambito paradisiaco dei comportamenti non pesati dal diritto è non soltanto, come ritenevano i giuristi arabi, una società ingiusta, ma è propriamente una società invivibile, in cui ogni azione deve essere burocraticamente autorizzata e giuridicamente sanzionata e l’agio e la libertà dei costumi, la dolcezza delle relazioni e delle forme di vita si riducono fino a scomparire. La quantità delle leggi, dei decreti e dei regolamenti è inoltre tale, che non soltanto diventa necessario ricorrere a esperti per sapere se una certa azione è lecita o proibita, ma perfino i funzionari incaricati di applicare le norme si confondono e contraddicono. In una simile società, l’arte della vita non può che consistere nel ridurre al minimo la parte dell’obbligatorio e del proibito e nell’allargare per converso al massimo la zona del lecito, la sola in cui se non una felicità, almeno una letizia diventa possibile. Ma questo è proprio quanto gli sciagurati che ci governano si ingegnano in ogni modo di impedire e di rendere difficile, moltiplicando le norme e i regolamenti, i controlli e le verifiche. Finché la tetra macchina che hanno costruito rovinerà su se stessa, inceppata dalle stesse regole e dagli stessi dispositivi che dovevano permetterne il funzionamento. Giorgio Agamben
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10 Dicembre 2022 Da Rassegna di Arianna dell’8-12-2022 (N.d.d.) Ma qual è alla fine il primo problema del nostro paese per riconoscersi e farsi valere come popolo, come nazione, come società, come Stato? Non riusciamo ad essere una comunità e abbiamo mortificato, a ogni livello e in ogni campo, il senso della comunità. Alziamo gli occhi dalla quotidianità e proviamo a scendere più in profondità dei temi politici e sociali del giorno. Ci troviamo davanti a questo tema enorme, basilare, che non riguarda solo la sfera della politica e del vivere civile, perché tocca pure la vita privata, la famiglia, il paese o il quartiere, il mondo del lavoro. E investe anche l’Europa. Non riusciamo ad essere e a vivere in una comunità. Riusciamo a pensarci e a comportarci solo da individui, separati da ogni contesto civile e da ogni legame sociale. Individui nella solitudine globale. La malattia mortale delle moderne società occidentali è proprio in quella riduzione individualistica della vita e nelle sue conseguenze in tutti i campi: la solitudine e anzi l’isolamento, come tratto primario della nostra esistenza; l’egoismo e l’egocentrismo nel rapporto col mondo; la soggettività come criterio di giudizio e orizzonte di vita; il narcisismo come amore malato di sé e impossibilità di amare gli altri. L’unica, ossessiva raccomandazione che viene ripetuta nei rapporti sociali, nei legami di coppia, nella psicanalisi, è star bene con se stessi. È il paradigma dell’individualismo assoluto, ciò che conta è solo quello, il resto può cessare, i legami si possono revocare se viene messo a rischio questo imperativo categorico. Sii te stesso è il mantra della nostra epoca, nota il filosofo e sociologo francese Gilles Lipovetsky nel ponderoso saggio La fiera dell’autenticità (uscito ora da Marsilio). Essere se stessi è un valore di culto fino a diventare un feticcio. Ma dietro questa nuova idolatria c’è ancora l’individualismo, e la sua versione riflessa e vanesia, il narcisismo. Non ci può essere amore né legami duraturi in una società in cui il narcisismo si è fatto patologico e di massa: si ama troppo se stessi per prendersi cura dell’altro, per accettare il prossimo con i suoi limiti e le sue differenze; e per sopportarsi nel corso del tempo. Il primato di “star bene con se stessi” supera ogni fedeltà, tutto si fa fluido e reversibile; l’unica cosa che resta e che vale è l’Io e l’unica preoccupazione è il suo benessere. Con queste premesse non è possibile alcun orizzonte comunitario, alcuna connessione sociale, alcuna appartenenza politica, alcun legame di gruppo e di coppia. L’idea stessa di famiglia cede al primato assoluto dell’individuo. Senza comunità non è possibile alcuna società ma solo un frigido e mercantile contratto sociale, fondato sulla momentanea e reciproca utilità. Non è possibile riconoscere una comune appartenenza ma solo una comune utenza o una transitoria convergenza verso gli stessi consumi, guidati dal trend e dalle mode. Nessun “noi” è pensabile, perché siamo mutanti in base ai nostri desideri individuali, e dunque cambiamo partner e gestore, compagno d’avventura e d’esperienza. Un tempo i progressisti opponevano alla comunità intesa come un insieme chiuso, la società intesa come un insieme aperto. Ma da qualche tempo viviamo in una società coperta, sempre più sorvegliata e controllata; abbiamo limitazioni e controlli impensabili pure in una vita comunitaria, senza peraltro avere i vantaggi e le motivazioni forti di tipo comunitario. Alla fine del millennio scorso, scrissi un agile saggio su Comunitari e liberal, che pubblicò Laterza, dedicato alla prossima alternativa per il nuovo millennio. Quell’alternativa è oggi urgente, anche se non c’è una compiuta rappresentazione politica dei due poli antagonisti. Di fatto avvertiamo sempre più lo scivolamento generale verso una società liberal e cosmopolita, liberista e libertaria nella sfera privata, con punte radical ma con ricadute repressive e liberticide, e con censure sempre più asfissianti. Le ideologie collettiviste del passato, oscillanti tra socialismo democratico e comunismo, optano ormai per l’individuo global e la politica delle soggettività; disegnano una sinistra che sogna un mondo di nomadi sradicati e fluidi, senza identità e senza comunità, in transito globale. Dall’altra parte l’insorgere dei populismi, dei sovranismi e dei movimenti conservatori, nazionali e sociali, sono risposte spesso grezze, inconsapevoli, a un bisogno comunitario sempre più diffuso e reale. Non viene adeguatamente rappresentato e reso visibile il bisogno naturale e culturale, biologico e spirituale di comunità. O viene usato il linguaggio di ieri per indicare un bisogno di oggi e una necessità per domani; si evoca così l’appartenenza religiosa, l’amor patrio e la difesa della famiglia per indicare quel che sentiamo mancare: un forte e sentito legame comunitario, a vari livelli, in cui ritrovare se stessi oltre la nostra singola individualità, i nostri desideri soggettivi, la nostra sfera privata e la nostra pulsione egocentrica e narcisistica. Comunità naturali, affettive ed elettive; comunità di provenienza, di movimento politico e di destino, comunità professionali e religiose, culturali e tradizionali. Se un progetto di vita ci aspetta al largo, è la comunità o la sua cancellazione. Si vive male e si muore peggio da soli; abbiamo bisogno di proiettarci in una comunità per dare un senso, un orizzonte e un destino alla nostra presenza nel mondo e nel tempo, oltre la nostra vita individuale. Non c’è altra possibilità di rigenerare l’Italia e rifondare lo spirito di comune appartenenza. Sarebbe la vera rivoluzione, la vera trasgressione, il vero punto di svolta e il vero cambio di paradigma: pensare e vivere la comunità. In famiglia, in patria, in amore e in amicizia, nella nostra città e nella nostra civiltà. Marcello Veneziani
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9 Dicembre 2022 Da Appelloalpopolo del 7-12-2022 (N.d.d.) “Un’economia di mercato è uno strumento – efficace e prezioso – per organizzare l’attività produttiva. Una società di mercato è un modo di vivere in cui i valori di mercato penetrano in ogni aspetto dell’attività umana” (Michael Sandel). Comprimere l’azione statale lasciando che il mercato avanzi fa sì che tutto si mercifichi, perché ogni diritto naturale che lo Stato riconosceva all’essere umano per il solo fatto di essere tale diventa ora una questione di affari. Non esiste più qualcosa che ci spetta solamente perché esistiamo, ma tutto ci viene concesso (e non riconosciuto) mediante un vincolo contrattuale. Tutto allora diventa competizione, concorrenza, ricerca del risultato ad ogni costo: l’istruzione, il lavoro, la salute, la cultura, ma anche le relazioni sono condizionati profondamente. Tornare ad essere persone, anziché meri operatori di uno spazio di libero mercato è quindi essenziale. Gerarda Monaco
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