4 Ottobre 2024 Non è come l’aria, leggera e imprendibile, presenza e assenza colui che mostra sensibilità insolita, che pone cure e attenzioni dove non ci eravamo mai posati, se non magari, per ragioni diverse, financo opposte? Non è come l’aria colui che non sta in un’agenda, in un orario, in una promessa? Non è aerea certa sconsiderata libera creatività? Non lo è l’impossibilità di reggere il fardello della vita rinchiusa nelle norme?Non è come la terra, ferma, pesante, solida, rassicurante colui a cui ci riferiamo per trovare o dare consistenza al nostro incedere? E non è come la terra colui che osserviamo immobile nel suo vivere, nervosamente allergico a ciò che già non c’è, intollerante nei confronti di chi a lui non conviene? Non è terrea certa continuità, certa allergia al mutamento? Non lo è l’inettitudine a comprendere il mondo estraneo alle categorie e classificazioni in cui si riconosce?Non è come l’acqua, penetrante, apparentemente inconsistente, profondamente ostinata e spietata, volatile da aerea a materica colui che sembrava qui ed invece era là? Che, debole, facilmente si fa mettere dove si preferisce, e imprevedibilmente sta dove non avremmo creduto? Sempre pronto ad annunciare ciò che non avevamo sospettato? Non è liquido il suo peregrinare per tutti i luoghi? Non lo è il suo mutare nel viscido e nel falso, quando spirito e forza d’animo non lo sorreggono? Non è come il fuoco, devastante e inavvicinabile colui che sembra procedere come un panzer su un praticello, qualunque siano gli ostacoli che si frappongono al suo avanzare? Colui che senza intenzioni specifiche tiene distante o, incomprensibilmente, si lascia avvicinare? Non è focosa l’esuberanza, eruzione delle proprie convinzioni? Non lo è la sua costrizione a rogo compiuto?on è come un rinchiuso in se stesso colui che deride ciò che, a suo dire, non è scienza? Per esempio l’astrologia, l’alchimia, l’ermetismo, lo zen, la conoscenza estetica e perciò quella delle tradizioni sapienziali elaborate dagli uomini nel corso della storia, alle quali bisogna aggiungere quelle preistoriche? O erano stupidi perché non avevano studiato? Crederli tali, non è come misconoscere le culture altrui ed eleggere la nostra? Come affetti dall’ identificazione con il procedere tecnologico, grave patologia endemica della cultura materialista?
Così avanzando non è perciò considerarsi indipendenti dal mondo, perfino superiori e anche detentori? Non è credere di essere veramente l’io con cui ci descriviamo e descriviamo gli altri? Ovvero non è come essere impediti dal riconoscere il profondo significato della caducità del proprio pensare e fare? Non avanzare a petto in fuori sulla sottile domopaktica superficie che avvolge il cosmo, credendo che nulla esista oltre ad essa? Non è tragico, esiziale e mortifero ciò che ne deriva, verrebbe da domandarsi e da credere. Ma che altro fare, dove altro andare con questo uomo, con questa cultura se non sotto la gogna in cui ci troviamo? Osservare lo stato delle società odierne, non ci basta per porre freno al sistema che ci ha condotti nello stato malato in cui versiamo. La politica procede salariata da coloro che desiderano e realizzano lo stato delle cose. La democrazia gode ancora dell’incredibile presenza sulle bocche dei fautori di guerre, censure, restrizioni indebite, abusi di potere, minacce, controllo, ricatti, media avvelinati. L’uomo, che sempre con qualcosa si identifica per sentire esistere se stesso, ha ora modelli che nulla hanno a che vedere con ciò che lo salverebbe dal male suo e da questo provocato ad altri. Se il potere più forte dell’educazione sta nell’esempio, ciò a cui assiste, ciò in cui è immerso, indipendentemente dai discorsi intonacati di giustizia, uguaglianza, solidarietà, sviluppo, ambiente, non potrà che formare uomini-stampino, il cui valore consisterà nel replicare la cultura del domopak.
Populisti sono detti coloro che, senza doti culturali, ma con grave malessere, reagiscono alla rotta della politica, sfiduciano in un crescendo wagneriano le élite, disertano le urne, cioè il fu primo diritto democratico, denunciano i denari spesi per la guerra e sottratti ai servizi sociali, condannano la sequela di privatizzazioni, non si sentono più italiani, vorrebbero scendere, andarsene via perché nonostante la quantità che sono, la loro voce non è considerata. Vorrebbero aprire gli occhi ai divanisti del covid, ma per la paga si sentono dire che le morti crescenti non esistono e nulla hanno a che fare con l’intruglio imposto. Se politicamente bisogna parlare di malato terminale, privatamente, come nei frattali, la medesima metastasi si mostra identica. Violenza, insofferenza, disoccupazione, omicidi, superficialità, stragi non sono eccezioni ma costanti e crescenti. Come costante è l’indifferenza con la quale, assuefatti, sempre meno si reagisce, sempre meno ci si aggrega. E quando invece lo si fa o si prova a farlo, il rischio di creare un atollo, un ashram in cui darsi del bravo l’un l’altro, è piuttosto alto. La disgregazione pare compiuta se non solo affligge il domopaktiano e il divanista, ma anche coloro che di questo stato delle cose vorrebbero farne un falò. Non c’è un nuovo Orwell per far passare la guerra come un’industria, il consumo come buona morale, il popolo come un problema.
Visto il precipitare umanistico-politico, non solo pare illusorio poter porre qualche freno, ma, simbolicamente interpretato, sembra il segno di un destino al quale non possiamo sottrarci, nel quale dobbiamo transitare, forse, e questa è la speranza, per arrivare alla fine e perciò a una rinascita che ci possa fare recuperare ed eleggere il sogno della bellezza, che possa estinguere l’incubo in cui versiamo, in cui la falsa conoscenza storica tecno-scientista ha obnubilato quella simbolica delle allegorie universali. Lorenzo Merlo
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7 ottobre come 11 settembre |
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1 Ottobre 2024 Da Rassegna di Arianna del 29-9-2024 (N.d.d.) Alla luce dell'evidente straordinaria efficienza dell'intelligence israeliana, credo sia matura una considerazione su quanto è avvenuto il 7 ottobre 2023 e su ciò che ne è conseguito. Le stranezze intorno all'iniziale successo di Hamas sono saltate agli occhi immediatamente: nessun sentore del possibile attacco (oggi sappiamo che c'erano stati avvisi e che sono stati trascurati), nessuna rilevazione iniziale dell'attacco stesso, ed un incredibile ritardo ad allerta avvenuta nell'intervento delle forze armate, che restano immobili per ore. Per evitare semplificazioni "complottiste" era giusto sospendere il giudizio e cercar di capire meglio. Magari negli ultimi anni il mitico Mossad aveva subito un tracollo inaspettato e Hamas aveva approfittato di questo momento di debolezza. Solo che questa interpretazione è del tutto incompatibile con un Mossad che pianifica meticolosamente un attacco a Hezbollah, intervenendo nella catena di distribuzione di cercapersone e walkie-talkie, e attende almeno tre anni (l'esportazione in Libano inizia nel 2022) il momento giusto per sferrare l'attacco; e ciò è seguito immediatamente da bombardamenti in profondità con bombe antibunker, calibrate in modo da raggiungere esattamente le posizioni delle sedi di Hezbollah (Nasrallah è stato ucciso lanciando un attacco simultaneo con 80 bombe bunker-busting MK-84s da 2000 libbre (una tonnellata l'una). Dunque, no, il Mossad non era affatto collassato nell'inettitudine e nella neghittosità. L'interpretazione che rimane è, oramai, cogente quanto possono esserlo le interpretazioni della storia corrente: Israele (almeno una parte dello Stato Maggiore dell'esercito e del Mossad, certamente incluso il capo del governo) ha predisposto il terreno affinché un attacco di Hamas riuscisse a fare danni abbastanza gravi da produrre quella legittimazione morale di cui avevano bisogno per reagire in maniera terminale. In sostanza una parte della dirigenza israeliana ha sacrificato intenzionalmente una parte dei propri coloni nel nome di un'agenda politica ben definita: portare a compimento un antico progetto di pulizia etnica a Gaza e in Cisgiordania, e consolidare territorialmente la propria posizione rispetto ai paesi limitrofi, a partire dal Libano. La ridicola scusa che per far fuori questo o quel membro di Hamas era malauguratamente inevitabile radere al suolo ogni singolo edificio civile e istituzionale di Gaza poteva essere creduto solo dall'usuale stampa a gettone, la stessa che ha rimestato per mesi la propaganda degli uffici stampa israeliani (ricordate la narrazione degli stupri di massa del 7 ottobre? ricordate la storia della decapitazione dei neonati? che siano menzogne oggi è riconosciuto, ma grazie a una stampa di gente che tiene famiglia, sono menzogne che hanno fatto benissimo il loro sporco lavoro). Il meccanismo è il solito (direi che oramai è la forma prevalente di legittimazione politica internazionale): si creano, attraverso provocazioni mirate e trascuratezze intenzionali, le condizioni per un evento deflagrante che esige una risposta emergenziale; una volta avviata la risposta emergenziale, tutte le "linee rosse" possono essere stracciate, tutte i vincoli del "diritto internazionale" prendono fuoco. Così, Israele, un paese spaccato, in crisi profonda, dove per anni non si riusciva nemmeno a comporre un governo, con manifestazioni continue nelle strade, viene improvvisamente messo in riga sul fronte interno e avviato alla loro versione della "Endlösung", nei confronti della questione palestinese. La dinamica è la stessa che caratterizza gli USA (proprio la stessa, in continuità anche materiale con gli USA): una civiltà in crisi interna, ma militarmente e tecnologicamente ancora forte cerca di superare la propria crisi scaricandola all'esterno. Quanto maggiore la propria fragilità interna, tanto più si cerca di costruire un esoscheletro indurendo la propria corazza nello scontro col nemico esterno. Questa è la ragione per cui questi sono tempi particolarmente pericolosi: la parte del mondo in maggiore crisi di identità è anche quella con la maggiore potenza di fuoco, e cerca, e cercherà, di ricostruirsi un'identità facendone uso. Andrea Zhok
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L'alternativa dei beni comuni |
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30 Settembre 2024 Da Rassegna di Arianna del 27-9-2024 (N.d.d.) Per individuare i beni comuni ai fine del bene comune occorre definire il significato di bene in termini economici e civili. Ci piace il ragionamento proposto da Maurizio Pallante. Gli oggetti e i servizi scambiati in denaro sono merci. La parola che definisce un oggetto o un servizio da cui le persone pensano di ricavare un’utilità è bene. Di questo intendiamo trattare. Esistono beni, cioè oggetti e servizi utili, che non si comprano, per scelta o perché si preferisce autoprodurli o scambiarli sotto forma di dono. Una bestemmia per il sistema mercantile in cui tutto ha un prezzo in denaro. Altri beni che non si possono acquistare sono i cosiddetti beni relazionali, ossia ciò che appartiene o riguarda la comunità di cui si fa parte, nonché alcuni beni comuni di cui si ha il diritto naturale di usufruire. I beni comuni, quelli autoprodotti o scambiati sotto forma di dono, i beni relazionali, non rientrano nella categoria delle merci. Dunque, vanno preservati e sottratti al mercato. Molti oggetti e servizi che si acquistano sul mercato e rientrano nella categoria delle merci non hanno alcuna utilità. Tra i beni relazionali includiamo la tutela del territorio nella doppia accezione di salvaguardia della natura e di mantenimento delle comunità che ci vivono. Due elementi che hanno una crescente valenza economica, oltreché civile. Pensiamo alla spese di ripristino e ricostruzione dopo eventi climatici estremi. Investire nella difesa della natura , oltre a evitare catastrofi, determina cicli economici virtuosi, permette alle popolazioni di vivere meglio e di creare benessere attraverso l’inventiva, la sapienza antica e perenne della nostra gente. Si tratta di un bene relazionale che diventa bene comune, volano di sviluppo intelligente. Ugualmente, è un bene relazionale e insieme comunitario non privare – o ripristinare – livelli di servizi accettabili per milioni di cittadini che vivono – per nascita o scelta – nelle zone rurali e in aree lontane dai grandi flussi commerciali. La chiusura dell’ufficio postale, dell’ultimo negozio di prossimità, del bar che fa da punto di ritrovo e riferimento, è il colpo mortale per centinaia di comunità. L’aiuto pubblico diventa investimento a lungo termine con immense ricadute in termini di qualità della vita (un bene comune immateriale) difesa e ricostruzione del territorio, capacità di tenere in vita paesi e vallate intere. Sotto il profilo materiale, il bene comune per eccellenza è l’acqua. Nessuna concessione al mercato: l’acqua è vita e non se ne può fare mercato. Anche in questo caso, investire su bacini che assicurino l’approvvigionamento civile, agricolo e industriale e insieme evitino il succedersi di catastrofi che sfigurano il territorio, devastano l’economia e la vita delle comunità, dovrebbe essere una priorità ineludibile, specie in considerazione dei mezzi tecnologici oggi a disposizione. I privati – ovvero i giganti speculativi – vanno esclusi, cacciati dallo sfruttamento dell’acqua. Altra cosa è la collaborazione tra il potere pubblico e le popolazioni, di cui va incentivata la capacità di innovazione, la fantasia nell’escogitare soluzioni e utilizzata la naturale propensione di risolvere i problemi della filiera idrica. Bene comune è anche la capacità di autogoverno delle comunità locali, a cui va finalmente permesso di esercitare il principio di sussidiarietà, che i colossi padroni del mercato contrastano con la forza del denaro. L’acqua è il più evidente dei monopoli naturali in capo alle comunità e alle istituzioni che le governano. Un altro bene comune che va sottratto al mercato – ossia alla volontà monopolistica, predatoria di pochi – è la sanità. La volontà delle oligarchie, in Occidente e in particolare nell’UE, è la privatizzazione del settore. Nessuna obiezione all’esistenza della sanità privata, ma ciò che accade, in Europa e in Italia, è intollerabile. Chi frequenta gli ospedali e i pronto soccorso precipita in gironi infernali: inefficienza, promiscuità, tempi di attesa interminabili che significano sofferenza, dolore, perdita di vite umane, non di rado in condizioni civili indegne. Tutto questo- al di là della dedizione di chi ci lavora – è voluto. La scelta scellerata è deviare verso il privato il maggior numero di prestazioni, servizi, professionisti. Non si fa mercato della salute, ossia della sopravvivenza, né è accettabile che un ambito così delicato sia devoluto interamente alle regioni. È lo Stato che deve riprendere le redini della sanità, è il potere politico che deve garantire il diritto di tutti, da Bolzano alla Barbagia, nelle aree metropolitane e in quelle marginali a un elevato livello di assistenza universale. Basta con la chiusura di presidi e ospedali pubblici, fatta salva la necessità di concentrare, per motivi di qualità di macchinari e tecnologie, le prestazioni più complesse. Nella sanità il flusso di denaro che passa dal sistema pubblico a quello privato è immenso. Al di là delle declamazioni elettorali, nessuna forza politica ha la volontà di affrontare il problema. Beni comuni sono la casa di abitazione, il terreno agricolo, la rete di infrastrutture per la mobilità. Il potere politico deve garantire l’accesso alla proprietà diffusa dell’abitazione; impossibile se non si sconfigge la tenaglia della finanza speculativa e della precarizzazione sociale. È sempre più difficile oltre che costoso accedere ai mutui per l’abitazione (e per l’avvio della piccole e medie attività imprenditoriali, commerciali e artigianali) a causa delle condizioni imposte in regime pressoché monopolistico dal sistema bancario. Esclusione dei più giovani, dei lavoratori con contratti precari, dei lavoratori poveri, che pur avendo un impiego stabile, ne ricavano un reddito insufficiente . È il mercato, si sente dire dai suoi adoratori, ossia gli interessati beneficiari. Non è vero e comunque il mercato non è la misura di tutto né la giustificazione di ogni ingiustizia. Il sistema creditizio – nato per sostenere il benessere, l’intraprendenza, le buone idee – è stato del tutto privatizzato. Non esistono più, se non come imprese volte al profitto, le casse di risparmio e le banche popolari. Resiste in forma residuale il credito cooperativo. L’abolizione delle leggi bancarie che fecero grande l’Italia (1926, 1936), tanto da essere copiate dagli Usa di Roosevelt, ha avuto l’ effetto di una bomba sociale che esplode nel tempo. Anziché privatizzare – senza riguardo per gli interessi nazionali- serve creare una grande banca pubblica con funzioni di credito all’impresa nazionale, alla ricerca e all’innovazione. Una banca pubblica ha il diritto di approvvigionarsi di moneta alle condizioni delle banche centrali, bypassando -almeno in parte- il più odioso dei monopoli, quello della creazione monetaria a debito, demandata a un soggetto finanziario privato indipendente, il sistema delle banche centrali. Non vi è stata misura più devastante della privatizzazione della moneta, che ha prodotto il sistema perverso del debito pubblico, impagabile per evidenza matematica. La menzogna più grande, alimentata dal falso mito delle “autorità monetarie”, i Mario Draghi e le madame Lagarde, agenti della cupola finanziaria, sottratti da assurde guarentigie legali internazionali alle norme, ai controlli, alle responsabilità . Nel XXI secolo l’altro gigantesco oligopolio privato da attaccare riguarda le grandi reti informatiche e tecnologiche, le autostrade virtuali su cui corrono miliardi di dati e metadati utilizzati in ambito economico, finanziario, militare. Il sistema di telecomunicazioni è decisivo per la sicurezza degli Stati e la libertà dei cittadini. Non può essere in mano al grumo fintech. Nella guerra russo ucraina i satelliti utilizzati sono in gran parte proprietà di colossi privati legati allo Stato profondo di alcune potenze, Usa e Israele su tutte. Non è pensabile che i dati relativi alla sicurezza dello Stato – con il relativo immenso potere di ricatto – non siano di esclusiva pertinenza degli Stati, espressione dei popoli. Sin troppo ovvio rivendicare la natura di bene comune delle reti energetiche, di infrastrutture quali porti e aeroporti, di alcuni settori industriali strategici. Al contrario, i governi continuano a privatizzare. È di questi giorni l’autorizzazione data a Leonardo, che opera nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, di cedere una quota del tre per cento a Black Rock, il più potente fondo del pianeta. Entusiasmo sciocco del governo: è la prova, afferma, che il sistema funziona e le imprese italiane sono appetibili. Sì, dalle cupole transnazionali che finiranno con dominare settori economici e di ricerca vitali, orientandoli senza riguardo all’ interesse nazionale. Analoghe privatizzazioni – parziali ma indicative di un percorso di spoliazione di beni comuni – riguarderanno Ente Poste (con la conseguente fine della capillare diffusione territoriale degli sportelli) e le ferrovie. Campane a morto per le linee non redditizie, in violazione del dettato costituzionale che assicura la mobilità di tutti i cittadini, indipendentemente dalla residenza. Purtroppo potremmo continuare, ad esempio parlando della ricerca scientifica, che deve essere libera ma i cui risultati sono un bene comune in cui il mercato va subordinato all’interesse pubblico. Oppure, delle infrastrutture stradali. La privatizzazione di Autostrade ha offerto un enorme polmone finanziario a chi ha privilegiato il profitto alla sicurezza e all’innovazione, con il risultato di incuria, malfunzionamenti, disastri come il crollo del Ponte Morandi. Spesso la giustificazione politica delle privatizzazioni è l’asserito vantaggio in termini di qualità e tariffe. Abbiamo nelle nostre tasche la prova del contrario; avere affidato beni comuni a privati (generalmente stranieri, incontrollabili, più potenti dello Stato) ha tagliato spietatamente stipendi e occupazione. Senza peraltro cambiare la situazione del debito pubblico: pochi miliardi in cassa a fronte di un debito enorme e soprattutto alla rinuncia alla sovranità su beni comuni e – assai concretamente – ai profitti certi di attività (distribuzione di energia, telefonia ) esercitate ora da privati in regime di monopolio. Un libro dei sogni, diranno molti, la rivendicazione di beni comuni come pegno del bene comune. Vero, ma solamente se non riconosciamo la possibilità di rovesciare il vigente sistema fondato sulla privatizzazione oligarchica generalizzata. Povertà e proletarizzazione in basso, ricchezza sino all’onnipotenza in alto, con la superstizione della maledetta “stabilità”, ossia il divieto – legalmente stabilito da leggi fatte da lorsignori per se stessi – di modificare il sistema. L’eternità del male per falsa assenza di alternative, la negazione del bene comune attraverso l’appropriazione dei beni comuni. Roberto Pecchioli
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26 Settembre 2024 Da Rassegna di Arianna del 22-9-2024 (N.d.d.) Se osserviamo le guerre in corso sul pianeta - quantomeno le principali, ché ce ne sono svariate... - e le inquadriamo correttamente come pezzi di un unico conflitto globale, quello tra occidente ed Eurasia, è possibile fare alcune osservazioni non secondarie. Fondamentalmente, la prima, e più rilevante, è che l’occidente - sentendosi minacciato il proprio dominio su gran parte del mondo - ha assunto una postura, in termini strategicamente geopolitici, difensiva, ma che poi si traduce in una postura operativa estremamente aggressiva. È l’occidente, in senso lato, che cerca il conflitto, lo provoca, lo alimenta. Il pensiero strategico di questo mega-conflitto viene ovviamente elaborato nel cuore dell’impero occidentale, ovvero negli Stati Uniti. Ed il nocciolo di questo pensiero può essere riassunto in alcuni concetti base. Il primo dei quali è contenimento. Per impedire che quelle che a Washington sono percepite come potenze la cui crescita costituisce in sé una minaccia, bisogna contenerne la crescita; e per fare ciò bisogna agire su tre livelli: impedirne lo sviluppo tecnologico, limitarne la crescita economica e consumarne il potenziale. Questi tre livelli costituiscono i piani su cui si incentra la guerra ibrida, e possono essere riassunti nel secondo concetto base: logoramento. Questa guerra ibrida, a sua volta, si sostanzia nelle sanzioni (dirette ed indirette), nell’azione diplomatica e di contrasto al libero commercio, e - last but not least - nella guerra cinetica. Per quanto attiene a questo aspetto, per tutta una serie di ragioni che non possono essere qui riassunte brevemente, ma che attengono fondamentalmente alla capacità industriale, alla forza militare mobilitabile ed alla fragilità della coesione interna, la dottrina bellica statunitense si basa (quantomeno sul breve-medio periodo) sul terzo concetto: proxy war. Gli Stati Uniti devono impegnare gli avversari in guerre di logoramento, che però devono essere contenute al di sotto di una determinata soglia, poiché l’imperativo è tenere il conflitto lontano dal territorio nazionale e, nei limiti del possibile, evitare il coinvolgimento diretto delle proprie forze armate. Il che, ovviamente, significa innanzitutto impedire che le guerre raggiungano una temperatura troppo elevata, rischiando di passare ad un livello di conflitto nucleare. Per inciso, questa e non altra è la ragione per cui a Washington sono così infastiditi dal bellicismo sfrenato di Israele, che cerca a tutti i costi di trascinarli in guerra. Un’altra osservazione rilevante è che, a mio avviso, c‘è una asimmetria non completamente rilevata. Mentre da parte delle potenze eurasiatiche si manifesta sostanzialmente una grande capacità di visione strategica, sicuramente superiore a quella occidentale, sul piano tattico-operativo sembrano invece ancora inferiori, o quanto meno in ritardo. La capacità russa di eludere i riflessi negativi delle sanzioni, di riorientare rapidamente il proprio commercio internazionale, di consolidare ed estendere la propria rete di relazioni diplomatiche, e non da ultimo di logorare l’apparato militare-industriale USA-NATO assai più di quanto non venga logorato il proprio, rappresenta perfettamente questa superiorità strategica. Così come l’Iran e l’Asse della Resistenza, con la propria pazienza strategica, stanno logorando Israele assai più di quanto sia al contrario. Al tempo stesso - ovviamente non c’è guerra perfetta, senza errori - è abbastanza evidente che poi sul piano operativo si fanno un po’ troppo spesso cogliere in contropiede, anche con una certa dose di ingenuità, se vogliamo. Ad esempio, è evidente che il territorio russo è sterminato ed è quindi assai complesso stabilire una rete capillare di difesa anti-aerea / anti-missile, ma che ci siano troppi buchi sul fronte occidentale (dopo due anni di guerra!), è francamente incredibile. Così come che la flotta del mar Nero si sia dovuta spostare da Sebastopoli, giusto per citare gli aspetti più clamorosi. Ugualmente, è chiaro che le forze della Resistenza, pur conoscendo la spregiudicatezza criminale di Israele, siano troppo scoperte rispetto ai killeraggi di Tel Aviv. Al momento, non si vedono particolari mutamenti, né da parte occidentale sul piano strategico, né da parte euroasiatica su quello operativo. C’è da capire se e quanto questi squilibri possano incidere sull’andamento della guerra globale. Enrico Tomaselli
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24 Settembre 2024 Da Rassegna di Arianna del 22-9-2024 (N.d.d.) Si tiene a Bergamo il Festival del Movimento Distributista Italiano, impegnato a diffondere il pensiero economico del grande scrittore cattolico Gilbert K. Chesterton. È l’occasione per riflettere su un concetto centrale dell’autore dei Racconti di Padre Brown e del suo sodale Hilaire Belloc, i dioscuri del distributismo. Parliamo del bene comune, a cui aggiungiamo la tutela dei beni comuni. Non si tratta di un gioco di parole, ma dei due anelli principali della catena di un’economia (e di una società) finalmente giusta. È sconcertante che il dibattito economico, dopo la fine del comunismo reale novecentesco, giri attorno a un’unica teoria, proclamata scienza, il liberismo economico. I marxisti hanno ripiegato sui diritti individuali, dimenticando la sfera sociale e la difesa dei ceti deboli. Non esiste più il proletariato, ma una sterminata plebe desiderante resa dipendente dal consumismo, manipolata dall’immensa macchina pubblicitaria. Il liberismo divora la società intera con il suo individualismo egoista, violento, con la competizione in ogni ambito della vita che invera la guerra di tutti contro tutti. Un conflitto in cui vince il più forte, ossia il più provvisto di denaro, chi possiede i mezzi di produzione, e soprattutto, nel XXI secolo, le reti tecnologiche ed informatiche oltreché l’apparato di comunicazione ed intrattenimento che forgia la mentalità corrente. Serve dare battaglia, riaprire il dibattito economico e finanziario, ancorandolo a valori diversi dal “lasciare fare, lasciar passare” del liberalismo. È urgente restituire respiro etico al pensiero economico, riumanizzarlo. Il concetto chiave è il bene comune, declinato in maniera opposta alla follia del mercato misura di tutte le cose, senza cadere nel collettivismo, le cui pessime prove ne hanno decretato il fallimento storico. Definire il bene comune è impresa difficile. Semplificando, può essere definito il perseguimento dell’interesse generale nell’ambito dell’etica, della politica e dell’economia, della vita sociale. Secondo Tommaso d’Aquino la nozione di legge è legata al bene comune, poiché “non è che una prescrizione della ragione, in ordine al bene comune, promulgata dal soggetto alla guida della comunità” (Summa Theologiae). Il bene comune è anche il fine comune, tanto che “costituendosi la legge innanzitutto per riferimento al bene comune, qualsiasi altro precetto sopra un oggetto particolare non ha ragione di legge sino a quando non si riferisce al bene comune”. L’individualismo liberale pensa il contrario, arrivando a teorizzare che la ricerca del successo individuale determina per magia l’interesse generale. È urgente reagire contro un’ideologia – il liberal liberismo – che mette gli uomini gli uni contro gli altri producendo ingiustizie intollerabili. Nella sua forma attuale, le differenze con il comunismo si affievoliscono: la proprietà privata è infatti declinata come trionfo di pochi potentati economico finanziari che possiedono tutto, ma proprio tutto – anche le coscienze – rendendo la schiacciante maggioranza serva o addirittura schiava. Un mondo di atomi precari senza possibilità di diventare proprietari della propria casa o del fondo agricolo, impossibilitati a realizzare un progetto di vita diverso da quello del nomade che – dicono – non avrà nulla ma sarà felice. Chesterton affermò che il problema del capitalismo è che ci sono troppo pochi capitalisti. Ne intuiva la natura totalitaria, bulimica, illimitata. Inglese, non poteva ignorare la violenza della prima e della seconda rivoluzione industriale, lo sradicamento coatto di milioni di persone dalle campagne a seguito delle infami leggi che chiusero i terreni comuni (enclosures) spingendo uomini, donne, bambini alla fame e al lavoro nella nascente industria. Fu il primo a comprendere che la crisi della famiglia era responsabilità del sistema capitalistico, che allontanava gli uomini dalla comunità naturale. Lontananza fisica, poiché i luoghi di lavoro erano, per la prima volta nella storia, lontani dalle case e dai paesi d’origine; lontananza spirituale, per gli orari massacranti che rendevano residuale il rapporto con genitori, figli, coniugi, fratelli; lontananza esistenziale, poiché l’individualismo raggiungeva ogni strato della società Se questo era vero già un secolo fa, il nostro tempo ha portato a compimento la crisi di tutte le comunità naturali, polverizzando la società. Ogni rivoluzione tecnologica – le prime rivoluzioni industriali furono figlie della macchina a vapore, la terza dell’automazione e del lavoro in serie, quella presente delle tecnoscienze che sostituiscono l’uomo – coincide con una rivoluzione ideologica. Oggi sperimentiamo la presa del potere totalitario da parte delle oligarchie finanziarie e tecnologiche globaliste. All’uomo occidentale del XXI secolo viene ordinato di essere un soggetto isolato alla deriva, privo di legami, indifferente agli altri, confinato in un Io ipertrofico e insieme minimo, una macchina desiderante dipendente da piaceri volgari (Tocqueville) e da consumi compulsivi. La nozione di bene comune è cancellata, sostituita dall’interesse personale in basso e dall’ onnipotenza dei padroni universali in alto. Hanno maschilizzato la donna per inserirla nel meccanismo del lavoro salariato e femminilizzato l’uomo: entrambi trasformati in monadi dedite al consumo, sottratti al destino comune, all’incontro, alla famiglia, alla comunità. Nessun bene comune, solo il perseguimento dell’interesse individuale immediato. In ambito economico, questo significa disinteresse per l’Altro, per la dimensione collettiva, per ogni forma di giustizia sociale e di progetto condiviso. Peggio del comunismo. […] I soggetti dominanti sono i vertici della finanza, le grandi multinazionali, i fondi di investimento, i detentori delle tecnologie elettroniche di controllo, comunicazione, sorveglianza. Per l’ antropologa Ida Magli “due sono i pilastri che reggono la costruzione del Nuovo Ordine in vista del governo mondiale: il primo è l’accentramento del potere nelle mani dei banchieri, con la produzione del denaro e la creazione del debito pubblico; il secondo è la rete di associazioni create dagli uomini più ricchi e potenti per preparare e realizzare, con l’omogeneizzazione di tutti i popoli, un sistema di governo unico, con una moneta unica, una lingua unica, una religione unica.” […] Siamo le vittime– felici fintanto che sono soddisfatte le molteplici dipendenze in cui ci hanno rinchiusi – donatori di sangue di una minoranza, l’ oligarchia “estrattiva” che sugge risorse, lavoro, sangue e vita da tutti noi. Disfunzionale, giacché non riesce a realizzare le sue promesse e diffonde sacche di povertà, sottosviluppo e vero e proprio regresso. Perfino la Germania, la maggiore manifattura d’Europa, pensa di chiudere gli stabilimenti della Volkswagen, uno choc nazionale. In compenso, l’oligarchia estrattiva continua ad accumulare potere senza pagare le tasse agli impotenti Stati nazionali. Google era stata condannata a una multa di un miliardo e mezzo in sede europea, ma la Corte di Giustizia (le parole invertite del mondo capovolto…) ha annullato la decisione. Chi comanda fa o interpreta le leggi. Non veritas, sed auctoritas facit legem. Non la verità, ma l’autorità fa la legge (Thomas Hobbes). Il concetto di bene comune – assente dall’orizzonte liberal liberista – viene espulso dalle legislazioni, diventate ordoliberiste, meri strumenti di codificazione degli interessi oligarchici. Un esempio sono le norme dell’UE che vietano gli aiuti di Stato, ovvero la possibilità per i governi di svolgere politiche economiche, industriali, finanziarie in sintonia con il bene comune. Tutto deve essere lasciato al libero gioco delle forze economiche . Menzogna, poiché quel gioco non è che la legge del più forte, del più ricco, lo squalo onnivoro che può scacciare dal Tempio (il mercato) , fagocitandoli o facendoli fallire, gli attori economici meno potenti. Pensiamo alla famigerata direttiva Bolkenstein dell’UE (2006/123/CE ) che liberalizza (“deregolamenta”) l’accesso ai mercati, ossia, apre praterie ai grandi operatori permettendo di soffocare tutti gli altri. In particolare, viene sfigurato il settore dei servizi – il più importante, nell’ assetto economico e finanziario globalista – espellendo dal mercato, cioè gettando sul lastrico, un numero incalcolabile di attività. In Italia la direttiva è nota soprattutto per l’impatto sulle imprese balneari, ma l’irruzione dei grandi gruppi non risparmia alcun settore economico. Così viene distrutta la piccola e media impresa (e la proprietà diffusa), poi quella grande, a vantaggio di una minoranza di giganti interconnessi, la cui proprietà, tra complessi incroci azionari, è in capo a poche centinaia di colossi. Un super Stato privatizzato, un Moloch da cui siamo indifesi. Dove sono le grandi culture politiche europee, in particolare quella socialista e quella cristiano-sociale? Tutte o quasi le famiglie politiche e ideali europee sono diventate correnti di un partito unico liberista in economia e libertario nei costumi. Aveva ragione Chesterton: ci sono troppo pochi capitalisti. Pochissimi possiedono troppo e decidono per tutti. Sono riusciti a rendere residuale la democrazia rappresentativa, vanto del pensiero liberale, trasformando i parlamenti in notai della volontà oligarchica, espressa politicamente dall’alternanza senza alternativa (Jean Pierre Michéa) tra partiti e gruppi indistinguibili, esecutori di ciò che conviene al piano alto del potere economico, finanziario, tecnologico. Ecco perché è di capitale importanza ritessere il filo del pensiero economico non liberista. Per autodifesa, per decenza e senso morale, oltreché per promuovere la ripresa del benessere. La categoria di bene comune diventa la bussola etica e pratica. Bene comune è un complesso di valori, norme civili, prassi organizzative, condotte concrete, tese ad allargare il benessere materiale, l’ordine civile e la comunanza di principi. Il bene comune si nutre di beni comuni. Alcuni sono immateriali : la vita, la pace, un ordine fondato sulla giustizia e non sulla costrizione, la libertà di espressione, di partecipazione alle decisioni comuni, l’autonomia, la proprietà e l’iniziativa privata diffusa. Altri attengono alla sfera pratica e all’organizzazione economico-sociale. I beni comuni concorrono al bene comune e hanno una caratteristica : l’estraneità al mercato. Sono il tempio attorno al quale prospera la comunità. Il tempio è sacro perché non è in vendita, scrisse Ezra Pound. Di esso non si fa mercato; non tutto ha un prezzo, non a tutto si può applicare la logica dello scambio in denaro dominata dagli iperpadroni. Roberto Pecchioli
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