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Sovranismo senza nazionalismo PDF Stampa E-mail

18 Ottobre 2023

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 Da Comedonchisciotte del 15-10-2023 (N.d.d.)

“Uno spettro s’aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro”. Così iniziava il Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels del 1848. Oggi, gli spettri che si aggirano per l’Europa sono diventati due: il sovranismo e il populismo. E, comunque, l’Europa è sempre impegnata nella sua santa battuta di caccia. Non è più l’Europa di “papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi”, come recitava il Manifesto, ma è l’Europa dei mercati, delle banche e del capitale, di Draghi, di Trichet, di Junker, della Lagarde, di Gentiloni, dei media compiacenti e degli intellettuali acquiescenti, dell’europeismo acritico e del neoliberismo imperante. Occorre rompere, non per polemica politica ma per onestà intellettuale, questa coltre di conformismo e porsi qualche interrogativo, farsi venire qualche dubbio, riflettere sulle parole che si usano e passare dal pensiero unico al pensiero critico, che poi è l’unica forma di pensare degna di questo nome.

Un contributo importante per muoversi in questa direzione lo ha dato Gabriele Segre in un recentissimo articolo sul quotidiano Domani. Due premesse. Primo punto. Segre si occupa solo di sovranismo e dei suoi rapporti con il nazionalismo. Dell’altro spettro, quello del populismo, ce ne occuperemo in futuro. Secondo punto, è significativo che un articolo come quello di Segre venga pubblicato su un organo di stampa espressione dell’establishment e (molto) vicino al PD. Vuole dire che qualcosa si sta muovendo, sta a noi contribuire a questo confronto, animandolo e indirizzandolo nella direzione più opportuna. L’atteggiamento di schifio verso tutto ciò che non è ‘puro e incontaminato’ porta solo all’isolamento e alla autoreferenzialità. Il testo, che consigliamo comunque di leggere direttamente, si articola in quattro passaggi logici stringenti. Segre parte dalla vittoria di Robert Fico alle elezioni in Slovacchia del 1° ottobre 2023. Leader nazionalista, sovranista e critico (usiamo un eufemismo) su diritti civili, appoggio all’Ucraina e immigrazione. Insomma, un vero fascista direbbe Elly Schlein. Peccato che Fico non sia un fascista: è stato membro del Partito comunista, successivamente ha aderito al Partito della sinistra democratica per poi fondare un suo Partito socialdemocratico. Quindi è uomo di sinistra. Di sinistra e sovranista. Strano, ma vero. Questo scenario ci dice Segre “ci impone di separare i due termini (…) nazionalismo e sovranismo non rappresentano più sinonimi perfetti”. La ragione di questa “condizione di separazione” – così la definisce efficacemente – è dovuta al fatto che “sempre di più governi ‘patrioti’, eletti con la promessa di fare della propria nazione una ‘fortezza inespugnabile’ all’urto di epocali invasioni demografiche, economiche e militari si accorgono che erigere mura non serve a niente (…) La dimensione della nazione sembra oggi essere troppo ristretta per riuscire a proporre risposte efficaci a problemi che si proiettano su scala planetaria”. E qui Segre si avvicina al punto focale, tanto chiaro quanto discutibile, della sua argomentazione quando afferma “che lo Stato nazione sia una istituzione ‘superabile’ in un mondo globalizzato lo avevano già intuito i firmatari del Manifesto di Ventotene nel 1941”. Purtroppo, ci sono due piccoli particolari che non quadrano. Primo, molto semplicemente, nel 1941 il processo di globalizzazione come oggi noi lo conosciamo non esisteva. Anzi, tre anni dopo, nel 1944, le grandi potenze internazionali firmarono gli accordi di Bretton Woods che erano proprio finalizzati a contenere i flussi di capitali oltre i confini nazionali. Secondo, i firmatari del Manifesto di Ventotene, con tutto il rispetto per gli illustri antifascisti, non erano i Padri costituenti; ed è invece alla Carta costituzionale, la nostra legge fondamentale, che noi dobbiamo far riferimento. Qui Segre prende atto realisticamente che siamo ancor lontani – per fortuna diciamo noi – dall’utopia di una Europa federale e “forse ci troviamo più prossimi a riconoscere il bisogno di nuove dimensioni di sovranità, immaginate al di là delle frontiere tradizionali. Disgiungere nel nostro lessico il sovranismo dal nazionalismo può rappresentare una tappa di questo cammino”.

Ecco l’interrogativo fondamentale, meritoriamente sollevato da Gabriele Segre: può esserci sovranismo senza nazionalismo? Può esserci una qualche forma di sovranità che prescinde dai confini e dalle identità nazionali? Andando al cuore del problema, siamo sicuri che una ferma rivendicazione della sovranità degli Stati nazionali non sia nei fatti l’unica risposta adeguata al disegno di federalismo coercitivo e quindi antidemocratico che, dalla crisi finanziaria in poi, l’Unione Europea sta perseguendo con sempre maggiore arroganza e determinazione? La risposta a questi interrogativi la dà Segre, con invidiabile chiarezza, nel successivo capoverso, che vi invito a leggere con grande attenzione perché dice cose importanti. “Abitiamo in un mondo dominato da un limitante sentimento di necessità, dalla logica inappellabile, del ‘non c’è alternativa’, da scelte che trascendono la politica nel definire alleanze vincolanti e coercizioni finanziarie”. Perfetto. Parole bellissime che io condivido totalmente e che portano a una logica conclusione: un sovranismo non nazionalista consiste, anzitutto, nel proporre ed attuare politiche che limitino drasticamente quella rete di vincoli e di interdipendenze che riducono l’indipendenza e l’autonomia degli Stati nazionali. In altri termini, va eliminato quel limitante senso di necessità – che il grande giurista Hans Kelsen chiamava la “forza normativa del fattuale” – che ha ridotto, se non annullato, lo spazio della decisione politica, intesa come scelta tra alternative. Per questo “la ‘questione sovranista’ va posta, con valide ragioni, al centro del dibattito sul futuro delle nostre società”. Questo invito va assolutamente accolto, soprattutto da chi crede, come il sottoscritto e a differenza di Gabriele Segre, che attualmente solo all’interno degli Stati nazionali possano esserci sia vera democrazia che adeguati contrappesi al neoliberismo.

Per concludere, Gabriele Segre sdogana il sovranismo dall’ostracismo aprioristico ed ottuso a cui il dibattito politico corrente lo ha condannato. È un passo importante. Infatti, così facendo ci insegna che i cittadini, se lo vogliono, possono ridefinire il significato delle parole e diventare “sovrani del proprio avvenire anziché sudditi di un inevitabile destino”. E questa è democrazia.

Luca Lanzalaco 

 
Manganellatori mediatici PDF Stampa E-mail

17 Ottobre 2023

 Da Rassegna di Arianna del 15-10-2023 (N.d.d.)

La fase storica che stiamo vivendo è contrassegnata da una profonda crisi, forse terminale, dell’impero americano. Con il riflusso della globalizzazione economica e il decrescere della presa USA sul mondo i processi di controllo, ricatto e destabilizzazione strategica promossi dai centri di potere americani hanno subito un’accelerazione. Essendo i paesi del blocco di alleanze americano tutte liberaldemocrazie, il problema del controllo dell’opinione pubblica è centrale. Si è avviata così una fondamentale battaglia per le anime delle popolazioni occidentali, e questa battaglia ha il suo epicentro non in America, ma in Europa, dove la tradizione di una cultura critica e plurale era assai più vigorosa che negli USA. Il primo passo in questa direzione è stato l’assoggettamento dell’Unione Europea alla catena di comando americana, assoggettamento testato dalla vicenda pandemica, ed oramai conclamato. Pochi ricordano che il progetto europeo era nato sotto gli auspici di rappresentare un contraltare alla potenza americana, un terzo polo organizzato che rifuggisse non solo il modello sovietico, ma anche quello degli alleati americani. Questo ruolo autonomo, ispirato all’esperienza dei welfare state europei del dopoguerra, è entrato in crisi con la trasformazione della Comunità Europea in Unione Europea, con la svolta neoliberale del Trattato di Maastricht, ed è oggi soltanto un ricordo remoto. Per comprendere gli estremi della battaglia per le anime in corso gettiamo uno sguardo, a titolo di campionatura, ad alcuni fatti recenti, relati al conflitto israelo-palestinese.

In questi giorni l’UE ha chiesto a META di rimuovere dalle loro piattaforme tutti i contenuti ritenuti “disinformazione”, pena sanzioni fino al 6% del fatturato mondiale. Il commissario europeo Thierry Breton è intervenuto ufficialmente presso Elon Musk per sollecitare interventi di controllo e censura sulla “disinformazione” su Twitter in occasione del conflitto israelo-palestinese. Il Digital Services Act approvato dall’Unione Europea nel 2022 è il primo intervento legislativo che istituzionalizza la censura sulle piattaforme mediatiche europee. Naturalmente ciò che riceve lo stigma di “disinformazione” e “fake news” sono sempre soltanto le tesi che turbano la narrativa corrente, e il controllo sulle agenzie di “fact-checkers indipendenti” garantisce che vengano alzate continuamente alle autorità le palle giuste da schiacciare. Intanto è ripartita la giostra delle modifiche ed emendazioni delle pagine di Wikipedia con contenuti scomodi, sulla stessa linea vista per il Covid e per l’Ucraina. In Italia l’apparato di manganellatori mediatici a servizio permanente che popolano TV e giornali si è attivato nelle oramai usuali spedizioni punitive verso i dissenzienti con un profilo pubblico rilevante. Così Alessandro Orsini ed Elena Basile sono divenuti l’insistente oggetto di sfottò, agguati mediatici e fatwe. Il povero Patrick Zaki, da idolo del mainstream, è caduto istantaneamente in disgrazia giocandosi candidature europee e benefit vari per aver ingenuamente detto quello che pensava su Israele e Palestina. Moni Ovadia, per il quale gli squadristi mediatici non riescono a ricorrere alla solita equazione antisionista = antisemita, è stato sollecitato a lasciare il posto di direttore del Teatro comunale di Ferrara. A livello internazionale, gli eventuali giornalisti che non si limitassero a ricopiare le veline degli apparati americani corrono sistematicamente il rischio di prendersi un’accidentale sventagliata di mitra. Così è successo l’altrieri ai giornalisti della Reuters e di Al Jazeera, ma l’elenco dei giornalisti uccisi dall’esercito israeliano in questi anni è lungo. Grazie al cielo ci sono giornalisti come i nostri, che se ne stanno nel tinello romano a roteare bandierine da tifosi ed esercitarsi come ventriloqui dell’amico americano; altrimenti non si saprebbe dove veicolare prebende e riconoscimenti.

In questa fase l’interesse americano è tutto rivolto alla moltiplicazione di focolai di conflitto perché ciò gli permette di mettere a frutto i suoi due ultimi, residuali, punti di forza: la perdurante preminenza nell’armamentario convenzionale e la collocazione geografica isolata, che rende l’America immune dalle conseguenze immediate dei conflitti che rinfocola. È in quest’ottica che si comprende quanto rivelato ieri dalla visione di e-mail interne (Huffington Post), ovvero che il Dipartimento di Stato USA ha scoraggiato i diplomatici che lavorano alle questioni mediorientali dal fare dichiarazioni pubbliche che contengano parole come "de-escalation", "cessate il fuoco", "fine della violenza", "spargimento di sangue", "ripristino della calma". Gli ordini di scuderia sono di gettare benzina sul fuoco.

In questo contesto il controllo dei flussi di opinione pubblica è determinante. Il metodo – è importante comprenderlo – non è più quello della censura sistematica che era richiesto dagli autocrati di un secolo fa, ma quello della manipolazione e censura qualificata. Si può prendere a questo proposito l’esempio della “notizia” di quattro giorni fa intorno ai 40 neonati decapitati da Hamas. La notizia è stata diffusa sulla base di un sentito dire, e il giorno dopo era la notizia di apertura di più o meno tutte le testate mondiali. La giornalista della CNN Sarah Snider, che ha reso inizialmente virale la “notizia” si è scusata perché la notizia non era poi stata confermata. Sky News ha detto che la notizia non è stata “ancora” confermata (dopo quattro giorni su cosa si confida? sugli esperti di effetti speciali?) Ora, c’è chi dirà ingenuamente che quest’ammissione della CNN è un segno del fatto che in occidente esiste la libertà di stampa. Ma naturalmente l’asimmetria tra una notizia clamorosa sbattuta in prima pagina in tutto il mondo e gli eventuali dubbi che in seguito filtrano qua e là tra le righe equivalgono sul piano politico ad aver indirizzato la maggioranza dell’opinione pubblica in una direzione definita (sdegno emozionale contro gli assassini), anche se tra qualche mese o anno si dovesse ammettere serenamente che la notizia era effettivamente destituita di fondamento. È quello che potremmo chiamare “metodo Colin Powell”, o metodo “gli indiani buoni sono gli indiani morti”. Prima si crea un caso sufficiente a demonizzare una parte e lo si fa con sufficiente vigore da produrre un’operazione di sterminio. Dopo di che, ad operazione conclusa, si ammette cavallerescamente che invero le cose non stavano proprio così, vantandosi peraltro della propria onestà e trasparenza. Prima si agitano fialette di presunte armi chimiche all’ONU, si spiana uno stato sovrano, donne, bambini, cani e criceti, poi anni dopo – tra uno scotch e l’altro – si ammette con un sorriso distratto che vabbè, era un espediente, che vogliamo farci, chi ha avuto ha avuto ha avuto. Prima si stermina la popolazione autoctona di pellerossa, dipingendoli come mostri assetati di sangue bianco, poi quando oramai sono ridotti ad attrazioni folcloristiche, si dà avvio ad una cinematografia piena di indiani buoni e coloni coscienziosi.

Nel mondo contemporaneo non c’è nessun bisogno di tentare l’impresa, complessa quanto inutile, di bloccare il 100% delle informazioni vere. Basta manipolare, censurare, filtrare selettivamente per le masse di pubblico e per il tempo sufficienti a creare un certo danno irreversibile. Ma si illuderebbe il cinico che pensasse che oggi questo gioco distruttivo ha al suo centro soltanto qualche milione di “pedine palestinesi sacrificabili”. Se la situazione non viene immediatamente congelata e disinnescata, al centro dell’attuale grande operazione demolitiva sono e saranno innanzitutto i popoli europei. È l’Europa che sta già subendo e subirà l’impatto della devastazione dei rapporti verso Est con la guerra in Ucraina. Ed è l’Europa che subirà l’impatto di una destabilizzazione duratura nel Medio Oriente, dove un conflitto che chiamasse in causa Israele, Siria, Libano, Iran e magari anche Iraq, Egitto, Giordania, ecc. rappresenterebbe una bomba sociale ed economica a tempo indeterminato per l’Europa – per tacere dei rischi di un coinvolgimento bellico diretto. E curiosamente l’unico minimo comune denominatore di questi conflitti sta nel ruolo degli USA, che sono anche la forza che ne trae i maggiori vantaggi e quella che ha la maggiore capacità di influsso sui media internazionali. Ma va da sé che chi unisce i puntini è un complottista.

Andrea Zhok

 

 
Fenomenologia dell'eccesso PDF Stampa E-mail

16 Ottobre 2023

 Da Comedonchisciotte del 14-10-2023 (N.d.d.)

Parlare di droga significa parlare dei registri immaginativi che la connotano e che caratterizzano la sua fortissima attrazione nel pensiero collettivo. È la manifestazione di  un desiderio che erompe, ovvero  una fenomenologia dell’eccesso. Dimensione che nell’Ottocento assume, per la prima volta, una valenza positiva andando ad ispirare alcuni poeti che, fra paradisi artificiali e inferni personali, ne fanno il soggetto dei loro libri. È in quell’ambito che si genera tutto un immaginario legato al maledettismo, alla trasgressione, al mito del “genio e sregolatezza” che verrà ereditato, in tutta la sua fascinazione, soprattutto dalle rockstar  degli anni Sessanta. Jim Morrison, ad esempio, si ispira esplicitamente a Rimbaud, Baudelaire e Nietzsche. Quell’immaginario è ancora oggi potente e, perciò, abilmente sfruttato dal mercato che lo ha trasformato in uno stereotipo.

La visione della droga è, infatti, nuovamente cambiata e riflette il mutato scenario economico e comunicazionale, sempre più globalizzato, in cui l’industria dell’intrattenimento (che va dalla moda alla produzione discografica, televisiva e cinematografica fino alle discoteche) ha ormai consolidato il proprio assetto e interviene sempre più direttamente nella definizione dei modelli culturali e comportamentali di riferimento della società. Il fenomeno attuale più seguito dai ragazzi è la musica trap. Sfera Ebbasta è il cantante più ascoltato in Italia insieme a Capo Plaza, Gemitaiz, Gue Pequeno e Salmo. E di che cosa parlano i trapper nelle loro canzoni? Soldi, successo, sesso e, soprattutto, droga che compare in ben il 33% dei brani che hanno raggiunto la top ten. Il termine trap deriva, infatti, da “trap house” che, in America, identifica le case abbandonate e usate come luoghi di consumo e di spaccio. “Intrappolati in casa diamo i numeri, finché il vicino chiama il 112. E due gli euro con cui entro, 10 i grammi con cui esco”, canta Ghali in “Marijuana” mentre i Dark Polo Gang sono diventati famosi con il pezzo “Caramelle” il cui ritornello recita: “sto fumando kush, così non penso a te… Vendo solo caramelle alle amiche della Gang”.

Il vero status symbol dei trapper è, però, la “purple drank”, una bevanda viola dagli effetti psicoattivi composta da uno sciroppo per la tosse ricco di codeina e Sprite. “Droga, moda, rosa la mia soda…”, canta Sfera Ebbasta in “Sciroppo”, insegnando anche come prepararla: “Mixo Sprite e succo denso. Voglio solo blunt e Sprite”. Il trap mette in luce come è cambiato il rapporto con le sostanze. Se nell’hip hop degli anni ‘90 l’immaginario era dominato da marjuana e cocaina, oggi spopolano soprattutto i prodotti farmaceutici e gli psicofarmaci. L’uso è stordente, lo scopo principale è non pensare, ecco perché usano sostanze come la codeina. “Nulla mi calma, bevo la mia bevanda. Succo rosa, sono una kanaglia”, canta DrefGold, che nel singolo “Nuvola” è ancora più esplicito: “sono sempre in aria e non sento nada, qui c’è gente che parla ma io sono zitto e guarda: sto sulla mia nuvola, nella mia nuvola, con la mia nuvola in aria nel nulla”.

Anche il consumo è cambiato, non ci sono più la piazza e la compagnia. ma la si assume in casa da soli e, se in gruppo, si arriva con la propria dose e ognuno usa la sua. “Non sono il tipo che segue la massa, Mambo fuma canne ma non le passa”, canta, ad esempio, MamboLosco in “Guarda come flexo” “Mamma guarda come volo adesso, in un cinque stelle, prima stavo nel campetto, Sfera ne fa un’altra, Gigi versa succo denso, mamma non perdo tempo, ce la stiamo facendo, yah”, canta Capo Plaza con Sfera Ebbasta e DrefGold nel brano “Tesla”. Il titolo è iconico: oltre a richiamare la casa automobilistica di Elon Musk, fa riferimento ad una pasticca di ecstasy con impressa appunto la scritta Tesla che contiene il doppio della quantità di metanfetamina rispetto alle altre. Chi la usa può andare incontro a convulsioni, spasmi, allucinazioni, aumento della temperatura corporea e morte, nei casi estremi. Ciononostante, radio, tv e discoteche trasmettono ininterrottamente brani come questi. Su migliaia di adolescenti, l’effetto è lo stesso della musica del pifferaio magico sui poveri topi.

I trapper nascono sui social e sono frutto di questo tipo di comunicazione, parte fondamentale del loro progetto dove conta soprattutto  la creazione del personaggio, lo stile di vita, il modo di vestirsi, il linguaggio, ecc. Offrono modelli di esibizionismo superficialmente trasgressivo e disincantato. Alla droga non si chiedono più estasi e rivelazioni, solo un po’ di eccitazione e di oblio. L’ebbrezza perde il suo pathos: il carro di Dioniso non è più trainato dalla tigre e dalla pantera – simboli delle forze istintuali e vitalistiche dell’uomo – ma dal mercato. Il mito della trasgressione viene oramai modellato dagli esperti di marketing, capaci di offrire sia la regola sia la sua violazione. In un’epoca priva di limiti, la trasgressione si depotenzia e si mercifica, diviene un prodotto di serie da vendere in dosi tutte uguali per una specifica fetta di consumatori.

Nella “società della dipendenza”, come la ha definita Bernard Stiegler, il consumo è prescritto incessantemente e la dipendenza prodotta intenzionalmente, stimolando la dopamina. Lo scopo non è tanto produrre droga quanto piuttosto “gente che consuma” in perenne crisi di astinenza di piaceri compulsivi, secondo quella stessa “algebra del bisogno” con cui lo scrittore Burroughs descriveva la sua dipendenza dalla cocaina. L’insoddisfazione è necessaria al sistema per piazzare sempre nuovi desideri con tecniche sempre più persuasive, pervasive e occulte. Ma per vendere il desiderio occorre sterilizzare il sogno. Se nell’Ottocento i tradizionali ordini simbolici che avevano caratterizzato le società antiche reggevano ancora in parte, nel corso del secolo si sono progressivamente sgretolati fino al collasso odierno sotto l’azione congiunta del capitalismo dei consumi, delle innovazione tecnologiche, dei mass media e dei social. Non è più la letteratura, la musica e nemmeno la tv a modellare l’immaginario collettivo contemporaneo, ma la narrativa social, opportunamente telecomandata, che invade ogni aspetto della vita, intossicandola. I social sono esperimenti di costruzione allucinatoria della realtà, finalizzati alla programmazione tecnica della vita emotiva. “The pc is the Lsd ”, proclamava lo stesso Timothy Leary, il grande guru della psichedelia degli anni Sessanta. Gli stati di alterazione della coscienza ormai trascendono l’ambito chimico-farmacologico per estendersi a pratiche di condizionamento e dispositivi tecnologici di diversa natura.

Le nuove dipendenze riguardano l’abuso di Internet, dei social network, dei videogiochi. È il nuovo mercato della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il sistema del piacere del cervello, lo stesso che è alla base della compulsione del drogato. È una tossicomania invisibile, che non lascia tracce nel sociale, ma non per questo non miete vittime. Il virtuale è la nuova piazza per lo spaccio di sogni a buon mercato che narcotizzano ed eccitano al contempo. Stare sulla rete comporta uno scollegamento dalla vita vera, rapisce in una realtà parallela esattamente come accade a chi assume stupefacenti. Per raggiungere stati alterati di coscienza non c’è più bisogno di comprare droga scendendo nei bassifondi della città. La dose è sempre disponibile, a portata di click. La società è oggi tutta drogata. Individui isolati, disciplinarizzati e soggetti a potentissime sollecitazioni psicofisiche mediante dispositivi biotecnologici vagano nel web alla continua ricerca della dose quotidiana di eccitazione-sedazione controllata dall’alto. È un mondo cupo, oppressivo, ad alta densità tecnologica, dominato dalla ragione commerciale e dalle forze del mercato internazionale, dove nulla è più a dimensione umana. Le sostanze oggi non sono altro che emarginazione e degrado, eppure i ragazzi continuano a drogarsi e a morire nel deserto di valori di riferimento positivi.

L’orizzonte culturale che plasma la contemporaneità è il transumanesimo che prevede l’artificializzazione totale dell’uomo. L’uso massivo e normalizzato di sostanze e psicofarmaci è uno dei punti fondamentali del suo Manifesto. Caduta definitiva dai paradisi di Baudelaire agli inferni reali della distopia moderna. La dialettica fra l’elemento apollineo e quello dionisiaco, ovvero fra l’approccio logico e quello istintivo alla vita, che Nietzsche colloca agli albori della nostra civiltà, è andato perduto trasfigurandosi, da un lato, nell’assolutizzazione di un ordine congelante e, dall’altro, nel disordine mostruoso di un enorme buco nero. Parlare di droga oggi dovrebbe significare avere il coraggio di affrontare la questione senza più ipocrisie e ammettere quanto essa sia diventata uno strumento di politica globale. Il narcotraffico finanzia tutte quelle operazioni occulte che non devono risultare tracciabili come l’invio di armi, la corruzione, l’appoggio a lobby di pressione, ecc. Un compito affidato dagli USA alla CIA a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale. Per Washington, il business della droga è, da lungo tempo, un elemento strutturale di politica estera. La produzione di droga necessita però di consumatori. Ecco perché mentre, da un lato, si cerca di contrastare la tossicodipendenza, dall’altro, si è apparecchiato tutto un sistema che favorisce la distribuzione della droga e la diffusione dell’immaginario che la investe. Cercare di trovare soluzioni senza avere presente questo quadro significa guardare il dito mentre il saggio indica la luna.

Nei primi anni Novanta, l’Onu ha organizzato un convegno sul tema droga invitando alcuni esponenti del mondo della cultura. Il sociologo francese Jean Baudrillard si presenta proponendo come soluzione di fare della droga moneta di scambio universale, così non sarebbe più consumata. Divenuto astratto commutatore di merci, l’oggetto-droga avrebbe la stessa astrazione dell’oro, passerebbe dal valore di bene d’uso al valore di scambio e smetterebbe di essere consumata per essere unicamente scambiata. Propone, inoltre, di stoccarne qualche tonnellata come fondo internazionale di garanzia. Invece del Gold Exchange Standard avremmo il Narcotic Exchange Standard con cui sarebbe definitivamente sancito, e in modo trasparente, il connubio tra finanza e droga, banche e narcotraffico. E mentre la radio trasmette l’ultimo singolo dedicato alla droga di Sferaebbasta, su Wikipedia troviamo scritto alla voce “psichedelico”: “tende ad alterare qualitativamente lo stato di coscienza e la sfera senso-percettiva in maniera simile ad altri stati non ordinari di coscienza come meditazione, trance, ipnosi, sogno, near death experience, deprivazione sensoriale. La maggior parte degli studi dimostrano che gli psichedelici sono fisiologicamente sicuri e raramente portano alla dipendenza”.

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Sonia Milone 

 
Campagna di massacri su scala industriale PDF Stampa E-mail

15 Ottobre 2023

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 Da Comedonchisciotte del 13-10-2023 (N.d.d.)

Le sparatorie indiscriminate condotte da Hamas e altre organizzazioni di resistenza palestinesi contro civili israeliani, il rapimento di civili, le salve di razzi su Israele, gli attacchi con droni su diversi obiettivi, dai carri armati alle postazioni di fuoco automatizzate, sono il consueto linguaggio usato dall’occupante israeliano. Israele aveva usato con i palestinesi questo linguaggio di violenza intriso di sangue fin da quando le milizie sioniste avevano conquistato più del 78% del territorio che costituisce la Palestina stessa, distruggendo circa 530 villaggi e città, e uccidendo circa 15.000 palestinesi in più di 70 massacri. Tra il 1947 e il 1949, circa 750.000 palestinesi avevano subito un’operazione di pulizia etnica finalizzata alla creazione dello Stato di Israele, avvenuta nel 1948

La risposta di Israele a queste incursioni armate sarà un attacco genocida su Gaza. Per ogni israeliano caduto, Israele ucciderà dozzine di palestinesi. Centinaia di palestinesi hanno già perso la vita durante le incursioni aeree israeliane susseguitesi al lancio dell’“Operazione Al-Aqsa Flood” iniziata sabato mattina e che ha provocato la morte di 700 cittadini israeliani. Domenica il primo ministro Netanyahu ha intimato ai palestinesi residenti nella Striscia di Gaza di “andarsene immediatamente”, perché Israele “ridurrà in macerie tutti i rifugi in cui si nasconde Hamas”. Ma dove dovrebbero mai andare i palestinesi di Gaza? Sia Israele che l’Egitto hanno chiuso i confini terrestri. Non esiste alcuna via di uscita aerea né marittima, in quanto tutto è sotto il controllo di Israele.

La punizione collettiva di persone innocenti è una tattica usualmente impiegata dai regimi coloniali. Era stata attuata contro i nativi americani e poi nelle Filippine e in Vietnam. I tedeschi si erano comportati allo stesso modo in Namibia con gli Herero e i Namaqua. Gli inglesi in Kenya e Malesia, i nazisti nelle aree occupate dell’Unione Sovietica, nell’Europa centrale e orientale. Israele segue lo stesso schema. Morte per morte. Atrocità per atrocità. Ma è sempre l’occupante che dà inizio a questa macabra danza, ricambiando poi i mucchi di cadaveri con mucchi di cadaveri ancora più alti. Non è questione di giustificare i crimini di guerra di nessuna delle due fazioni, né di provare gioia per gli attentati. Ho visto una tale quantità di violenza nei territori occupati da Israele, dove ho seguito il conflitto per sette anni, da detestarla. Ma questo è il consueto epilogo di tutti i progetti coloniali. I regimi che fanno leva e insistono sull’uso della violenza generano violenza. Si pensi alla guerra per la liberazione di Haiti, ai Mau Mau in Kenya, all’African National Congress in Sud Africa. Queste rivolte non sempre vanno a buon fine ma seguono uno schema ricorrente. In ogni caso, a norma del diritto internazionale, i palestinesi hanno il diritto di ricorrere alla resistenza armata, come qualsiasi popolo colonizzato.

Israele non ha mai mostrato alcun interesse a giungere ad un’intesa equa con i palestinesi. Ha costruito uno stato di apartheid, ha progressivamente annesso zone sempre più estese di territorio palestinese e ha attuato una lenta campagna di pulizia etnica, poi, nel 2007, ha trasformato Gaza nella più grande prigione a cielo aperto del mondo. E cosa mai si aspettano Israele e la comunità mondiale? Come è possibile intrappolare 2,3 milioni di persone a Gaza, metà delle quali disoccupate, in una delle zone più densamente popolate del pianeta per 16 anni, ridurre la vita dei suoi residenti, metà dei quali sono bambini, ad un livello di sussistenza, privarli delle cure mediche di base, cibo, acqua ed elettricità, utilizzare cacciabombardieri, artiglieria, unità meccanizzate, missili, cannoni navali e unità di fanteria per massacrare a caso civili disarmati, senza aspettarsi una reazione violenta? In queste ore Israele sta effettuando ondate di attacchi aerei su Gaza, pianificando un’invasione di terra e ha tagliato l’elettricità, che solitamente viene erogata solo da due a quattro ore al giorno. Molti dei combattenti della resistenza infiltratisi in Israele sapevano certamente che sarebbero stati uccisi. Ma, come i combattenti della resistenza in altre guerre di liberazione, hanno deciso che, se non potevano scegliere come vivere, avrebbero scelto come morire.

Sono stato intimo amico di Alina Margolis-Edelman che aveva preso parte alla resistenza armata nella rivolta del ghetto di Varsavia durante la Seconda Guerra Mondiale. Suo marito, Marek Edelman, era il vice comandante della rivolta e l’unico leader sopravvissuto alla guerra. I nazisti avevano segregato 400.000 ebrei polacchi nel ghetto di Varsavia. Gli ebrei intrappolati morivano a migliaia di fame, malattie e violenza indiscriminata. Quando i nazisti avevano iniziato a deportare gli ebrei rimasti nei campi di sterminio, i combattenti della resistenza avevano reagito. Nessuno aveva la ragionevole speranza che sarebbe sopravvissuto. Edelman, dopo la guerra, aveva condannato il Sionismo come ideologia razzista utilizzata per giustificare il furto della terra palestinese. Si era schierato dalla parte dei palestinesi, aveva sostenuto la loro resistenza armata e si era incontrato spesso con i leader palestinesi. Aveva anche tuonato contro l’appropriazione dell’Olocausto da parte di Israele come giustificazione della repressione del popolo palestinese. Così, Israele, mentre si nutriva della mitologia della rivolta del ghetto, trattava come un paria l’unico leader della rivolta sopravvissuto, che si era sempre rifiutato di lasciare la Polonia. Edelman sapeva che la lezione dell’Olocausto e della rivolta del ghetto non consisteva certo nel fatto che gli ebrei fossero moralmente superiori o eterne vittime. La storia, diceva Edelman, appartiene a tutti. Gli oppressi, compresi i palestinesi, avevano il diritto di lottare per l’uguaglianza, la dignità e la libertà.

“Essere ebreo significa stare sempre dalla parte degli oppressi e mai con gli oppressori” aveva detto Marek Edelman. L’insurrezione di Varsavia ha sempre ispirato i palestinesi. I rappresentanti dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) erano soliti deporre una corona di fiori in occasione della commemorazione annuale della rivolta in Polonia, presso il monumento del Ghetto di Varsavia. Più il colonizzatore fa uso della violenza per sottomettere gli occupati, più si trasforma in un mostro. L’attuale governo di Israele è composto da estremisti ebrei, fanatici sionisti e bigotti religiosi che stanno smantellando la democrazia israeliana e che chiedono la totale espulsione o addirittura l’uccisione dei palestinesi, compresi quelli che vivono in Israele. Il filosofo israeliano Yeshayahu Leibowitz, che Isiah Berlin aveva definito “la coscienza di Israele”, aveva avvertito che, se Israele non avesse separato Chiesa e Stato, avrebbe dato origine ad un rabbinato corrotto che avrebbe trasformato l’ebraismo in un culto fascista. “Il nazionalismo religioso sta alla religione come il nazionalsocialismo sta al socialismo”, aveva affermato Leibowitz, morto nel 1994. Aveva compreso che la cieca venerazione dell’esercito, soprattutto dopo la guerra del 1967 e la successiva conquista del Sinai egiziano, di Gaza, della Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est) e delle alture del Golan in Siria, era pericolosa e avrebbe portato alla distruzione definitiva di Israele, insieme a qualsiasi speranza di democrazia. Suo è il monito: “La nostra situazione peggiorerà fino a diventare quella di un secondo Vietnam, una guerra in costante escalation senza prospettiva di una soluzione definitiva”. Aveva previsto che “gli arabi avrebbero costituito il proletariato e gli ebrei sarebbero stati gli amministratori, gli ispettori, i funzionari e i poliziotti – soprattutto la polizia segreta. Uno stato che governa una popolazione ostile composta da 1,5 a 2 milioni di stranieri non può che diventare uno stato di polizia, con tutto ciò che ciò implica per l’istruzione, la libertà di parola e le istituzioni democratiche. La corruzione caratteristica di ogni regime coloniale avrebbe prevalso anche nello Stato di Israele. L’amministrazione avrebbe dovuto da un lato reprimere l’insurrezione araba e dall’altro fare incetta di collaborazionisti arabi. Vi sono anche buone ragioni per temere che le Forze di difesa israeliane, che finora sono state un esercito popolare, degenerino, trasformandosi in esercito di occupazione, e che i suoi comandanti, che diventeranno governatori militari, assomiglino ai loro colleghi di altri regimi”. Aveva anche previsto che l’occupazione prolungata dei territori palestinesi avrebbe inevitabilmente generato “campi di concentramento”. “Israele”, aveva detto, “non meriterebbe di esistere, e non sarebbe il caso di preservarlo”.

La prossima fase di questa lotta sarà una enorme campagna di massacri su scala industriale a Gaza da parte di Israele, che è già iniziata. Israele è convinto che maggiori livelli di violenza finiranno per schiacciare le ambizioni dei palestinesi. Israele si sbaglia. Il terrore che Israele infligge è lo stesso terrore che otterrà in cambio.

Chris Hedges (Tradotto da Samuele)

 
I media si preparano a coprire il genocidio PDF Stampa E-mail

14 Ottobre 2023

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 Da Comedonchisciotte del 12-10-2023 (N.d.d.)

1. Tutti, a scuola, qui in Occidente, abbiamo studiato la rivolta ebraica nel ghetto di Varsavia del 16 aprile – 16 maggio 1943. Come noto, dopo le invasioni nazista e sovietica del settembre 1939, la Polonia, e conseguentemente la comunità ebraica residente (ridotta dall’emigrazione a circa 2,5-2,7 milioni di persone, contro i 3,1 milioni del censimento polacco del 1931) furono spartite tra Germania e URSS. Molti Ebrei si trovarono o scapparono nell’area della Polonia divenuta sovietica. Nell’area occupata dai nazisti, gli Ebrei vennero rinchiusi e concentrati nell’entità denominata Governatorato Generale – nella visione dei nazisti, l’erede del Pale of Settlement zarista durato 126 anni, fino al 1917 – ed in una serie di ghetti cittadini, tra i quali quello di Varsavia, inizialmente popolato da almeno 350.000 Ebrei, fu il più grande. La vita nei ghetti ebraici non aveva nulla di normale: le autorità naziste controllavano rigidamente l’entrata e l’uscita delle persone, degli alimenti e dei prodotti di rilevanza bellica (armi, carburante, cemento, vernici, sostanze chimiche, medicinali, etc.), avvalendosi della collaborazione forzata delle autorità ebraiche (Judenrat). Il risultato di tale “politica” nazista fu povertà, fame e epidemie (tifo, tbc, etc.), di molto oltre i livelli provocati dalla guerra nei territori polacchi occupati. Da diversi documenti storici, emerge che le condizioni disumane della vita nei ghetti ebraici sconvolsero genuinamente anche diversi osservatori e visitatori nazisti: ma invece di imputarle direttamente alla politica criminale nazista, con suprema ipocrisia razzista gli osservatori nazisti le spiegarono quasi sempre come prova e risultato dell’evidente inferiorità razziale ebraica!!! Dal 16 aprile al 16 maggio 1943 il ghetto di Varsavia insorse contro l’occupazione nazista, ed il risultato fu l’uccisione di circa 7.000 Ebrei e, nei mesi successivi, la deportazione nei notori campi di Madjanek e Treblinka dei restanti circa 40-50.000 Ebrei. Dal lato nazista, le perdite furono solo di qualche centinaio di militari.

2. La striscia di Gaza è popolata da oltre 2 milioni di Palestinesi, accatastati in soli 365 km quadrati, ossia la terza area più densamente popolata del mondo: una prigione a cielo aperto. Le condizioni di vita a Gaza sono letteralmente miserabili da diversi decenni. Le autorità israeliane, infatti, controllano rigidamente l’entrata e l’uscita delle persone, degli alimenti e dei prodotti di rilevanza bellica (armi, carburante, cemento, vernici, sostanze chimiche, medicinali, etc.); ogni tanto interrompono perfino la fornitura di energia elettrica. Il risultato di tale “politica” israeliana è la povertà di massa, di molto oltre i livelli di povertà nelle altre aree vicine palestinesi o arabe. Ed ovviamente tale povertà impressiona anche diversi osservatori israeliani e occidentali: ma invece di imputarla alla politica israeliana, con suprema ipocrisia viene spiegata come prova o risultato dell’inferiorità della cultura palestinese, ed in ultima istanza dell’intera cultura islamica. Qualche giorno fa a Gaza è inevitabilmente esplosa l’ennesima rivolta armata. Incredibile, ma vero: nei media occidentali c’è chi si domanda “come mai” e “perché”!

Come rischia di finire la rivolta? La previsione è purtroppo molto facile: con l’assedio di 2 milioni di persone, la fuga in Egitto di decine di migliaia di disgraziati, e decine di migliaia di rivoltosi e di civili Palestinesi sterminati, contro alcune migliaia di militari e civili Israeliani. Si profila – tanto per capirci – un massacro indiscriminato simile a quello nel ghetto di Varsavia del maggio 1943, o simile a quello perpetrato da USA e GB nella seconda aggressione all’ Iraq (700.000 civili morti), ormai dimenticato. E la responsabilità del massacro verrà interamente addossata dai media occidentali ai Palestinesi e, in ultima istanza, al mondo islamico. Così il mondo islamico – oltre un miliardo di persone, ma evidentemente non bastano per ottenere rispetto – continuerà a domandarsi per quale ragione, mentre i rivoltosi del ghetto di Varsavia sono celebrati come eroi dalla storiografia occidentale degli ultimi 80 anni, i rivoltosi di Gaza (Olp, Hamas, etc.) sarebbero sempre e comunque solo “sporchi terroristi islamici”. Ed a domandarsi perché in Occidente si farfuglia di una nuova Norimberga per Vladimir Putin, ma mai per George Bush e Tony Blair…

Grazie a Israele ed alla sua politica di apartheid e segregazione si profila, quindi, una ulteriore, profonda frattura nelle relazioni tra mondo occidentale e mondo islamico: la rivolta di Gaza rappresenta infatti la lapide tombale di qualunque residua, remota speranza di uno Stato palestinese. È un’ altra profonda ferita che si aggiunge alle altre degli ultimi decenni, dal terrorismo di Al Qaeda all’invasione dell’ Afghanistan, la seconda invasione dell’ Iraq e la guerra alla Libia: nessuna persona sensata ne avvertiva il bisogno. I mass media occidentali si preparano a coprire e giustificare lo sterminio di migliaia di Palestinesi

3. Bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Purtroppo a Washington e New York la lobby NeoGlobal che controllava la Presidenza Obama e che ora controlla la Presidenza Biden (nonché, ormai, anche la Commissione UE e la BCE) ha deciso che l’Occidente può permettersi sia di condurre una guerra contro la Russia, sia di confrontare aggressivamente la Cina, sia di inasprire ulteriormente le relazioni con il mondo islamico. E noi qui in Italia e in Europa, ormai da circa 15 anni, e precisamente dall’ ignobile guerra che ha distrutto la Libia, passando per il golpe in Ucraina del 2014, tutti zitti: non fiata quasi nessuno, ormai chi “comanda” è a tutti gli effetti la signora Ursula Albrecht Von der Leyen, nella sua mera e quanto mai meschina qualità di terminale vivente finale degli ordini provenienti da Washington e New York. Lo stupidimento collettivo indotto dai mass media occidentali è ormai evidente: il famoso modello democratico occidentale è ormai un malato in fase terminale: in Europa votiamo liberamente, ma per Governi nazionali che non conservano nemmeno il 30% dei poteri pre trattato di Maastricht e pre adozione dell’ Euro: chi governa è la Commissione UE, eletta da nessuno e responsabile verso nessuno. Negli USA, il candidato sostenuto da almeno il 45% dell’elettorato, Donald Trump, è stato colpito da 91 imputazioni, una più ridicola dell’altra, ed a rischio perfino di estromissione ed esproprio delle sue proprietà a New York. In tale contesto, è evidente che Israele potrà senza dubbio alcuno continuare la sua politica di apartheid e segregazione, e a fare esattamente tutto quello che vuole, incluso assediare 2 milioni di persone e sterminare migliaia di Palestinesi. Chi non è d’accordo, per i media occidentali è semplicemente – indovinate un po’ – un antisemita. Il ricatto morale dell’accusa infamante e gratuita di antisemitismo, purtroppo, continua a funzionare egregiamente. Uno finisce inevitabilmente per domandarsi se non sia, invece, un alibi.

Belisario

 
Cambierą tutto PDF Stampa E-mail

13 Ottobre 2023

 Da Comedonchisciotte dell’11-10-2023 (N.d.d.)

Della cosiddetta ‘rivoluzione digitale’ c’è un tratto che stupisce; mi riferisco a quella bonaria accettazione e/o rassegnazione con cui si affrontano i cambiamenti in atto. “Cambierà tutto” è la frase detta e ridetta; da alcuni con soddisfazione e certezza, da altri vissuta con rassegnazione, come un evento necessario al pari di un tramonto. La marcia inarrestabile della digitalizzazione è infatti paragonata a un fenomeno naturale, un terremoto per cui puoi predisporre alcuni accorgimenti sapendo che però non puoi fermarlo.

Molti sono contrari per i motivi più vari. Dalla scuola pubblica post-pandemica avviata al ‘Metaverso’ che sta allarmando trasversalmente genitori, insegnanti ed educatori vari, alla salvaguardia di un accesso ai servizi senza passare obbligatoriamente per lo Spid; dalla battaglia contro l’accumulazione di dati personali senza il nostro consenso, e quindi di conseguenza per una privacy effettiva, al piacere di interfacciarsi con un essere umano quando si tenta di comunicare con qualsiasi ente o azienda (detto fra le righe: i centralini automatici nell’ultimo periodo hanno fatto un salto di qualità non indifferente, non risolvono nulla come prima ma hanno delle voci meno meccaniche e se ti incazzi, perché alla fine t’incazzi, capiscono!); fino alle analisi di più ampio respiro che cercano di allertare le persone sulla pericolosità delle armi a guida autonoma o sullo strapotere che poche aziende – le GAFAM americane – esercitano nella vita politica di tutti i Paesi occidentali. Un mondo, insomma, che prende consapevolezza giorno dopo giorno dei problemi che comporta la digitalizzazione.

Come sapete, quanto appena descritto è un campo di battaglia estremamente importante. E visto che per un mondo che prende consapevolezza ce n’è un altro molto più vasto popolato di felici dormienti, spero in questo ed altri articoli di individuare alcuni aspetti cardine dei discorsi apologetici sulla digitalizzazione, nella speranza di offrire un punto di vista valido per provare a destarli dal sonno della ragione. A tal proposito, è necessaria una premessa: non voglio discutere sull’utilizzo delle tecnologie digitali ma del ruolo che hanno nello strutturare rapporti di potere su un piano molto differente rispetto a quello che dovremmo aspettarci in società democratiche. La questione non è l’utilizzo di un pc o di uno smartphone, ma il fatto che i problemi politici, da qualche tempo a questa parte, non vengono più visti come problemi collettivi che hanno delle cause nella società, ma come problemi individuali che richiedono interventi preventivi e che possono essere risolti esclusivamente a livello individuale, curando gli effetti e non le cause. E le tecnologie digitali offrono uno spettacolare strumento a questo tipo di approccio, come abbiamo visto durante la pandemia che è stata affrontata essenzialmente con politiche liberticide improntate esclusivamente alla prevenzione dal contagio piuttosto che alle cure, con risultati assolutamente indecenti.

Allora, quale motivazione può esserci alla base di un sostegno tacito e trentennale all’invasione e all’implementazione di queste tecnologie nella vita quotidiana ma soprattutto nella sfera politica dei cittadini? Per i rassegnati è semplice capirlo: non c’è alternativa al sorgere del sole e all’identità digitale. Ma i soddisfatti? Loro davvero non si rendono conto? C’è chi ci guadagna – chi diventa più ricco, chi più potente, chi entrambe le cose – e questo è sicuro. Eppure esiste in molti un tacito accordo sul fatto che queste tecnologie e le loro mirabolanti applicazioni rappresentino un futuro migliore. Prendiamo il Bitcoin come esempio. Questa ‘nuova moneta’ non viene vissuta come una speculazione finanziaria in assenza di responsabilità, ma come manifestazione ideologica; la promessa di una società senza Stato, che si autogoverna e in contemporanea assicura crescita economica e progresso tecnologico. Nel racconto ideologico e nelle pratiche di marketing queste tecnologie svolgono la funzione di una ‘promessa di futuro’: sono l’America dei nostri tempi, in cui non essendoci più una terra vergine dove migrare per iniziare qualcosa di nuovo, la novità è stata spostata in nuova terra, quella ‘virtuale’. Queste speranze di rinnovamento hanno come sostegno ideologico tutte le armi del progressismo. Così, per chi crede nelle potenzialità del digitale e alle sue applicazioni in campo politico o del diritto, bisogna essere disposti al rinnovamento e quando quest’ultimo non è proprio benefico bisogna essere ‘resilienti’. Vanno aggredite tutte le istituzioni tramandate, usi e costumi che diventano nel gergo progressista pregiudizi. La critica al digitale diventa una critica alla modernità stessa. In queste manifestazioni ideologiche legate al digitale, quest’ultimo non viene messo in relazione con l’economia o con la società del nostro tempo, con i suoi problemi e le sue battaglie. Questa separazione è rivolta a mascherare gli interessi enormi che prolificano nei mercati dei dati e dell’informazione, ed anzi la questione si aggrava quando il cambiamento politico viene collegato ad un’innovazione tecnica piuttosto che alla partecipazione dei cittadini organizzati ad azioni collettive. Il caso più micidiale è stato quello del Movimento 5 Stelle e la connessa celebrazione del web come strumento liberatorio.

C’è però una contraddizione tra quel “Cambierà tutto” e la realtà dei fatti. L’implementazione di queste tecnologie non è, nella maggior parte dei casi, contro i poteri del nostro tempo. Svolge anzi una funzione di stabilizzazione e conservazione, come sottolineato dal sociologo e politologo Evgeny Morozov. Chi celebra il web o la net economy dovrebbe spiegarci per quale motivo per salvare la libertà di internet siamo costretti a fare a meno della libertà di espressione, che viene messa in discussione su internet come se esistesse un luogo in cui le leggi non valgono o possono non valere. Solo separando il web dalla realtà, parlando di virtuale e di digitale, questo è possibile. A guidare questo processo è un’oligarchia, oggi telematica, che vede nella società una serie di manopole e rotelle da modificare a seconda del caso. Può cambiare lo strumento con cui vengono trasmessi gli ordini, chi li trasmette no.

Giacomo Bellucci 

 
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