25 Novembre 2023 Non incolpate il passato dei mali del presente Da Rassegna di Arianna del 22-11-2023 (N.d.d.) A vedere, leggere e ascoltare le furenti reazioni, i rabbiosi riti accusatori, la perdita assoluta di lucidità e l’esplosione di odio che ha innescato la barbara uccisione di Giulia, hai l’impressione di un contagio barbarico. L’odio si rivolge contro il maschio in generale, si accentua verso il maschio che non si vergogna di essere tale, quindi esplode contro chi non si riconosce nella lettura tardofemminista, radicale, progressista e maniacale che viene imposta senza possibilità di ragionare. Avevo osato twittare respingendo la chiave “patriarcale” dei delitti: sono stato aggredito da uno sciame di imbecilli incancreniti, tra insulti e invettive, e con l’accusa di sostenere l’assassino, a cui avrei voluto fornire alibi assolutori e attenuanti culturali. Proviamo a non scomporci, a non seguire i vaniloqui di chi ci accusa di sproloqui, e a ragionare, sapendo di non avere in mano nessun monopolio di verità e nessuna presunzione di certezza. Dunque, volete attribuire al mondo passato e a volte trapassato, i mali evidenti di oggi, nati in seno alla decomposizione della società presente. E volete attribuire alla famiglia, naturale e tradizionale, gli effetti barbarici che risalgono piuttosto alla sua dissoluzione nel presente. Perfino il gesto criminale di un ragazzo di 22 anni che non è figlio della società patriarcale, non l’ha vissuta, ma è figlio del nostro tempo, come voi ripetete in ogni altra analisi, viene ricondotto alla società patriarcale. Non sono i morti che uccidono i vivi. Voi usate sempre le etichette del passato per spiegare le infamie e le barbarie del presente: si veda l’uso improprio e anacronistico dell’epiteto di fascisti o nazisti applicato a movimenti, ideologie, gruppi terroristici e atti barbari che hanno tutt’altra genesi e appartengono alla nostra epoca. Da dove nascono i femminicidi e le violenze del nostro tempo? Le storie divergono, le cause sono molteplici, ma la matrice prevalente non è la società patriarcale, semmai la società egoista ed egocentrica, individualista e narcisista del presente; la società dei diritti concepiti come desideri illimitati, senza doveri, in cui quel che conta è ciò che io voglio, non si accettano dinieghi e limiti. I femminicidi non nascono dalla forza del machismo e del maschilismo ma sono una reazione isterica alla propria debolezza e inettitudine. Nella gran parte dei casi, il femminicida (espressione che aborro e uso solo per farmi capire) reagisce a una donna che lo ha lasciato, che non vuole più stare con lui; la follia barbara della reazione criminale mostra la dipendenza, l’incapacità di vivere senza di lei, sentirsi annullati e perduti. È un egocentrismo malato, puerile e degradato, che a volte si accanisce anche sui propri figli e spesso si conclude contro se stessi; se mi abbandoni, muoia Sansone con tutti i filistei. Una patologia dell’amore come unicità, insostituibilità della persona amata; invece la vita continua, nel mondo ci sono altri e c’è altro. Dietro il delitto c’è tutta la fragilità, l’insicurezza, la psicolabilità, il narcisismo malato e ferito di oggi. La traccia più virulenta della mentalità patriarcale è tra i migranti di religione islamica e c’è una parola precisa a indicarla, che molti non vogliono riconoscere: sottomissione. La donna dev’essere sottomessa; Saman viene uccisa perché non si è sottomessa ai dettami della famiglia. Quella è la società islamica patriarcale. Ma il femminicidio, che è più diffuso nelle popolazioni del nord Europa rispetto ai popoli latini, e in Italia è più diffuso tra le giovani generazioni, appartiene alla nostra società di famiglie disfatte, di solitudini ringhiose e autocentrate, che negano ogni senso morale e religioso, incapaci di sacrificarsi o di accettare i propri limiti, gli altrui rifiuti, il proprio destino…Il contrario dell’orizzonte di valori della società patriarcale. Che è impraticabile nel presente, ma non era solo quell’orrore di cui si dice: la memoria delle nostre famiglie originarie può confermare quanta dedizione, spirito di sacrificio, gioia della vita insieme, reciproca cura vi fosse. Per un pater familias orco c’erano cento genitori che davano l’anima per la famiglia e per ciascun suo componente. Ma è un altro mondo, irripetibile, nel bene e nel male, ne convengo; per la stessa ragione, non potete attribuire a un modello sepolto le miserie feroci dell’oggi. Questa chiave di lettura, che propongo senza alcuna arroganza, sapendo di poter sbagliare, non nasconde alcuna indulgenza verso chi compie questi crimini. Spiegare diversamente il crimine non significa giustificarlo, non comporta alcuna attenuante; non cambia la pena, per lui e per noi. Semmai il patriarcato o l’indole maschile possono diventare alibi per attenuare le responsabilità personali di un gesto criminale come quello, attribuendole a un fatto sociale o un vizio congenito, naturale. Se poi i maschi sono in ogni caso figli della società patriarcale anche se non l’hanno vissuta, allora il problema che ponete è genetico, è connaturato ai maschi; allora che si fa, castrazione chimica, lobotomia psichica, analisi forzate di massa? Più seria è invece l’obiezione di chi nota: come mai sono rari i maschicidi, perché le donne non uccidono come i maschi? Potremmo dire che sono diventate più resistenti, più sicure dei maschi, sanno vivere con più indipendenza, mentre i maschi patiscono gli effetti perversi del mammismo e della mammocrazia (variante moderna della società matriarcale). Dietro quella disparità di reazioni c’è la decadenza maschile e l’ascesa femminile. D’altra parte non vi rendete conto che più gridate questi slogan e queste ricette, sorretti da quell’impianto ideologico contro la famiglia patriarcale, e più si diffondono comportamenti violenti e casi di femminicidi? Come intendete rimediare, con i campi di rieducazione sul modello della rivoluzione culturale cinese? Innalzando barriere di sospetto tra maschi e femmine, suggerendo che i maschi devono andare con i maschi e le femmine con le femmine? E se provaste a dubitare dei vostri anatemi e delle vostre ricette? Marcello Veneziani
|
|
24 Novembre 2023 Da Rassegna di Arianna del 22-11-2023 (N.d.d.) Ci sono temi più importanti e preferirei tacere su tutto il circo che è partito dalla vicenda dell'ultimo omicidio volontario di una donna. Preferirei tacere anche per preservare la salute psichica, perché ogni qual volta ci si scontra con il muro ideologico costruito dai media correnti la frustrazione è inevitabile. Ma alla luce del fatto che il ministro Valditara sta davvero prendendo sul serio le fiabe ideologiche correnti, una parola mi sembra necessaria. Speravo in uno scherzo, ma leggo che il ministro dell'istruzione, in una pregevole armonia di intenti con l'opposizione, sta davvero proponendo un'ora a settimana di “educazione alle relazioni” nella scuola secondaria. Non solo, la proposta prevede anche l'intervento in queste ore di educazione sentimentale di "influencer, cantanti e attori per ridurre le distanze con i giovani e coinvolgerli". Forse fraintendiamo l'intervento del ministro, che probabilmente ha il solo scopo di incrementare l'afflusso alle scuole private. Come spiegare altrimenti questa ulteriore accentuazione della tendenza della scuola pubblica a diventare un interminabile catechismo dell'ovvio, che ripete in bianco e nero gli stessi contenuti che si ritrovano, a colori, su una rivista media da parrucchiere? Tra ramanzine moralistiche, alternanze scuola-lavoro e consulti psicologici gli spazi per insegnare qualcosa di sostanziale nella scuola pubblica si stanno riducendo a feritoie. Ma purtroppo questo è solo piccola parte del problema. Il problema più grosso è che l'interpretazione ufficiale degli eventi delittuosi aventi per oggetto donne ha subito da tempo un sequestro ideologico. Esiste una singola lettura che anche persone intelligenti e al di sopra di ogni sospetto ripetono pappagallescamente, come se fosse una sorta di verità acclarata. E questa lettura non è semplicemente sbagliata, che sarebbe il meno, ma è proprio socialmente dannosa, anzi dannosa per le stesse dinamiche che si immagina di voler correggere. Provo a spiegarmi in breve. La lettura d'ordinanza di questi eventi delittuosi è la seguente. Si tratterebbe di espressioni di un'atavica, arcaica (patriarcale), concezione subordinante della donna che la concepisce come una proprietà, un oggetto a disposizione, e che perciò non ne accetta l'indipendenza e la punisce con la violenza e persino con la morte. Dunque, dissimulato sotto la superficie di un mondo moderno e formalmente egalitario serpeggerebbe ancora questo "residuo patriarcale", tenace e ostico da sconfiggere, che richiede perciò una rieducazione della popolazione - e della popolazione maschile in ispecie. Ora, io credo che questa lettura delle violenze e degli omicidi spesso per futili motivi che oggi riscontriamo, tra cui anche quelli che hanno per oggetto donne, non c'entri assolutamente nulla con alcuna presunta "cultura patriarcale". E credo che le ricette che vengono proposte, lungi dall'essere risolutive, possano soltanto aggravare il problema. Perché mai? Partiamo da un po' di pulizia terminologica e mentale. Tutti si riempiono la bocca di "patriarcato" senza avere per lo più alcuna idea di ciò di cui si tratta. Ora, l'unico senso antropologicamente accettabile della nozione di "patriarcato" (che non va confuso con la patrilinearità della discendenza) è il modello sociale diffuso un tempo in molte civiltà dedite all'agricoltura o alla pastorizia, dove l'ultima autorità cui ricorrere per i dissidi interni e per i rapporti verso l'esterno era rappresentato dal maschio più anziano del gruppo (patriarca). Queste strutture sociali erano (e in alcune parti del mondo ancora sono) caratterizzate da una sostanziale assenza delle legislazione pubblica, da forti nessi comunitari all'interno di famiglie estese connesse, che dovevano risolvere molte questioni oggi risolte dalla giustizia ordinaria. Gli ordinamenti patriarcali sono tipicamente preindustriali e definiti da ordinamenti famigliari estremamente solidi e vincolanti. La prima domanda che dovrebbe venire in mente è: cosa diavolo c'entra questa forma sociale con il mondo occidentale odierno? Ovviamente non c'entra assolutamente nulla, ma questa impostazione del problema nasce negli anni '70, in cui l'idea che ci fossero ancora residui patriarcali da abbattere era il principale oggetto polemico del second-wave feminism. Oggi, mezzo secolo dopo, stiamo ancora qua a berci un'interpretazione che era tirata per i capelli allora e che oggi è letteralmente fluttuante nel vuoto. A questo punto c'è sempre qualcuno che se ne viene fuori dicendo che sono questioni filologiche, di lana caprina, che se non va bene il termine patriarcato chiamiamolo maschilismo che va bene uguale. Solo che il problema non è meramente terminologico, ma è legato a quale si ritiene essere la radice causale di violenze e assassini odierni. Se si evoca il "patriarcato" o simili si evoca l'immagine di un residuo ostico del passato che stentiamo ancora a lasciarci dietro le spalle. Dunque per superarlo dovremmo procedere ulteriormente con l'abbattimento di qualunque simile residuo del passato: bando al familismo, bando all'autorità paterna, bando al normativismo, sempre in odore di autoritarismo, ecc. Ora, prima di esporre quella che credo essere un'interpretazione più plausibile, provo a sottoporre all'attenzione qualche fatto empirico. Se il problema delle violenze si radica nei residui patriarcali in una qualche versione, allora i paesi che hanno società maggiormente modernizzate, con minori vincoli famigliari e con una posizione di maggiore indipendenza delle donne dovrebbero essere esenti da questo problema, o almeno presentarlo in misura molto minore. Ma è davvero così? Curiosamente ciò che si profila è esattamente l'opposto. Se guardiamo alle violenze domestiche vediamo che (dati di un paio di anni fa) i primi paesi per denunce di violenza subita dalle donne sono quattro paesi proverbialmente emancipati: Danimarca (52% delle donne lamentano di aver subito violenza), Finlandia (47%), Svezia (46%), Olanda (45%), in coda classifica in Europa troviamo la Polonia (16%). Naturalmente qui c'è la replica pronta: si tratterebbe di un mero effetto statistico, dovuto al fatto che in quei paesi, proprio grazie alla maggiore emancipazione, le donne denunciano di più. Può darsi. Allora per tagliare la testa al toro andiamo a vedere la categoria degli omicidi volontari di donne (cosiddetti "femminicidi"), che registra eventi non soggetti a filtri interpretativi. Qui, secondo i dati Eurostat aggiornati al 2019, il profilo appare leggermente diverso, ma non troppo. In testa in questa macabra classifica stanno costantemente i paesi baltici (Lettonia, Lituania, Estonia), insieme a Malta e Cipro, con Finlandia, Danimarca, e Norvegia poco sotto e Svezia a metà classifica. All'estremo opposto, costantemente agli ultimi tre posti troviamo Italia, Grecia e Irlanda, che si scambiano solo di posto di anno in anno. Per un confronto numerico, l'Italia presenta un dato di 0,36 "femminicidi" ogni 100.000 abitanti, la Norvegia 0,61, la Germania 0,66, la Francia 0,82,la Danimarca 0,91, la Finlandia 0,93, la Lituania 1,24. Ora, cosa hanno in comune Italia, Irlanda, Grecia? Non molto, salvo il fatto di essere tutte società con un ruolo tradizionalmente molto forte delle famiglie, società di cui spesso si è lamentata la limitata modernizzazione, anche per il peso significativo delle istituzioni religiose. Cosa hanno in comune gran parte dei paesi del Nord e in parte dell'Est Europa? Sono società che hanno subito processi estremamente accelerati di modernizzazione, con laicizzazione forzosa, e frantumazione (riconosciuta al loro stesso interno) delle unità famigliari. Ecco, una volta messi giù questi dati, per quanto sommari, io credo che un'interpretazione molto più sensata delle eventuali radici culturali della violenza e dell'omicidio per futili motivi di donne sia rintracciabile nell'esatto opposto del "patriarcato". Lungi dall'aver a che fare con ordinamenti famigliari estesi, vincolanti, con elevata normatività, tipici del patriarcato, ci troviamo di fronte a contesti dove le forme famigliari sono dissolte o in via di dissoluzione, dove i giovani crescono educati più da tik-tok e dai video trap che dalle famiglie, società dove peraltro da tempo la figura del padre latita ed è spesso definita dagli psicologi come effimera. In questi contesti, "modernizzati ed emancipati" si allevano in maggior misura identità fragili, disorientate, che si sentono costantemente sopraffatte dalle circostanze, e che perciò, occasionalmente, possono più facilmente ricorrere alla violenza, che è il tipico modo di reagire a situazioni di sofferenza che non si è in grado di comprendere né affrontare. Molti altri aspetti andrebbero approfonditi, ma se, come io credo, questa è una lettura assai più probabile dei fatti, le strategie che stiamo adottando per affrontare il problema vanno precisamente nella direzione dell'ennesimo aggravio dei problemi. Questo in attesa delle lezioni di educazione sentimentale di Sfera Ebbasta. Andrea Zhok
|
|
23 Novembre 2023 Da Rassegna di Arianna del 13-11-2023 (N.d.d.) Da questa guerra in Medioriente emergerà un cambiamento culturale di dimensioni gigantesche. Saranno le tre religioni Abramitiche ad essere scosse dalle fondamenta, l'intero testo biblico a tremare. Sta emergendo come questo supporti una concezione del sangue e della terra che ci riporta a un mondo tribale. Vi è un Dio che fa dono di una terra a un popolo che si trasmette questo diritto per via di sangue. Una concezione di un razzismo aberrante, che genera un fanatismo tribale arcaico. Un razzismo che sopravvive anche dopo la fine della religione e dopo la morte di Dio. Molti ebrei e israeliani sono atei, ma continuano a costruire la propria identità attraverso la trasmissione genetica. L'identità è il sangue di Abramo, che trasmette il senso di appartenenza, il senso di una promessa. Una promessa legata al sangue, da cui discende un diritto sulla terra, su un fazzoletto di terra. E questo invade la politica, generando cortocircuiti della cui aberrazione non ci accorgiamo perché ci siamo assuefatti a tutto. Così Blinken può andare in Israele e dire di essere lì come "etnicamente" ebreo. Tutti zitti. Eppure è l'idea di razza che viene così riportata in auge, fatta circolare. L'idea di etnia. Che poi si propaga, contagia tutti, e tutti allora a difendere la propria etnia. Il principio della guerra. Pensiamo se qualcuno parlasse come etnicamente italiano. Oppure come etnicamente tedesco. Si alzerebbero alti lai. Di fatto abbiamo tutti ironizzato quando qualche politico italiano un po' sprovveduto lo ha fatto. Ci hanno ironizzato gli stessi che ora tacciono davanti a questo dilagare di etnocentrismo. Come tace quel giullare del potere che è Benigni. Ricordiamo la scena in cui deride la razza italica. E fa bene a farlo. Ma immaginiamo ora che la stessa scena la doppiassimo, che Benigni dicesse "pura razza ebraica". Perché non si può ridere di queste scemenze quando le dice un ebreo? C'è una sorta di divieto a criticare la cultura ebraica. Ma perché? Tutte le culture vengono criticate. Perché non può esserla quella ebraica? Bisogna rispettare tutte le culture, quella dei navajo, degli ottentotti, e anche quella ebraica. Senza dubbio. Ma le scemenze restano scemenze. Se una cultura dice che il mondo sta sulle spalle di un elefante io la rispetto, ma continuo a pensare che sia una scemenza. E se una cultura dice che quella terra mi è stata data da Dio io la rispetto, ma considero questa una scemenza. E tuttavia, mentre critichiamo tutto sembra che la cultura ebraica non possa essere sottoposta a critica. Vale ancora il divieto, un residuo arcaico: è manifestazione di Dio, e questo vale sia per gli ebrei sia per i Cristiani sia per i musulmani. Poi la lotta è per capire a chi - per dirla con Lessing- il padre morente ha lasciato l'anello vero. Ma l'anello vero forse il padre se lo è tenuto per sé, forse lo ha distrutto, ha chiamato un Frodo che lo ha sciolto, per impedire che qualche testa matta potesse pretendere all'eredità. Chi è l'erede delle cose divine dunque? Filone esclude che siano coloro che conducono "la vita del sangue", e dice una cosa importante che libera le religioni Abramitiche dalla mitologia del sangue e del suolo: "Colui che è "uscito fuori" bisogna chiamarlo non solo "veggente, ma veggente Dio, ossia Israele, che significa colui che vede Dio". In ciò che si chiama Israele oggi non c'è niente di tutto ciò, solo un rigurgito tribale, il ritorno del culto del sangue e del suolo. Il culto dei geni, della biologia. Ancora una volta si adora il vitello d'oro. Che non è una cosa misteriosa. Significa che si adorano scemenze. Poi le si può condire con citazioni dotte, con sofismi, ma davanti alla fredda ragione sono solo scemenze. Vincenzo Costa
|
|
L'idiozia uccide la filosofia |
|
|
|
22 Novembre 2023 Da Rassegna di Arianna del 16-11-2023 (N.d.d.) Oggi è la giornata mondiale della filosofia. A proposito, a cosa serve, cosa resta oggi della filosofia? Non serve più all'umanità che l'ha sostituita con la scienza e con la tecnica, non serve alla politica e alla società che l'hanno rimpiazzata con gli influencer e con pratiche più efficaci d'immagine, consumo e consenso, e non servono più i grandi sistemi e i grandi racconti perché, paradossalmente, il mondo globale rigetta le visioni del mondo e ogni ordine. Il caos/caso è il solo Signore. Il filosofo è un figurante di contorno che per conquistare un piccolo, labile consenso deve dire che la filosofia è morta, non serve più. Per avere ascolto il filosofo deve attestare la sua inutilità, autocertificare il suo decesso. E se il compito della filosofia fosse ancora cercare un senso e un destino e scommettere tutto su quella ricerca, inoltrandosi nella metafisica? Cercare, dico, non trovare; è una ricerca, si rischia di tornare a mani vuote. Ma quello è il rischio del filosofo, la sua nobiltà e il suo contributo. Altrimenti è superfluo e superato da altre app… Alla filosofia nuoce più il nichilismo che la teocrazia, più la cancellazione del pensiero come arma impropria che la sua subordinazione a un'autorità. Perché la repressione violenta e comprime ma non sradica il pensiero e non svuota la mente; a un'autorità puoi sempre ribellarti, soprattutto nell'interiorità della tua coscienza e del tuo pensiero; invece al pensiero spento e alla sua espulsione automatica dalla vita no, non puoi ribellarti, anche perché non sai come e contro chi. La filosofia smuore e non te ne accorgi. L'idiozia uccide la filosofia più della tirannide. Si può poi fare filosofia espellendo temi come il sacro, il mito, la tradizione, la civiltà, il destino, Dio, il regno spirituale, costantemente fuori dall’orizzonte della filosofia corrente e morente? Alla pregiudiziale ideologica si unisce poi la pregiudiziale accademica. Filosofi con cattedra e scientifici, mi raccomando. Vogliamo dirlo che la grande filosofia, per tre quarti, è nata fuori dalle accademie? Vogliamo dirlo che i movimenti filosofici più significativi in Italia e non solo, sono nati fuori dall’Università e dagli istituti universitari, nelle riviste di Papini e Prezzolini, di Croce, di Gramsci e di Bottai, tra i seguaci di antiaccademici come Marx e Nietzsche, nelle piazze, nei seminari e nei giardini? Pure i filosofi professori sono diventati grandi quando hanno voltato le spalle all'università... Ma cos'è questo recinto in cui coartare la filosofia, questa specie di concorso a punti, come la patente, per riconoscere il diritto di attenzione solo ai filosofi muniti di diploma? I titoli accademici in filosofia valgono quanto i titoli nobiliari in repubblica. In filosofia non è di rigore la cravatta e l’abito scuro. Poi non vi meravigliate se la filosofia è povera, acida e malandata; se non nascono grandi opere e correnti nuove, se tutto sembra già detto, già scritto, e i filosofi di professione appaiono solo spenti impiegati di concetto di un'azienda decotta, ormai rilevata da un’altra che si occupa di scienza applicata e tecnologia. In giro non si vedono pensieri nuovi, solo necrologi alla filosofia o pensieri laterali, glosse e procedure. Se Dio è morto, come dite voi, quant'altro resta alla filosofia? Non vi sfiora il dubbio che ci possa essere un nesso tra le due cose, e tra la perdita della memoria storica e la fine del pensiero? Su, coraggio, aprite le finestre, lasciate circolare aria nuova, o antica; idee e pensieri insoliti. Marcello Veneziani
|
|
20 Novembre 2023 Da Comedonchisciotte del 19-11-2023 (N.d.d.) Avevate mai sentito parlare del dottor Curt Richter? No. Nemmeno io. Nel periodo in cui negli Stati Uniti si faceva quasi tutto in nome della scienza (oggi non più, ora si fa tutto in nome del denaro), il dottor Curt Richter, rinomato fisiologo e scienziato comportamentale, aveva condotto i suoi fondamentali esperimenti sui ratti. Aveva presentato il suo esperimento più famoso a metà degli anni ’50 alla Johns Hopkins University. Questi test miravano a scoprire gli effetti della disperazione e della mancanza di speranza sul tasso di sopravvivenza dei ratti. A quanto pare, il gentile scienziato aveva immerso i suoi amati ratti in vasche d’acqua e aveva cronometrato il loro dibattersi frenetico. I topi credevano che sarebbero annegati e facevano di tutto per salvare le loro patetiche vite. Non si rendevano conto che il buon dottore aveva un animo gentile e li avrebbe salvati prima della loro morte acquatica. Ma non lo aveva fatto. Non all’inizio, almeno. E molti topi avevano trovato la morte dopo circa 15 minuti di inutili tentativi di rimanere a galla. Il gruppo successivo di topi era stato quello fortunato, anche se qualcuno direbbe il contrario. Questi poveri esemplari erano stati tenuti sotto osservazione fino al momento in cui, a causa dello sfinimento, stavano per lasciarsi andare e, a quel punto, erano stati tirati fuori dall’acqua, asciugati con cura e messi a riposare. Salvati. Un miracolo di sicuro. E che sollievo. Dopo un breve periodo di riposo, i topi erano stati ributtati nei loro secchi, che, alla fine, sarebbero comunque stati la loro tomba liquida, ma non in 15 minuti, il tempo necessario per lo sfinimento fisico stabilito in precedenza, bensì nell’incredibile e miracoloso periodo di SESSANTA ORE! Oh, meraviglia delle meraviglie, com’era stato possibile che queste minuscole creature avessero potuto prolungare così a lungo la fugace energia necessaria per rimanere in vita? La speranza! Speranza, avete detto? Sì, era stata la speranza. Erano già stati salvati in passato, quindi, sicuramente, lo sarebbero stati di nuovo! Avevano un’indubbia fiducia nel dottor Curt e sapevano che all’ultimo momento li avrebbe strappati ad una morte certa. Ma non lo aveva fatto. No, il buon dottore voleva vedere quanto a lungo la speranza li avrebbe sostenuti. Quanto a lungo quel barlume di fiducia nella bontà dell’uomo potesse brillare nei cuori e nei muscoli delle povere bestioline. E così il salvatore non era mai arrivato e dopo circa 60 ore (minuto più, minuto meno), alla fine tutti i topi avevano ceduto. Una volta raggiunta la soglia delle 60 ore, sicuramente alcune creature saranno state rimosse dal secchio per motivi umanitari. Ma forse no. Ti insegna ad avere fede, eh? Beh, almeno la fede negli esseri umani. È difficile dire se i topi siano consapevoli della misericordia di Dio. Forse stanno tutti sorseggiando margarita nel paradiso dei ratti. Chi lo sa. Il dottor Richter era diventato un eroe nel mondo della scienza, naturalmente. Quello che aveva scoperto nel suo piccolo e riprovevole esperimento è che almeno i ratti erano in grado di spendere energia per rimanere in vita se venivano indotti (falsamente) a credere che, ad un certo punto, sarebbero stati salvati; i loro sforzi per rimanere in vita potevano continuare quasi all’infinito se credevano che tali sforzi sarebbero stati ripagati. Gli psicologi citano spesso questo esperimento come prova del potere della speranza. Si scopre che la nostra prospettiva può essere incredibilmente potente. Quando siamo fiduciosi del fatto che le nostre circostanze sono temporanee e che un cambiamento è possibile, possiamo realizzare imprese straordinarie. La speranza può essere il fattore in grado di cambiare un risultato da pessimo a ottimo, almeno per quanto riguarda i topi. Mi chiedo se il dottor Richter avesse mai voluto (almeno segretamente) provare il suo esperimento sugli esseri umani, purtroppo non aveva avuto la fortuna di trovarsi in Germania 10 anni prima. I nazisti sarebbero stati sicuramente felici di accontentarlo. È questa l’unica cosa che aveva scoperto? Non credo. Aveva anche scoperto che, se si concede un po’ di tregua a una creatura, cioè se si smette di torturarla per un momento e le si fa credere che il tormento sia finito, si può tornare a torturarla e continuerà a sopportarlo – felicemente – fino alla morte. Mi viene in mente l’esperimento di BF Skinner con i piccioni. Sebbene non riesca a trovare la documentazione di questo particolare esperimento, sono abbastanza sicuro che sia avvenuto, anche se, considerando il mio dubbioso stato mentale di questi giorni, potrei benissimo essermelo inventato. Funziona così (o almeno così credo): Il dottor Skinner dava ai suoi piccoli amici pennuti dei chicchi di mais (o qualche altra prelibatezza che i piccioni adorano) ogni volta che le creature beccavano una leva. Dopo aver lavato il cervello dei piccioni facendo loro credere che beccando la leva si otteneva miracolosamente un gustoso bocconcino, Skinner aveva smesso di fornire il mais. I piccioni avevano continuato ugualmente a beccare. Dopo un certo numero di beccate, si erano stancati, si erano annoiati e avevano deciso che forse beccare la leva non produceva nulla di così miracoloso. Poi, proprio al momento giusto, Skinner aveva nuovamente iniziato a fornire mais in risposta alle ultime beccate (di solito, poco prima che smettessero di beccare). Vedete, aveva tenuto appunti meticolosi e sapeva esattamente quando sarebbe arrivata l’ultima beccata, prima che gli uccelli si arrendessero. Era un bravo scienziato). Poi, una volta che i poveri uccelli pensavano di aver capito tutto, interrompeva di nuovo l’erogazione del mais. Continuavano a beccare per un po’ e il vecchio Skinner ricominciava ad elargire mais non appena stavano per arrendersi. Dopo alcuni giri di questo gioco di beccate e mais, i piccioni non smettevano più di beccare. Mai. Anche se non usciva più mais, beccavano, beccavano, beccavano. Questa sì che è speranza! Se si uniscono questi due esperimenti, si ottiene qualcosa di interessante. Non chiamiamola “speranza”, ma piuttosto “fiducia”… e si tratta di uno strano tipo di fiducia. I topi si erano fidati del fatto che Richter li avrebbe salvati se avessero nuotato abbastanza a lungo. Cosa che aveva fatto la prima volta, quando era sicuramente certo che sarebbero morti. Skinner “aveva salvato” i suoi piccioni allo stesso modo, ma con un prezzo non così alto da pagare. Gli uccelli erano rimasti in vita, anche se in uno strano stato di psicosi. Non si erano mai arresi. E, se la stanchezza non avesse avuto la meglio dei topi di Richter, nemmeno loro si sarebbero arresi. Cosa possiamo imparare da tutto questo ai giorni nostri? Beh, pensateci. Quando era iniziato il grande allarme Covid, il nostro gentile governo ci aveva detto che saremmo sicuramente morti se non avessimo continuato a nuotare o a beccare la leva. Con l’esperimento Covid ne abbiamo viste di tutti i colori: distanziamento sociale, isolamento, divieto di celebrare matrimoni, funerali e funzioni religiose, chiusure di attività commerciali; beccate, beccate, beccate, ma niente mais. E quando è uscito il vaccino, ancora di più a nuotare e a beccare. Poi, improvvisamente, siamo stati salvati! Tutto è finito! Il mais è tornato a scorrere e noi siamo stati tirati fuori dal secchio. La Covid era finita, l’estate piacevole e calda (no, era bollente, vero? Oh, questa è un’altra storia… scusate). Tutto era tornato alla normalità. Quanto tempo ci vorrà prima di essere gettati di nuovo nel secchio? Iniziate a nuotare, gente, ma non preoccupatevi, ci salveranno di nuovo! I medici gentili hanno un cuore buono. Sicuramente ci salveranno. Becca, becca. Todd Hayen (tradotto da Markus)
|
|
|