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Un mondo autoreferenziale PDF Stampa E-mail

3 Luglio 2023

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 Da Comedonchisciotte del 29-6-2023 (N.d.d.)

Alcuni giorni fa sono andato a vedere la mostra di Ann Veronica Janssens, “Gran Bal”,  all’Hangar  Bicocca di  Milano. In realtà, già che c’ero, ho rivisto quella di Gian Maria Tosatti “NOw /here” a cui ero stato precedentemente, e ho messo piede anche nello spazio mistico in cui si trovano i “sette palazzi celesti” di Kiefer. Bene, se voglio trasmettere a chi leggerà l’impressione che ho avuto,  ricorrendo ad un’ espressione figurata, dico che mi è sembrato di passare in ordine da una celletta asfittica ( la Janssens), a un soggiorno un po’ più arioso ( Tosatti), per approdare infine  a  un immenso spazio selvaggio in cui si respira a pieni polmoni, e cioè nella grande area in cui sono posti i Palazzi di Anselm Kiefer. Premetto che già da un po’ di tempo, di fronte ad alcune espressioni dell’arte contemporanea che trasudano  concettualismo duro come l’acciaio, puntualmente picchio la testa e cado in stato confusionale.

La cosa che però mi lascia veramente interdetto, è il fatto che alla  richiesta di un mio amico di dare un parere sulla mostra, non ho saputo formulare alcun giudizio critico, sia di segno positivo che di segno negativo. Mi sono addirittura sorpreso che qualcuno  abbia chiesto un parere sull’evento, visto che la disabitudine ad affrontare criticamente allestimenti ed esposizioni varie è ormai  prassi consolidata. Insomma, cosa dire: non ho gli strumenti per poter procedere ad una lettura seppur superficiale della mostra? Certo, questa sembrerebbe la conclusione più logica, ma badate, uso il condizionale. Eppure vedo mostre da anni, da sempre pratico gallerie, musei, artisti, leggo d’arte, visito fiere del settore, compro regolarmente Flash Art e altre riviste…quindi cosa accade…boh? Probabilmente, una certa arte mi ha scavato in seno una profonda disillusione, con relativa insofferenza di ritorno. Naturalmente questa mia idiosincrasia non si manifesta per l’arte contemporanea nella sua totalità, ma solo per alcune formulazioni della stessa, e specificatamente  quelle in cui la vetta dell’arido cerebralismo raggiunge il suo zenith;  penso all’arte povera, a quella minimalista a quella performativa a quella installativa e ad altre ancora. Una cosa è certa; la fastidiosetta  frustrazione da cui ero attanagliato precedentemente, visitando mostre analoghe a quella della Janssens, dovuta  alla palese inadeguatezza in cui versavo di fronte ad un abecedario intraducibile, si è via via trasformata in “stanchezza”, una forma di spossatezza  simile a quella che ci investe  quando cerchiamo di decifrare il pensiero di un interlocutore che si esprime in una lingua a noi poco familiare. Una cosa è certa, la terra di nessuno in cui si incontravano  fino ad alcuni lustri fa l’artista e il suo fruitore disarmati e dialoganti, è stata  subdolamente conquistata  dall’esercito dell’arte contemporanea, anzi dai battaglioni d’assalto dell’arte concettuale.

Preciso che, quando scrivo arte concettuale, il mio pensiero  corre, per una forma di riflesso condizionato,  alle prime mostre di arte povera degli anni ‘60, perché è lì, a mio sindacabile avviso,  che l’arte ha iniziato la sua trasformazione  in “regno dell’anarchia”, o meglio, della “cripto-religione”. L’arte concettuale, o almeno, una consistente parte di essa, ha dal suo esordio  presentato una  totale assenza  di attaccaglie emozionali, adottando una anti-espressività dura e pura,  lasciando così  il pubblico senza mezzi ai quali potersi aggrappare per poter effettuare il viaggio del “senso”, tolto  il quale un’opera diventa oscura al punto tale da risultare nulla. L’arte che si fa materia eterea, fortissimamente eterea, e che  non si fenomenizza  più ai nostri sensi,  perde quel carattere di totem di fronte alla quale dovrebbe realizzarsi  la catarsi, la nostra catarsi,  azione primigenia  a cui “forse” essa è destinata.

Volendo metaforizzare ancor di più, potrei dire che si naviga a vista, poiché sono andate perdute le carte nautiche, anzi, sottratte…e potete cominciare ad immaginare da chi. Infatti, noi appassionati d’arte siamo passati dalla consapevolezza della nostra posizione nel firmamento artistico, al mare aperto, in cui la bussola ce l’hanno in mano solo gli operatori del sistema arte; artisti, curatori, galleristi. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che Malevich come tutte le avanguardie artistiche del primo ‘900, fossero anche loro assolutamente distanti dalla sintassi comunemente  riconosciuta e condivisa nel mondo dell’arte dell’epoca, ma non è così. Credo che oggi siano diventati importanti fattori che all’inizio del secolo scorso erano ininfluenti o addirittura  inesistenti e che questi fattori emergenti abbiano trasformato i ruoli e i rapporti tra i protagonisti di tale universo. Alludo naturalmente al  mercato, che all’epoca delle prime avanguardie viveva ancora dei riverberi del mecenatismo ottocentesco, ragion per cui  l’artista, o meglio la sua arte, aveva  ancora un’importanza preminente rispetto al possibile business da essa  generato.  Infine, fatto sta che  il sistema ha  radicalmente e scientemente cambiato il rapporto tra l’artista e lo spettatore, e rivoluzionato addirittura la percezione stessa che il fruitore ha di ciò che è chiamato a valutare. E tutto questo è avvenuto  nell’esclusivo interesse del mondo economico rappresentato,   con la benedizione addirittura di  quelli che vanno alle mostre ma che a causa degli eventi che vado qui descrivendo, hanno sviluppato un senso acritico senza precedenti.

Bisogna quindi  dire che grazie ad una certa  arte concettuale, “truccare” le carte in tavola e togliere allo spettatore ogni appiglio utile a stabilire un giudizio, facendogli per giunta credere di non essere preparato, è stato  come rubare le caramelle ai bambini. Il fossato insomma che divide chi sta arroccato nel castello ( il sistema) e chi vociante fuori di esso pretende il pane ( la partecipazione ) si sta  sempre di più allargando. Ma volendo guardare oltre l’orizzonte delle arti visive, ci sono segnali di distacco abissali anche in altre discipline, tra chi conduce la locomotiva (il sistema delle arti nel suo complesso) e chi rincorre il treno nel tentativo di accaparrarsi l’oro (il messaggio). Anche nel cinema infatti, mi pare che alcuni registi, come Christopher Nolan ad esempio  con “Tenet”,  a cui egli avrebbe dovuto allegare un vero e proprio manuale esplicativo, adottino procedure con canoni calati dal cielo,  del tutto  privi di grammatica codificata, spingendo così lo spettatore su un terreno sdrucciolevole, in cui ogni possibile interpretazione dell’opera si rivela una chimera. Intendiamoci, non si vuole qui perorare la causa di un’arte che non si lanci coraggiosamente  su terreni linguistici scoscesi in cerca  di nuovi orizzonti, ma  si contesta piuttosto  la genuina qualità di opere d’arte scaturite da una forma di onanismo creativo, che non tiene neanche lontanamente in considerazione l’opera come media, e cioè  come tramite tra artista e pubblico. È evidente che nel guazzabuglio che è venuto a crearsi negli ultimi anni, grazie al “liberi i demiurghi di proclamare arte ciò che loro ritengono tale”, ci sia molta, moltissima malafede. Pensando sempre al cinema, mi viene in mente un film che a me è piaciuto moltissimo, e cioè “La grande bellezza”. Ricordo in modo particolare la scena  in cui il protagonista, Jep Gambardella intervista la performer donna che si prende a testate nel muro, chiedendole “conto” della sua opera, senza ottenere una risposta convincente. Anzi, l’intervistata risponde a domande più che plausibili innalzando tra sé e Jep un muro di pretestuosità,  nel vano tentativo di nascondere  il  vuoto di significato della  sua opera,  grande come il mondo. Sappiamo però che nella vita di tutti i giorni,  non tutti i giornalisti hanno l’insolenza di Gambardella  nell’incalzare ostinatamente gli artisti con il fine di farsi spiegare il senso della  loro opera. Anzi, all’interno del sistema odierno di relazioni nel mondo dell’arte, fondato su patti riconosciuti  di non ingerenza,  in nome di un  quieto vivere funzionale al business, vige una specie di “volemose bene ma senza far domande”. Ragion per cui ci tocca spesso prendere come buoni mucchi cavillosi di inconcludenti parole volte  a giustificare operazioni artistiche super discutibili.

Ma tornando alla Janssens, ecco, non mi sogno neanche lontanamente di equipararla  all’artista intervistata da Gambardella, ma dico però, e ne sono certo, che il “sistema” ha oramai preso il sopravvento sulle singole volontà. Semmai, posso tentare di instillare negli altri il dubbio che l’artista, fattosi invincibile grazie al sistema che gli ha costruito intorno una corazza indistruttibile, magari  inconsciamente, si erga a despota assoluto di un mondo autoreferenziale. E in questo mondo fondato su leggi non scritte, che sancisce l’intoccabilità del demiurgo, non spetta certo a quest’ultimo  stabilire un contatto con il pubblico e rendersi  intelligibile, ma è il pubblico che deve sempre e comunque accollarsi il compito di scalare il calvario nel tentativo spesso vano di afferrare il senso  dell’opera. D’altronde, se oramai il sistema dell’arte si configura come una casta, perché i privilegiati di tale casta dovrebbero tenere conto dei dubbi della moltitudine cenciosa e dubbiosa?

Claudio Vitagliano

 
Anticapitalismo di destra e conservatorismo di sinistra PDF Stampa E-mail

30 Giugno 2023

 Da Comedonchisciotte del 28-6-2023 (N.d.d.)

La postmodernità è l’epoca nella quale il superamento delle barriere filosofiche e politiche, già annunciato nel XX secolo, potrebbe avere sviluppi inaspettati attraverso la rimodulazione delle assialità portanti del discorso politico. Tutto ci dice che le nuove assialità non avranno più a che fare con le vecchie categorie destra-sinistra – a dire il vero anch’esse, nelle vicende della modernità, dimostratesi molto più dinamiche che immobili o paradigmatiche – ma con nuove categorie quali quelle liberal/comunitari, identitari/globalisti, organicisti/individualisti. In un tale contesto sta emergendo a sinistra uno sforzo inteso al recupero del pensiero conservatore in funzione anti-liberale ovvero un cambiamento culturale per recuperare l’organicismo comunitario, nelle sue varie formulazioni e riformulazioni da quella reazionario-tradizionalista ottocentesca a quella rivoluzionario-conservatrice novecentesca, contro l’individualismo contrattualista sul quale è fondata la modernità. A dire il vero questo recupero appare, guardandolo da destra, piuttosto come una ammissione a sinistra delle ragioni degli anti-moderni. […] Del resto, che una “tentazione” antimoderna fosse presente nello stesso marxismo apparve chiaro sin da subito. Perché se è vero che Marx, nel Manifesto del 1848, fa l’elogio progressista della funzione rivoluzionaria della borghesia – la quale, con il suo freddo calcolo economistico, disincanta il mondo, raffredda gli slanci mistici, dissolve i variopinti legami comunitari che nell’età premoderna legavano l’uomo all’uomo, nega l’aulica ispirazione di poeti ed artisti – è altrettanto vero che tra le righe del suo pensiero trapelano, talvolta, elementi profondamente antimoderni, che si sarebbero fatti strada nella cultura di sinistra sino a caratterizzare opere importanti quale “La Grande Trasformazione” di Karl Polanyi. Un esempio dell’antimodernismo di Marx possiamo trovarlo nel primo capitolo di “Miseria della Filosofia” laddove il pensatore di Treviri, critico delle trasformazioni antropologiche intervenute nel passaggio dal premoderno al moderno, scrive: «Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. É il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale o fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto prezzo”. Questa vena di antimodernismo presente in Marx è molto interessante perché da destra si dovrebbe insistere molto su questo filone antimoderno interno alla sinistra. Nuove inedite sintesi potrebbero ricavarsene. In tal senso il saggio di Sarah Wagenknecht “Contro la sinistra neoliberale” (Fazi Editore, Roma, 2022), nel quale da sinistra è recuperato il pensiero conservatore anticapitalista, è un buon inizio. Sarah Wagenknecht è stata leader della sinistra radicale tedesca. Nel saggio in questione, l’autrice elabora una forte critica alla deriva neoliberale e neoliberista della sinistra occidentale ma fonda tale critica non tanto sul pensiero di sinistra quanto invece sul recupero del pensiero organicista, conservatore e tradizionalista della destra. La Wagenknecht si è in sostanza accorta che il pensiero di destra – checché ne dicano e ne pensino taluni poco informati – è molto più radicalmente antiliberista di quello della sinistra culturalmente figlia del razionalismo dal quale è nato il capitalismo. Emerge dunque che tra “conservatorismo” o “tradizionalismo” e “socialismo” di tipo non liberale, quindi non marxista (Marx, in quanto antipolitico ed antistatalista, era un grande liberale), sussistono forti e reciproche connessioni tali da farli potenzialmente convergere, nella comune avversione al liberalismo e all’individualismo, in una inedita proposta politica e culturale. La domanda, pertanto, è se, al di là dei labili e fragili concetti di “destra” e “sinistra”, non possa enuclearsi un “socialismo conservatore” ovvero un “conservatorismo socialista” definiti dalla comune lettura comunitaria della vita, richiamando sulla scena storica le radici tradizionali quali presupposti per la realizzazione dell’equità sociale nella redistribuzione della ricchezza prodotta dalla comunità nazionale. […] Ora, se la coesione sociale ha bisogno di radicamenti tradizionali, la Patria non è più il luogo del nazionalismo colonialista e non è più un concetto borghese ma si rivela realtà comunitaria intrisa di socialità, unico solido fondamento per un socialismo che non sia astrattamente cosmopolita. Che soltanto in un quadro patriottico fosse possibile realizzare un socialismo organico era già stato affermato a suo tempo dal socialismo risorgimentale nella scia democratica del mazzinianesimo. Nel XX secolo ritroviamo questo socialismo patriottico in diverse esperienze politiche come quelle dei Paesi in via di industrializzazione, ad esempio l’Argentina peronista o l’Egitto nasseriano (strettamente imparentati ai fascismi europei), ma anche di Paesi ad industrializzazione avanzata, come la Francia gollista, fino a Paesi dichiaratamente socialisti quali la Cuba di Fidel Castro e Che Guevara che del “Patria o muerte” hanno fatto la propria insegna antimperialista ed antiamericana (una scelta che non può comprendersi in pieno obliterando, come sovente si fa, le origini falangiste “joseantoniane” di Castro e quelle peroniste di Guevara, per le quali rinviamo al nostro contributo rintracciabile qui https://www.francocardini.it/minima-cardiniana-224-2/). Non solo, perché il patriottismo fu rivendicato anche da Palmiro Togliatti, in un articolo significativamente titolato “Il patriottismo dei comunisti” uscito su “Rinascita” nel luglio-agosto 1945, ossia a guerra civile ancora latente, nel quale il segretario del Pci scrisse: «È ridicolo pensare che la classe operaia possa staccarsi, scindersi dalla nazione. La classe operaia moderna è il nerbo delle nazioni. I comunisti, che sono il partito della classe operaia, non possono dunque staccarsi dalla loro nazione se non vogliono troncare le loro radici vitali. Il cosmopolitismo è una ideologia del tutto estranea alla classe operaia. Esso è invece l’ideologia caratteristica degli uomini della banca internazionale». Nello scrivere tali parole Togliatti, memore della lezione del fascismo che tentò di unire classe e nazione ossia socialismo e patriottismo, richiamava implicitamente il suo “Appello ai fratelli in camicia nera”, da lui firmato e pubblicato nel 1936 sulla rivista parigina “Lo Stato Operaio”, nel quale, all’interno di una strategia entrista nel momento del massimo consenso popolare al regime, invocava la “santa alleanza per la comune battaglia per il pane ed il lavoro” tra comunisti e fascisti di sinistra. Togliatti, nonostante fosse in esilio, aveva osservato che, dopo la delusione seguente ai compromessi nel decennio precedente tra il regime e i fiancheggiatori di destra, i fascisti di sinistra, ossia i veri fascisti, negli anni Trenta, con l’avallo ufficioso dello stesso Mussolini (il quale giunse persino a sostenere la tesi della “corporazione proprietaria” di Ugo Spirito ossia la nazionalizzazione dei mezzi di produzione attraverso le corporazioni in una sorta di corporativismo comunista basato sull’“azionariato dei produttori”), stavano scalando le gerarchie fino al vertice. Si trattava, come ha spiegato Renzo De Felice, di quel “secondo fascismo” sempre più emergente, in quegli anni, nelle riviste e nelle organizzazioni giovanili del regime. Questo neofascismo prebellico si richiamava idealmente alle origini diciannoviste ossia socialiste del movimento fascista. Togliatti aveva ben colto queste spinte interne al regime favorite dalla svolta dirigista decisa per fronteggiare gli effetti della crisi del 1929 (istituzione dell’Iri, promulgazione della Legge Bancaria del 1936 con la nazionalizzazione della Banca centrale, rafforzamento degli strumenti di previdenza sociale ad iniziare dall’Inps, rivitalizzazione dei sindacati). Per gli stessi motivi per i quali prima della guerra aveva cercato di immettere elementi comunisti nel fascismo di sinistra, nel 1946 Togliatti, come ebbe a dichiarare in un’altra intervista manifestando toni di stima ed intenti pacificatori verso i “giovani idealisti” che avevano scelto di aderire a Salò, appoggiò l’amnistia onde cercare di attrarre i fascisti di sinistra nel Pci (vi riuscì solo in parte perché un’altra parte degli eredi dell’esperienza della Repubblica Sociale fondarono il Msi, che inizialmente non era affatto “destra nazionale” e lo diventò soltanto con la svolta moderata degli anni ’50). Insomma, Togliatti, tra il 1936 ed il 1946, riconobbe che Mussolini lo aveva preceduto, già dal 1914-1919, sulla strada della nazionalizzazione, del socialismo, intuendo che socialismo e patriottismo non sono opposti ma piuttosto sinonimi. Non a caso, nel dopoguerra Togliatti additò la “via nazionale al socialismo” quale orientamento ideale e storico del suo Pci.[…]

Dobbiamo abbandonare l’idea consolidata ma infondata che il conservatorismo identitario abbia come nemico il socialismo. Certamente è sua nemica la dialettica materialista marxista che è stretta parente del materialismo capitalista, come ha ben compreso un neomarxista quale Diego Fusaro che non a caso rilegge Marx in chiave idealista come già, a suo tempo, aveva fatto Giovanni Gentile sia in età giovanile (“La filosofia di Marx”) sia in tarda età (“Genesi e struttura della società”) occhieggiando ad un “comunismo spiritualista”. Il vero nemico del conservatorismo identitario è il liberalismo/liberismo, quindi anche ciò che di liberistico sussiste nel marxismo. Il liberalismo ha ampiamente conquistato anche la sinistra grazie al cavallo di Troia dell’internazionalismo tradotto capitalisticamente in globalizzazione. Un filosofo di grande acume intellettuale come Andrea Zhok ha individuato nel “progressismo liberale” il nemico della stessa natura umana e, quindi, di qualsiasi capacità relazionale dell’uomo (si veda il suo sintetico ma concettualmente denso saggio “Oltre destra e sinistra: la questione della natura umana”, Il Cerchio, 2023, ma anche l’intervista concessa a Francesco Borgonovo su “La Verità” del 4 giugno 2023). […]

Diventa necessario prendere o, meglio, riprendere, consapevolezza che il senso di comunità è connaturato all’uomo. Già Aristotele aveva compreso che l’uomo ha una natura sociale. Tommaso d’Aquino e l’intero medioevo hanno ribadito l’assunto in chiave cristiana. Ma tale veritativa evidenza, che non ha bisogno di dimostrazione come non ne ha bisogno il sole splendente in cielo, è presente in tutte le culture umane, ad ogni latitudine ed in ogni epoca storica. Soltanto nell’Occidente moderno, a partire dal XV-XVI secolo e poi con forza sempre maggiore dal XVIII fino al XXI secolo (motus in fine velocior), il solipsismo individualista, man mano che si imponeva la secolarizzazione, ha scalzato ogni solidarietà comunitaria sostituendo l’organicismo con il contrattualismo sociale. Questo rilievo storico ed antropologico, ancor prima che filosofico e teologico, diventa oggi un potente spartiacque tra nuove categorie politiche che attraversano quelle, ormai obsolete, di “destra” e “sinistra” come le abbiamo fin qui conosciute. Si tratta, pertanto, di comprenderlo sia a destra che a sinistra perché la auspicabile formazione di nuovi schieramenti potrebbe riservare sorprese, neanche tanto inedite (perché soluzioni già tentate nel corso del XX secolo), e riorientare il dibattito politico in modo che apparenti “nemici” di ieri possano scoprirsi insospettabili “amici” di oggi. «Una sinistra che ridicolizzi il pensiero comunitario e i valori che da esso derivano perde consensi e diventa sempre più ininfluente. Ma non si tratta solo di questo. La vera domanda è un’altra: i valori comunitari sono davvero invecchiati e superati? Il desiderio di vivere in un mondo fidato e riconosciuto, di avere posti di lavoro sicuri, di risiedere in quartieri tranquilli e godere di rapporti familiari stabili è davvero un sentimento retrogrado? Oppure questi valori non sono invece un’alternativa molto più convincente al capitalismo sfrenato, che si fa portavoce dell’individualismo, dell’autorealizzazione priva di vincoli, dell’idea tipica del liberalismo di sinistra di essere cittadini del mondo, un’idea che, guarda caso, si adatta particolarmente bene all’ambiente economico dei mercati globali e alle aspettative di mobilità e flessibilità delle imprese?» (Wagenknecht a pag. 290). Se, quindi, il consapevole senso comunitario definisce l’uomo in quanto uomo, è conseguenziale che la convivenza umana ha bisogno di stabilità e di reciproca fiducia. Cose queste che si trovano soltanto nella Gemeinschaft (comunità organica), e non nella Gesellschaft (società mercantile), per usare gli idealtypus di Ferdinand Tönnies, ma che a loro volta necessitano di una radice ben piantata nel Sacro, prima ancora che nel Politico, sicché il luogo primo e principale nel quale il senso comunitario si manifesta non può che essere la famiglia, l’ambiente primordiale nel quale l’uomo nasce e prende consapevolezza della sua umanità. […]

Nessuno stabile ordinamento comunitario della vita sociale può sussistere se non è costruito sui “valori tradizionali”, che sono quelli discendenti dal retaggio spirituale, sacrale, e dalla storia di un popolo. Principi tradizionali che non sono elaborazione dell’uomo, né in quanto popolo né in quanto singolo, ma da lui, sia come popolo che come singolo, ricevuti, accolti, custoditi e trasmessi di generazione in generazione, magari nella dinamica variabilità delle forme esteriori ma nella stabilità intrinseca della loro essenza. Cambiano le forme di famiglia, monogamica o poligamica, ma essa è tale soltanto se eterogamica. Cambiano i riti della vita sociale o di quella amicale ma ogni pur storicamente varia comunità è tale solo se costituisce una “unità organica” . […] Le forme storiche mutano ma i principi tradizionali che rendono salda una comunità restano sempre gli stessi, rendendo palese la verità del conservatorismo inteso come conservazione dell’essenza principiale, di per sé imperitura, e non delle forme storicamente superate. In tal modo la Tradizione diventa l’unico vero “progetto per il futuro”. Un progetto che si pone oltre la destra e la sinistra proprio perché su di esso possono convergere e reciprocamente intendersi conservatori (non liberali) e socialisti (non marxisti), purché gli uni comprendano che la conservazione delle identità e della cultura nonché dei principi spirituali non significa affatto anche conservazione di una iniqua distribuzione della ricchezza comune e purché gli altri comprendano che senza quel mondo di relazioni e solidarietà che discendono esclusivamente dal comune sentire identitario nessuna redistribuzione della ricchezza avrà mai un solido, duraturo e stabile fondamento. Chi difende le identità tradizionali dei popoli non può farlo come paravento di assetti sociali che, per dirla con il catechismo di san Pio X, “gridano vendetta al cospetto di Dio”. Ma chi lotta per la giustizia sociale non può farlo nella negazione delle identità tradizionali dei popoli che della giustizia sociale sono la migliore garanzia. […]

Il comportamento umano dipende molto più di quanto si pensi dalle tradizioni ereditate che costituiscono il cuore della identità personale e comunitaria. L’idea stessa di giustizia è filtrata attraverso le tradizioni identitarie. L’eredità filosofica e politica del conservatorismo sta proprio nel riconoscimento del ruolo fondamentale svolto dalle tradizioni e dalla cultura di appartenenza per la coesione sociale. Virtù sociali e qualità umane come la moderazione nella ricchezza, la riservatezza, l’affidabilità, la fedeltà, la lealtà e l’amicizia sono da sempre l’apprezzato prodotto di esperienze comuni e del tramandamento spirituale ossia della Tradizione sacrale di un popolo. Le persone che manifestano virtù e qualità socialmente riconosciute sono meglio disposte a vivere e lavorare insieme e con maggiore sicurezza, in quanto si sentono parte della comunità e nutrono lealtà verso di essa ed i propri simili che ne sono membra. Certe qualità sociali come l’impegno e la disciplina nel lavoro, la fatica e lo sforzo, la professionalità e la precisione, ci vengono dalla tradizione borghese ed artigianale del medioevo ma sono ancora oggi molto vive nella classe operaia e nel ceto medio. Si lavora meglio insieme laddove si nutre fiducia nel reciproco impegno per il bene comune fidandosi delle qualità del prossimo, al quale si è indissolubilmente legati da vincoli spirituali, naturali, culturali o territoriali. Vincoli che impongono e giustificano l’equa ripartizione della comune ricchezza prodotta dal comune lavoro benché nella distinzione di ruoli e funzioni. In un’economia basata sulla fiducia comunitaria anche la distribuzione della ricchezza ne risulterà agevolata. Partendo dalla considerazione che il libero mercato e la ricerca sfrenata del profitto hanno un potere distruttivo nei confronti dei valori tradizionali e dei vincoli di comunità riconosciuti, la Wagenknecht ne conclude che un’economia il cui motore centrale consiste nell’idea di ricavare sempre più denaro dal denaro poggia su un freddo calcolo di costi e benefici per il quale tradizione e costumi, religione e morale non sono che elementi di disturbo. Laddove si debba calcolare ogni cosa, gli oggetti perdono il loro senso e il loro valore immanenti. La disuguaglianza crescente mina la fiducia, la coesione e l’empatia, dal momento che gli uomini che vivono in mondi completamente diversi e non incontrano più gli altri strati sociali si sentono sempre meno parte di una medesima comunità ed unità di destino. Già al suo esordio il capitalismo comportò la frammentazione delle comunità, la distruzione dei beni comuni e lo sradicamento degli uomini, che vennero strappati ai propri legami consueti e al ritmo di vita tradizionale e consegnati ai mercati e alle macchine, ai cui ritmi si dovettero da quel momento sottomettere. In effetti la critica di Karl Marx per il quale il capitalismo riduce la “dignità personale (ad) un semplice valore di scambio” lasciando “tra uomo e uomo (nessun) altro vincolo che il nudo interesse”, ovvero “lo spietato pagamenti in contanti”, non è soltanto la descrizione della realtà sociale del suo tempo quanto, invece, una linea di sviluppo che si è fatta palese soprattutto nel capitalismo globalizzato e finanziario del nostro secolo. Ma – ecco il punto – una economia che distrugge le tradizioni, i valori ed i vincoli di comunità, distrugge il collante che tiene insieme la società ed alla lunga diventa umanamente insostenibile. Senza una certa dose di vincoli e valori comunitari viene meno la stessa “res publica”, ossia la cosa pubblica “comune”. Senza il sentimento di appartenenza comunitaria nessuna democrazia riesce a sopravvivere. Lo sapevano già Platone e Aristotile. In un ordinamento liberale si perde di vista il nucleo fondamentale del vivere umano ossia la codecisione delle scelte strategiche della comunità e di conseguenza i gruppi di interesse più influenti finiscono per dominare sulla politica. […] Senza i vincoli di comunità non ci sono “compiti comuni” per lo Stato, si perde completamente l’idea stessa del “bene comune” come tramandataci dalla tradizione spirituale e filosofica cristiana ed europea. Tutti i beni che un tempo erano considerati pubblici – abitazioni, servizi di comunicazione, imprese dei trasporti nonché di fornitura di acqua e di energia elettrica – diventano oggetto del mercato e vengono privatizzati. Non può esserci solidarietà laddove sono assenti vincoli e valori comuni. Quei vincoli e valori che derivano dall’identità storica e, prima ancora, spirituale di un popolo. L’Europa postbellica ha realizzato lo Stato sociale che, tuttavia, non sarebbe mai nato senza il fondamento spirituale e storico della tradizione europea. […]

La Wagenknecht addita espressamente la necessità ineludibile di un “conservatorismo di sinistra” che sappia mettere insieme conservazione delle identità e coesione sociale nella redistribuzione della ricchezza. Probabilmente la nostra autrice non sa che tale unione di Tradizione e Giustizia Sociale era quanto già proponeva, a suo tempo, negli anni Trenta del secolo scorso, José Antonio Primo de Rivera, il fondatore della “Falange Espanola de las Juntas de Offensiva Nacional-Sindicalista” laddove essa propugnava un programma anticapitalista ed anti-latifondista di ampie riforme sociali – “Patria, Pan y Justicia” – che aveva la sua sintesi nel contemporaneo rifiuto della “derecha”, perché la destra vuol conservare tutto anche l’ingiustizia sociale, e della “izquierda”, perché la sinistra vuol distruggere tutto anche l’eredità identitaria del popolo. Il nostro riferimento è, naturalmente, al falangismo nazional-sindacalista delle origini, il quale con il successivo franchismo non ebbe nulla a che fare, nonostante la retorica e strumentale utilizzazione che il regime nazional-conservatore ne fece, snaturandolo, allorché nella tragedia della guerra civile, che José Antonio cercò di evitare in ogni modo ma inutilmente, persero la vita i suoi capi, lo stesso José Antonio, Onesimo Redondo Ortega e Ramiro Ledesma Ramos.[…]

Con la globalizzazione neoliberista, adducendo false promesse palingenetiche di un nuovo “sol dell’avvenire” in chiave capitalista per la realizzazione del “migliore dei mondi possibili”, L’individualismo sradicatore del primo capitalismo è tornato a impadronirsi delle coscienze ma in modalità postmoderne ossia più tristemente sofisticate per via dell’emergere dell’egemonia della finanza speculativa sull’economia reale. Attualmente stiamo assistendo ai contraccolpi del liberismo cosmopolita ed ai suoi conseguenti disastri politici, sociali ed economici, non esclusa la guerra russo-ucraina. Da qui l’urgenza di ripristinare un clima spirituale e culturale, un état d’ esprit, favorevole alla dimensione comunitaria del Politico recuperando – da sinistra a destra e da destra a sinistra – il pensiero conservatore che, nella critica all’individualismo e nella difesa dell’identità tradizionale dei popoli, ha caratterizzato quel magmatico movimento di pensiero che Giorgio Galli e Luca Gallesi hanno definito “anticapitalismo di destra” e che, da parte sua, la Wagenknecht chiama “conservatorismo di sinistra”.

Luigi Copertino 

 
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27 Giugno 2023

 Il testo che segue è tratto dall’ultimo numero di Limes, uscito prima del presunto tentativo di colpo di stato di Prigozhin. Viene qui proposto perché molto più illuminante di tutte le chiacchiere degli ultimi giorni. (N.d.d.)

“ Le forze impiegate nell’operazione militare sempre definita speciale sono il fulcro del teatrale scontro tra Evgenij Prigozhin e vertici della Difesa. Quando il capo della compagnia militare Wagner ha ottenuto il nulla osta presidenziale per l’arruolamento dei carcerati, la prospettiva di migliaia di fedine molto sporche sopravvissute al tritacarne ucraino e rispedite in patria ha allarmato ministeri,  servizi, procura. Il canale di mobilitazione carceraria è stato allora trasferito alla Difesa: uno dei tanti motivi del malanimo del signor Prigozhin, le cui esternazioni sono salite di tono di settimana in settimana,  sino a dare l’impressione di essere fuori controllo. Gli attacchi senza veli al ministro della Difesa Sergej Soigu e al capo di Stato maggiore Valerij Gerasimov, in mancanza di rivoluzioni ai vertici sono traducibili in critiche all’apice dello Stato, anche senza le allusioni al nonnetto contento ingannato dai suoi collaboratori. Considerate le denunce per diffamazione delle Forze armate che scattano per un post o una battuta in pubblico, l’impunità di Prigozhin è stupefacente e di difficile lettura. Putin non è intervenuto pubblicamente nella contesa, lasciando fiorire ipotesi sulle motivazioni del silenzio. Si può sostenere che non reagisce perché gli fa comodo una spina nel fianco degli alti gradi dell’esercito e quindi si tratta di una commedia concordata, per quanto sguaiata. Oppure che in fondo considera il capo dei mercenari un sincero patriota, che si sporca le mani al fronte e per questo lo sopporta. E ancora: Prigozhin non è sostituibile in corso d’opera e i conti si faranno quando i cannoni taceranno. Insomma, o Putin non vuole, o non può.

Gode di una certa fortuna la tesi per cui l’assedio di Bakhmut è stato un grande diversivo organizzato per impegnare e decimare le truppe ucraine. E l’inveire del capo Wagner è servito a confondere ulteriormente il nemico. Il pubblico ringraziamento da parte di Putin per la presa della città dopo sette mesi sembra avvalorare questa versione. Un fattore da non tralasciare è che Prigozhin è legato anche alla Internet Research Agency, la cosiddetta fabbrica dei troll che ha portato scompiglio nella campagna elettorale americana del 2016. Lui stesso adora agire da disturbatore sulle piattaforme social e mischia con sapienza mediatica i toni seri e ironici, sempre pronto a invertirne il significato. Una vocazione trasformata in missione dalla guerra”.

Orietta Moscatelli  

 
Onore a Djokovic PDF Stampa E-mail

24 Giugno 2023

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 Da Comedonchisciotte del 20-6-2023 (N.d.d.)

Ha vinto. È lui il più grande tennista di tutti i tempi. Con la vittoria al Roland Garros, Novak Djokovic conquista il suo ventitreesimo titolo del Grande Slam e supera Rafa Nadal, il rivale di sempre insieme a Roger Federer, con i quali ha scritto l’epopea di questa età d’oro del tennis. Ha vinto nonostante lo abbiano costretto a saltare, negli ultimi due anni, tutti i tornei americani e australiani, ad un’età, 36 anni, in cui il tempo è prezioso. Hanno cercato in tutti i modi di umiliarlo, discriminarlo, distruggerlo, a partire dal soprannome “No-vax Djoko-covid”. Non importa chi sei e cosa fai, non importa aver creato una Fondazione che assiste migliaia di famiglie in difficoltà o aver aiutato i tennisti che, senza il gettone di presenza alle competizioni, facevano la fame o aver donato un milione di euro agli ospedali di Bergamo a inizio pandemia. Se non sei vaccinato meriti l’esclusione sportiva, la rinnegazione sociale, la gogna mediatica e persino il carcere. Come accaduto in Australia quando è stato deportato in un centro profughi per una settimana, con il tripudio della stampa mondiale. La vicenda è nota: il 5 gennaio 2022 Djokovic atterra a Melbourne per partecipare al torneo che ha già vinto nove volte ma viene fermato dalla polizia di frontiera, malgrado l’autorizzazione fornitagli da “Tennis Australia”, l’ente organizzatore della competizione. Il serbo fa ricorso e il giudice riconosce la validità dei documenti presentati (ha avuto il Covid ed è guarito) ma il ministro dell’Immigrazione interviene annullando il visto e decretandone l’espulsione definitiva. “Accolgo con favore la decisione di mantenere forti i nostri confini e proteggere gli australiani”, commenta Scott Morrison, primo ministro della Nazione che ha adottato le restrizioni antipandemiche più feroci al mondo, insieme a Italia e Canada.

“Sono diventato un caso politico, uno che metteva in pericolo il mondo.” – ha detto un mese fa Djokovic ricordando ciò che ha dovuto subire negli ultimi anni – “Il sistema, di cui i media sono parte, esigeva un bersaglio che fosse opposto al mainstream e lo sono diventato io. Mi hanno messo l’etichetta di no vax, una cosa del tutto falsa. Io non sono no vax e non ho mai detto in vita mia di esserlo. Non sono neppure pro vax. Sono pro choice: difendo la libertà di scelta. È un diritto fondamentale dell’uomo la libertà di decidere che cosa inoculare nel proprio corpo e cosa no.” “Mi sono ritrovato solo, mi sono sentito una pecora circondata da venti lupi. E un uomo solo contro i grandi media non ha chance”, ha aggiunto. “Un giorno ero nella foresta, avrò avuto dieci anni, e ho incontrato un lupo. Provai una paura profonda. Mi avevano detto che in questi casi bisogna indietreggiare lentamente, senza perderlo di vista. Ci siamo guardati per dieci secondi, i più lunghi della mia vita; poi lui ha piegato a sinistra e se n’è andato. Provai una sensazione fortissima che non mi ha mai abbandonato: una connessione d’anima, di spirito. Non ho mai creduto alle coincidenze, e pure quel lupo non lo era. Era previsto. È stato un incontro breve, ma molto importante. Spesso nella vita mi sono ritrovato solo. Solo con la mia missione, con i miei obiettivi da raggiungere. Sono rimasto connesso con quel lupo”. Quel lupo, simbolo di libertà inaddomesticabile, deve avergli dato forza quando è stato circondato dal branco e aggredito da un linciaggio mediatico mondiale vergognoso.

Che sui campi da tennis si stessero giocando ben altre partite è evidenziato dal fatto che, subito dopo la cacciata di Djokovic dal torneo di Melbourne, Wimbledon vietava la partecipazione ai giocatori russi. In soli quattro mesi, la nozione di “nemico pubblico” è passata dal vaccino alla guerra, adottando la stessa campagna d’odio. Dall’Australia all’Inghilterra, da Djokovic a Medvedev, le pratiche del potere si esercitano disciplinando il corpo degli atleti, regolamentandone gli accessi, i divieti e i movimenti al di qua o al di là di una linea ritenuta “politicamente corretta”, sottile e fatale come la linea di fondocampo. “Out”, grida il giudice di linea quando la palla è fuori. Solo che la linea è diventata elastica e si sposta in base al volere dell’autorità che modifica arbitrariamente le regole del gioco. Il tennis è diventato strumento di propaganda ideologica: partita persa, per lo sport, tutto, e per i valori che rappresenta. La politica entra in campo per ammaestrare il corpo sociale, addomesticare l’immaginario e selezionare i nuovi eroi “politicamente corretti”: in ogni angolo del mondo c’è un ragazzino che sogna di diventare Djokovic o Medvedev. Di fronte al totalitarismo ideologico in cui l’obbedienza acritica alle regole è stata presentata come medaglia di civismo e di altruismo, Djokovic ha dimostrato cosa sia la dignità, l’onore e il coraggio di difendere le proprie idee anche a costo di pagarne un prezzo altissimo. Una lezione di vita impartita a milioni di persone, in particolare a tutti quei bambini e adolescenti esclusi dallo sport durante la pandemia con il benestare del Coni, senza che nessuno dicesse niente.

Set dopo set, Djokovic ha sconfitto tutti gli avversari, ma negli ultimi due anni la partita più importante l’ha dovuta giocare fuori dal campo, in lotta da solo contro tutti. È una battaglia che poteva vincere solo Nole, allenato da sempre a sopportare le avversità. Nato a Belgrado, da bambino si allenava accanto alle macerie, sotto i bombardamenti della Nato. E sognava di vincere Wimbledon. Una volta fu costretto a nascondersi in un rifugio antiaereo per 78 notti consecutive. “Fu uno dei periodi più duri per il mio Paese e per tutta l’Europa, c’era l’embargo, dovevamo metterci in fila per avere una razione giornaliera di pane, di latte, un po’ d’acqua e le altre cose basilari per vivere. Queste cose ti segnano, hanno avuto una influenza decisiva sulla mia formazione, anche dal punto di vista sportivo, mi hanno reso più forte e più affamato. Nei momenti complicati, cerco sempre di ricordare da dove sono venuto”. È qui, in mezzo alla paura e alla morte, che Nole forgia il suo carattere. Neanche la guerra riesce a spegnere il suo sogno. Quando ha solo sei anni, viene notato da Jelena Gencic – l’allenatrice di Monica Seles – che intuisce che quel bambino possiede qualità fuori dal comune e ne modella il talento. I genitori gestiscono una pizzeria e finiscono persino in mano agli usurai per pagare le lezioni di tennis. Ancora giovanissimo, Novak arriva in Italia nel 2004, per farsi allenare da Riccardo Piatti che stava seguendo un altro fuoriclasse: “questo diventa come Ljubicic “, gli dicevano, “anche meglio!”, rispondeva il coach comasco. Da allora ha sempre avuto un rapporto speciale con il nostro paese e sa parlare anche l’italiano. Il resto è storia con 10 Australian Open, 7 Wimbledon, 3 Us Open e 3 Roland Garros vinti. Una storia che assume anche i colori dell’epica con la finale di Wimbledon del 2019 contro Roger Federer, che molti non hanno esitato a definire la partita del secolo. Cinque ore di gioco, cinque set, e quei due che hanno già vinto tutto, guadagnato miliardi, non mollano un colpo consumati dalla loro passione divorante. Alla fine vince Djokovic 13 a 12 al quinto set. Ma soffre perché non è amato dal pubblico. La gente ama solo quei due: Federer, il Raffaello di un tennis fatto di grazia e classe, e Nadal, il gladiatore tutto muscoli e grinta. Djokovic è arrivato un attimo dopo, terzo incomodo non previsto nell’epopea cominciata senza di lui. Inoltre, la sua forza mentale, la sua capacità di concentrazione, lo fanno sembrare poco empatico, lo paragonano a un robot. Due anni fa era a un passo dalla leggenda, poteva conquistare il Grande Slam, cioè vincere i quattro principali tornei del circuito nello stesso anno. Scende in campo a New York per la finale degli Us Open contro Medvedev e non ne azzecca una, sbaglia tutto, è visibilmente teso. È la sua delusione sportiva più amara. Però succede che il pubblico vedendolo così vulnerabile inizia, per la prima volta in 20 anni, ad acclamarlo, a tifare per lui. Nole l’invincibile è vinto dalle emozioni, si commuove, piange. E dice durante la premiazione: “Il mio cuore è pieno di gioia, mi avete fatto sentire speciale sul campo di tennis, avete toccato la mia anima, non mi sono mai sentito così”. Finalmente ha guadagnato anche l’affetto della gente, l’unica coppa che gli mancava…

Un anno dopo essere stato cacciato come un delinquente dagli Australian Open, Djokovic torna e vince il suo 22° titolo del Grande Slam di fronte a Bill Gates presente fra il pubblico. L’11 giugno conquista Parigi ed entra nella leggenda. In un’ intervista del 2022 alla BBC in cui gli avevano chiesto se era disposto a rinunciare alla possibilità di diventare il più grande giocatore che abbia mai preso in mano una racchetta, Nole aveva detto: “se questo è il prezzo, sono disposto a pagarlo, per me è più importante che la gente mi ricordi come persona, come qualcuno che ha mantenuto la giusta direzione in ogni aspetto della sua carriera”.

Il ragazzo di Belgrado ha portato sul campo da tennis la sua lotta per la sopravvivenza, ogni incontro una battaglia, ogni partita una questione di vita o di morte. Di fronte a un avversario apparentemente imbattibile, bisogna giocare ogni palla, rispondere sempre, resistere anche nei momenti più difficili, approfittare di ogni errore gratuito, mantenere lucidità mentale e visione di gioco fino ad assestare il colpo vincente, senza perdere mai la speranza. In lotta da solo contro il mondo intero, Djokovic ha dimostrato che vincere si può.

Sonia Milone

 

 
Cinquanta sfumature di verde PDF Stampa E-mail

22 Giugno 2023

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 Da Rassegna di Arianna del 20-6-2023 (N.d.d.)

Heidegger ha scritto nella sua "Introduzione alla metafisica" (1935): «L’oscuramento del mondo, la fuga degli dèi, la distruzione della Terra, la gregarizzazione dell’uomo, il sospetto odioso verso tutto ciò che è creativo e libero, tutto ciò ha raggiunto, su tutta la Terra, proporzioni tali che categorie infantili come pessimismo e ottimismo da tempo sono diventate ridicole».

Sono parole che si applicano benissimo all’ecologia. Oggi, a parte qualche scontroso reazionario, tutti si dicono ecologisti. Se ne potrebbe essere lieti se, dell’ecologia, non si potessero avere le idee più diverse, le peggiori come le migliori. Lo testimoniano le due forme di ecologia più diffuse nel solco dell’ideologia dominante: da un lato il “capitalismo verde” e il suo corollario, lo “sviluppo sostenibile”, dall’altro l’ecologismo radical chic, che è anche quello dei partiti Verdi. La teoria dello sviluppo sostenibile vuol fare quadrare il cerchio: guardandosi dal mettere in discussione il capitalismo, che è la maggiore causa della devastazione della Terra perché per sua natura combatte tutto ciò che rischia di ostacolare l’espansione planetaria del mercato, pretende di difendere l’ambiente senza però ripudiare l’ideale moderno della crescita. Ma, bisogna ripeterlo, non si può avere una crescita industriale e demografica infinita in uno spazio finito. Lo sviluppo sostenibile, pilotato da esperti che credono che l’ideologia si riduca alle anomalie climatiche e all’impronta carbone, che contano sulle “tecno soluzioni”, cioè sul ricorso a sempre più tecnica per correggere la tecnica, e vogliono decidere su tutto in termini di quantità e redditività perché nella natura vedono solo un oggetto da gestire, si accontenta di rinviare le scadenze, adottando l’atteggiamento di un pilota di nave che, avvertito di star dirigendosi contro gli scogli, decide di ridurre la velocità invece di cambiare rotta. Chi parla di ecologia senza mettere sotto accusa il capitalismo farebbe meglio a tacere.

L’ecologismo radical chic, invece, funziona sulla tematica del pentimento morale in una prospettiva “planetaria” e apocalittica («pentitevi, perché la fine è vicina!»). Veicolato da piccoli borghesi delle grandi città che non hanno alcuna idea di cosa sia davvero la natura (i cacciatori la conoscono e la rispettano meglio di loro), perorano un’ecologia fondamentalmente punitiva col pretesto di “far del bene al pianeta”, che ai loro occhi non è che uno spazio mondiale in via di unificazione. Come fare del bene al pianeta? Proibendo gli alberi di Natale, il foie gras, la caccia alla lepre e le corride, favorendo la promozione delle pale eoliche e dei monopattini elettrici, vandalizzando le opere d’arte o magari legalizzando la cannabis e inviando carri all’Ucraina. Strano modo di preservare l’ambiente.

Che fare, allora, se si vuol restituire all’ecologia il suo vero senso? Innanzitutto evitare quella che Bernard Charbonneau chiamava la «periferizzazione del mondo», la trasformazione del mondo in una periferia senza fine, fatta di costruzioni industriali, sedi di grosse società, terre desolate, “grandi insiemi” e centri commerciali. Impedire la devastazione del mondo da parte di un capitalismo liberale che cerca solo di massimizzare i profitti. Preservarlo dall’accelerazione del tempo e dal restringimento dello spazio. Farne un luogo non solo vivibile, ma abitabile.

Questa ecologia è un’ecologia del locale, del territorio, del paesaggio, del sito, del «luogo che fa legame» (Maffesoli). L’ecologista sincero è un amico dei luoghi, che sono altrettanti abiti con cui i popoli hanno rivestito la Terra. I luoghi, come gli uomini che li abitano, non sono intercambiabili, anche se entrambi vivono nell’orizzonte della precarietà. Nietzsche diceva che «l’occhio del nichilista idealizza nel senso della bruttezza». La bruttezza oggi è voluta e ricercata, perché la bellezza è considerata superata. Occorre restituire al mondo la sua bellezza e la sua diversità, a partire dalla diversità dei popoli e delle culture. Non si tratta solo di rispettare l’ambiente, ma di rifondare un’amichevole connivenza fra l’uomo e la natura, che si potrebbe riassumere nei termini di Martin Buber: sostituire l’io-tu all’io-ciò. Ritrovare il senso del cosmos. Smettere di ragionare secondo il dualismo soggetto-oggetto ereditato da Cartesio che inaugura un’assoluta separazione tra la cultura e la natura, gettando le basi di quello che Augustin Berque chiama il paradigma occidentale moderno classico. Armonia ma non fusione. Perché bisogna anche respingere l’ecologismo New Age, mistico e fusionale, e l’antispecismo, che vuole dimenticare che l’uomo è creatore di se stesso perché, contrariamente agli altri animali, l’ambito che gli appartiene in proprio è la storicità. Solo l’uomo diviene storicamente. L’umanità è una solo biologicamente; culturalmente è per forza molteplice. L’uomo non ha un ambiente specifico. Crea il suo a sua guisa, e questa disposizione sfocia nella diversità delle culture.

L’ecologia è fondamentalmente conservatrice, poiché si batte per il rispetto degli ecosistemi e dei cicli naturali, valorizza il radicamento, rifiuta il saccheggio dei paesaggi, ha il senso della terra, diffida tradizionalmente dei danni provocati in nome del produttivismo e del progresso. Ma è anche rivoluzionaria. Nel 1937, Bernard Charbonneau pubblicò un articolo intitolato "Il sentimento della natura, forza rivoluzionaria", constatando che «in un mondo che si lascia andare nel corso del Niagara economico, la conservazione diventa rivoluzionaria». Aveva ragione. Cambiare rotta sarebbe un atto molto profondamente conservatore e perfettamente rivoluzionario.

Alain de Benoist

 

 
Contro la competizione PDF Stampa E-mail

21 Giugno 2023 

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 Da Appelloalpopolo del 16-6-2023 (N.d.d.)

Si dice che la competizione faccia migliorare le prestazioni e l’efficienza del gruppo che la pratica. Ma ognuno di noi sa che la realtà non è questa. La competizione individuale in un gruppo non passa quasi mai per miglioramenti individuali che meritoriamente distanzino gli altri, ma passa soprattutto per quelle soft skill e malcelate abilità in grado di mettere in cattiva luce e bloccare il lavoro dell’altro

Gli esempi sono moltissimi. Si passa dall’asimmetria informativa volontaria ed involontaria, al volontario ostacolo di progetti e cambi che avvantaggerebbero altri, alla selezione di sottoposti incapaci per mantenerne il controllo. La competizione non è altro che l’ottenimento di un privilegio da usare per primi contro il prossimo in modo che sia inoffensivo e non possa fare altrettanto con te. La competizione è solo questa, non esiste distinzione morale tra buona e cattiva. L’unico modo di resistergli è avere la fortuna, insieme alla volontà, di rifiutarla in toto.

Se non competi, ti salverai.

Davide Visigalli 

 
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