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La guerra per nascondere il fallimento PDF Stampa E-mail

17 Marzo 2024

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 Da Comedonchisciotte del 16-3-2024 (N.d.d.)

[…] Nel 1914, i Governi europei scelsero la guerra semplicemente perché non erano in grado di affrontare il crescente scontento delle masse proletarie industriali e contadine. Strasburgo, Trento e Trieste, la neutralità del Belgio, etc. furono effettivamente pretesti – non senza qualche fondamento – delle élite dominanti, per non parlare delle tensioni, sia etniche che sociali, che affliggevano l’Impero Austro Ungarico e l’Impero Russo.  Inviare a morte certa qualche decina di milioni di disgraziati, esistenzialmente “colpevoli” solo di essere nati in Europa alla fine del 1800, sembrò la scelta migliore.

Eppure, per oltre un intero decennio dopo la WW1, prevalse la favola dell’integrale responsabilità di Germania e Austria-Ungheria. In tale “ottica”, la visita ufficiale del Presidente francese Raymond Poincaré a San Pietroburgo del 21 luglio 1914, durante la quale garantì allo Zar Nicola II il supporto incondizionato della Francia alla Russia contro Austria – Ungheria e Germania,  manifestando, inoltre,  la ferma convinzione della vittoria nell’imminente guerra – nove giorni prima della mobilitazione russa – è stata trattata dalla storiografia favolistica dei vincitori della WW1 come, in sostanza, una innocente scampagnata. E la decisione di mobilitare l’esercito francese nello stesso giorno, il 1° agosto 1914, in cui la Germania aveva dichiarato guerra alla Russia (per il rifiuto russo di smobilitare), sempre secondo la favolistica dei vincitori della WW1 sarebbe stata “una decisione essenzialmente difensiva”. Siamo nel più pieno ridicolo, a livello avanspettacolo, ma alla fine non c’è molto da ridere: infatti, nella presunta coscienza della storiografia dominante – quella dei vincitori – il farabuttone guerrafondaio Raymond Poincaré l’ha scampata alla grande: sono pochi gli storici che lo annoverano tra i principali responsabili della WW1.

Le analogie dello scenario pre WW1 con quello odierno sono più che evidenti sotto diversi profili, ma grazie alla penetrazione pervasiva dei mass media mainstream, in Occidente siamo ormai nel regno della propaganda più ignorante, becera e disonesta. Come l’Europa pre WW1 era in crisi per via dell’incapacità del modello di sviluppo liberista di gestire la massa del proletariato industriale e contadino, così l’odierna UE non è in grado di gestire l’ assoluto e completo fallimento del suo modello di sviluppo. Dopo oltre 20 anni dall’adozione dell’euro e dall’accessione dei Paesi dell’ Est, secondo tutte le statistiche l’UE ha perso oltre il 30% della crescita, del reddito e del potere d’acquisto rispetto agli USA, protagonisti insieme a Cina ed alcuni Paesi asiatici della seconda rivoluzione industriale di internet, Telecom e nuovi media. Non solo, è ormai evidente anche il deciso fallimento della politica di integrazione dell’immigrazione di massa dal Terzo Mondo: in particolare in Francia, Belgio, Italia, Spagna, Paesi Bassi e Svezia è sotto gli occhi di tutti l’estrema difficoltà d’integrare in modo stabile e produttivo i discendenti di immigrati alla seconda, terza e perfino quarta generazione. In tutta l’Europa occidentale, l’assistenzialismo a favore degli immigrati non integrati ha ridotto esponenzialmente  il welfare e l’assistenza sociale delle popolazioni indigene, mentre gli standard di sicurezza pubblica sono degenerati esponenzialmente (Svezia in testa). Il radicale e massiccio interventismo politico ed economico del Governo eletto-da-nessuno della Commissione UE a favore di alcune aree (l’Est Europa) ed alcuni settori (l’economia green e, con la guerra russo-ucraina, il settore militar-industriale), a colpi di centinaia di miliardi di sussidi, agevolazioni e finanziamenti a pioggia, indipendentemente dalle intenzioni ha condotto a risultati catastrofici, quali appunto sintetizzati nella perdita netta di oltre il 30% della crescita, del reddito e del potere d’acquisto rispetto agli USA. Il progetto politico ed economico della Commissione UE, a partire dall’alleanza con gli USA di Obama, era ed è, molto semplicemente, l’estensione imperiale ad Est a scapito della Russia: il nuovo Drang nach Osten. I giganteschi sussidi a pioggia all’ Est Europa sono innanzitutto un’arma politica, una vetrina del benessere europeo sbattuta in faccia ai Russi. Ma il progetto è fallito miseramente: nonostante i miliardi offerti, l’aut-aut imposto dall’UE all’ Ucraina nel negoziato per l’accordo di associazione – o con l’UE, o con la Russia – ha portato alla guerra civile ed al colpo di stato del 2014, e successivamente alla guerra russo-ucraina.

Oggi dovrebbe essere chiaro a tutti che l’Ucraina ha perso la guerra, e che l’unica via d’uscita è la pace, attraverso la definitiva attribuzione alla Russia dei territori occupati – da sempre popolati al 75-80% da Russi – e la garanzia della non adesione alla Nato dell’Ucraina. È una via d’uscita relativamente facile, ed è infatti quella che prospetta la probabile Presidenza Trump. Dovremmo esserne tutti felici: tra l’altro, la rinuncia al gas russo ha portato alla recessione industriale di Germania e Italia. Ed invece, di fronte alla prospettiva della vittoria di Donald Trump e della pace nella guerra russo-ucraina, l’ Europa sta dimostrando di volere la guerra. Si sentono ormai discorsi letteralmente deliranti, dalla guerrafondaia cronica Albrecht VDL al Presidente francese Macron, secondo il quale “se la Russia vincesse la guerra, in Europa non saremmo più tranquilli”. Eppure, dopo la sconfitta della Francia nell’ignobile guerra contro l’Algeria (1954-1962), reputata nemmeno una colonia, ma direttamente “territorio francese” (!!!), l’ Europa e il Nord Africa sono rimasti tranquillissimi per decenni. Idem dopo la fine della guerra civile jugoslava, grazie alla separazione delle parti in conflitto attraverso frontiere definite dall’appartenenza nazionale, soluzione peraltro comparativamente più facile nel caso russo-ucraino. Per non parlare dell’altrettanto ignobile guerra alla Libia, inizialmente scatenata sempre dalla Francia. Se siamo rimasti “tranquilli” dopo quelle guerre ignobili, non si vede perché lo stesso non dovrebbe accadere dopo la pace russo-ucraina. In base a quale logica  si attribuisce a Putin la volontà dell’Armageddon nucleare? Chiunque, Putin incluso, afferra che la Russia ne uscirebbe distrutta, tanto quanto l’Europa e gli USA. Ma non solo la Francia e la Commissione UE, anche GB, Germania e Italia, più ovviamente Polonia e Baltici, si sono dichiarati fermamente intenzionati a continuare ad armare e ad assistere l’Ucraina, firmando accordi e stanziando miliardi di aiuti – in anticipo sulla probabile vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali USA del prossimo novembre. Come dire, mettere il carro davanti ai buoi…

La spiegazione è una sola: il modello di sviluppo (fallito) della Commissione UE prevede necessariamente il Risiko regressivo dell’estensione imperiale ad Est, a diretto scapito della Russia, e l’UE non ha la minima intenzione di rinunciarci, anche se gli USA di Donald Trump si chiamassero fuori. Dopo l’Ucraina, già si sogna la Georgia e l’Armenia… questo è il risultato dell’aver creato un vero e proprio mostro giuridico, dotato di immensi poteri, quale il Governo-eletto-da-nessuno e non sfiduciabile, e pertanto irresponsabile, della Commissione UE.

È esperienza comune, tra lettori e studiosi della storia dello scorso secolo, domandarsi con meraviglia come mai i popoli europei non si accorsero di starsi dirigendo verso le catastrofi epocali della WW1 e della WW2. Ieri come oggi, la risposta è una sola: perché i popoli europei hanno continuato a credere, votare e sostenere le lobbies criminali ed i Governi che le hanno volute, ai quali oggi si aggiunge il mostro del Governo-eletto-da-nessuno della Commissione UE. C’è solo una strada per evitare la Terza Guerra Mondiale: quella della protesta generalizzata dei popoli europei contro la guerra, senza distinzioni tra destra e sinistra tradizionali. E purtroppo, non se ne vede  ancora traccia…

 Belisario 

 
Mobilitazione del 16 Marzo PDF Stampa E-mail

15 Marzo 2024

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 Il 16 marzo l’Italia vedrà in piazza i cittadini aderenti alla mobilitazione unitaria nazionale promossa del Coordinamento No OMS – No Piano Pandemico per chiedere al Governo italiano di tutelare la Sovranità Nazionale e di difendere la salute, la democrazia e la libertà. Il neonato Coordinamento No OMS – No Piano Pandemico scende in piazza in gran parte delle regioni italiane per chiedere al Governo italiano di:

rifare il nuovo Piano Pandemico nazionale in quanto acritica riproposizione delle misure già adottate durante gestione del Covid che si sono rivelate, inefficaci, dannose e antidemocratiche;

rigettare gli emendamenti al Regolamento Sanitario Internazionale dell’OMS, che mirano a trasformare un organo consultivo in un governo sanitario mondiale con poteri giuridicamente vincolanti;

rigettare il nuovo Trattato Pandemico che mira a trasferire la sovranità in campo sanitario, veterinario, ambientale all’M.S. che andrebbe quindi a limitare le libertà fondamentali dei singoli e degli Stati.

Le 6 richieste dettagliate in un manifesto sono:

totale ricambio dei tecnocrati che hanno tragicamente gestito le politiche sanitarie durante la pandemia e che le hanno riproposte nel nuovo Piano;

ritiro dell’attuale Piano pandemico, affidando la stesura di quello nuovo a tecnici non implicati con scelte della precedente Amministrazione e coinvolgendo esperti indipendenti, liberi dai condizionamenti delle industrie farmaceutiche e dalle pressioni della cupola dell’OMS, che forniscano valide prove scientifiche dell’efficacia e sicurezza delle misure proposte;

discussione pubblica, aperta e democratica sul nuovo Piano Pandemico con la libertà di informazione (in contraddittorio) tuttora negata;

serio avvio alla Commissione d’inchiesta sul virus SARS-CoV-2, e sulla catastrofica gestione della pandemia e sulle responsabilità;

in vista della settantasettesima assemblea mondiale dell’OMS (Ginevra, 27 maggio 1° giugno 2024),

invio di una delegazione che, oltre a respingere il previsto Trattato Pandemico, rigetti tutte le modifiche peggiorative del nuovo Regolamento Sanitario Internazionale (RSI).

opposizione al tentativo di affidare nuovi poteri profondamente lesivi delle sovranità degli stati nazionali a questa OMS, che ha già mostrato di abusare dei suoi poteri attuali.

Coordinamento No OMS – No Piano Pandemico

Le città che scenderanno in piazza sono riportate nella locandina ufficiale della mobilitazione

 

 
Crisi della narrazione PDF Stampa E-mail

13 Marzo 2024

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 Da Rassegna di Arianna dell’11-3-2024 (N.d.d.)

Eccoli, i nuovi poveri. Non sono poveri di mezzi, bisognosi di mangiare, di vestirsi, di una casa; non sono poveri economici, come si dice per i migranti né fanno parte di quei milioni di cittadini, pensionati, che non riescono ad arrivare a fine mese. In una società che riconosce l’esistenza dei beni immateriali ci sono i poveri di beni immateriali. Poveri di vita, poveri di esperienze da raccontare, forse poveri di spirito. Sono soprattutto giovani, ma la nuova povertà investe l’intera società e le relazioni pubbliche. Non sanno cosa raccontarsi, tacciono, ripiegano sui loro smartphone, sugli schermi, sulle storie finte e prefabbricate a cui possono accedere. L’indigenza di questo nuovo ceto di “miserabili”, che possono essere pure agiati, investe quel bene elementare che è l’esperienza, e la prima forma di comunicazione culturale, il racconto. È “la crisi della narrazione”: così la chiama Byung-Chul Han, prolifico filosofo sociale tedesco-coreano, nel suo nuovo saggio tradotto da Einaudi. La povertà attiene, a suo parere, all’informazione, alla politica e alla vita quotidiana; investe dunque anche i media. Ma la gente, oltre a vivere sempre meno esperienze da raccontare, legge meno e conosce sempre meno esperienze altrui che meritano di essere narrate. Si potrebbe infatti risolvere la questione dicendo che è un effetto della crisi dell’informazione, il calo della lettura; ma sarebbe una mezza bugia. Perché anche le società analfabete, le società povere del passato che non s’informavano se non attraverso il passaparola, i si dice, la piazza, il mercato, inteso come esperienza di vita prima che come luogo in cui si vendono merci, avevano un ricco tessuto narrativo, comunicavano perché erano comunitarie, socievoli; erano ricche di passato.

Eppure viviamo dentro una bolla narrativa permanente, uno storytelling rumoroso e contagioso; ma frastornati da questo incessante cicalare dei mezzi di comunicazione viviamo dentro un vuoto narrativo. Viviamo anzi, secondo il filosofo, “in una società postnarrativa”; e senza racconto “non si dà alcuna festività”, nessun sentimento di celebrazione, “nessuna intensificazione emotiva dell’essere”. Eppure se senti le interviste e i reportage sugli eventi pubblici, la parola chiave, ricorrente, anzi ossessiva, è “emozione”. Non c’era intervista intorno a un evento pervasivo come Sanremo che non ruotasse intorno alla parola emozione; era l’unico esito, l’unica domanda e l’unica risposta sull’esperienza canora. In questo quadro, dice Han, trovano spazio “i modelli narrativi populisti, nazionalisti, di estrema destra o tribali, inclusi i modelli narrativi complottistici”. Fanno presa perché offrono a buon mercato senso e identità, anche se non sviluppano coesione sociale. Perché gli utenti sono consumatori solitari.

Eppure la narrazione deborda tramite film, tv, storie sui social, e veicola l’ideologia del nostro tempo. Ma non è una contraddizione, anzi c’è un nesso tra questa narrazione woke, massiccia e invasiva, e la crisi del racconto. Perché non se ne può più di quello storytelling moralista a senso unico, ci sentiamo prigionieri di quegli schemi obbligati: se si narra di storia, il tema è il nazismo e suoi affluenti; se si racconta di storia sociale il tema è il razzismo e i suoi annessi e connessi; se si racconta una storia intima è storia di omosessuali e simili; se è storia di genere è femminismo, inclusione, ecc. Il buono nel racconto è sempre nero, donna o vittima rituale del cattivo, il conservatore, il nazionalista, la società patriarcale e tradizionale. E per uscire da questa cappa, per colmare un bisogno di senso, identità e orientamento, non resta a molti che abbandonarsi alla contronarrazione, quella che non proviene dall’alto ma dal basso, quella populista, radicale, perfino complottista. Anche il romanzo contemporaneo, per Han, non genera comunità ma promuove solitudine, anzi peggio, isolamento. “Siamo marionette tenute al filo da forze sconosciute”, dice Georg Bruckner. Niente viene più tramandato, non c’è più esperienza verticale che si trasmetta tra le generazioni, mancando la memoria storica e il legame generazionale tra giovani e vecchi; al suo posto disponiamo dello sterminato menu del web o dei social, che ci narrano in progress il presente, le novità trendy, le tendenze prevalenti. Anzi le sue tendenziosità prevalenti, dunque il narrare cede il passo alla veicolazione ideologica, alla tesi prefabbricata. Il nuovo barbaro, nota Han, “celebra la povertà d’esperienza come un’emancipazione”; così siamo diventati poveri. Abbiamo ceduto un pezzo dopo l’altro dell’eredità umana. Viviamo in una società di vetro: perciò tutto dev’essere trasparente, vuoto, fragile e se si frantuma, tagliente, pericoloso. Una società senza alternative, oltre che priva di nostalgia. Il mondo appare “di troppo” come ne La Nausea di Sartre. L’analisi di Han prende una piega conservatrice, critica il dominio della tecnica, dei consumi e dell’intelligenza artificiale, nostalgica dei miti e dell’esperienza reale. Ma Han, come spaventato per la “deriva” reazionaria, alla fine torna precipitosamente indietro, elogia la società inclusiva, la società cosmopolita che è l’esatta negazione della società comunitaria che prima aveva elogiato. E se la prende con i modelli narrativi conservatori e nazionalisti per salvare in corner la sua “inclusione” nella casta intellettuale del nostro tempo. Una ritrattazione che mortifica la sua intelligenza libera e manda all’aria tutto quel che aveva detto fino allora. Ma l’intelligenza esige coraggio e amor di verità…

Marcello Veneziani

 
Terreno conteso PDF Stampa E-mail

11 Marzo 2024

 Da Comedonchisciotte dell’8-3-2024 (N.d.d.)

L’area a sud del Rio Bravo è quella che fin dalla sua “scoperta” da parte dell’Occidente politico ha garantito grandi vantaggi per chi è riuscito ad influenzarla. Se dal XV – XVI secolo furono gli spagnoli e i portoghesi (e in minima parte i francesi) a trarne enormi vantaggi attraverso la “conquista e colonizzazione”, il 1823 è invece l’anno decisivo per l’inizio “ufficiale” della presenza USA. Inizio ufficiale in quanto l’allora Presidente Monroe emanò la sua Dottrina, passata appunto alla storia con il nome di “Dottrina Monroe”. Dottrina che può essere riassunta così: l’America agli americani. Intendendo però un assunto ancora più specifico: l’America agli Stati Uniti. In sostanza, tale enunciazione impegnava Washington a dedicare gran parte delle sue risorse all’allargamento della propria influenza nel continente, intimando al contempo alle potenze colonizzatrici europee arrivate nel XV secolo di non cercare di allargare i propri domini. E di fatto promuovendo anche tutta una serie di misure atte a “invogliare” le potenze del vecchio continente ad abbandonare l’area.

Accanto a questa enunciazione “materiale” si materializzò anche un assunto più “spirituale”: il “Manifest Destiny”. Ossia la convinzione di larga parte dell’élite politica USA che questa nazione fosse stata investita da un compito divino, che avesse avuto un destino chiaro e da mettere in campo: l’esportazione del proprio modello di convivenza, della propria civiltà ove essa non era presente. Due pilastri sui quali sono state costruite le basi dell’impegno statunitense nel continente (e oltre). Due pilastri che hanno fatto da base alla costruzione dell’ “Isola Geopolitica”  di Washington e successivamente della sua capacità di espansione nel mondo. Dove per Isola Geopolitica si intende il Continente americano, negli anni diventato sostanzialmente “immune” dalle interferenze esterne a esso ma ha visto una preponderante influenza di una Nazione: gli Stati Uniti d’America. Questa Isola creata da Washington nel Continente, dunque, insieme alla benevolenza geografica garantita dall’accerchiamento di essa da parte degli Oceani Pacifico ed Atlantico, ha garantito alla maggiore potenza dell’area vantaggi innegabili e indiscussi che hanno fatto da terreno fertile per la sua capacità di proiezione globale (una sorta di sviluppo della medesima Dottrina Monroe, da “continentale” a “mondiale”).

In primis due vantaggi: Materie prime vicine e a basso costo; Reali minacce militari ai confini inesistenti. Situazione sostanzialmente diversa dalle altre Grandi Potenze globali o regionali nel mondo, tutte con vicini più o meno alla ricerca di un loro “posto al sole” da media o grande potenza e con capacità belliche decisamente superiori. Situazione che ha dunque permesso agli USA di soppiantare la Gran Bretagna come prima potenza talassocratica del globo, sfruttando la sua posizione geografica e le sue immense risorse per espandere la propria influenza. Situazione vantaggiosa per gli USA nel suo “cortile di casa” che ha vissuto i suoi maggiori momenti “di gloria” fino alla dissoluzione dell’URSS (nonostante “piccole” ma significative débâcle come la Rivoluzione Cubana). Situazione dunque di sostanziale “sottomissione” dell’area latinoamericana e caraibica (prima sotto il dominio europeo e poi USA), comunque combattuta da ampi strati della popolazione durante i secoli (partendo dalle lotte dei “Libertadores” come Simòn Bolìvar). Bolìvar che aveva intuito la situazione già a inizio XIX secolo quando espresse questa opinione: “Gli Stati Uniti sembrano destinati dalla Provvidenza ad appestare l’America di miserie in nome della libertà”.

Dopo la dissoluzione dell’URSS, dunque, il “rilassamento” di Washington dette la possibilità all’America Latina e ai Caraibi di ritentare uno sganciamento dal “padrino” del Nord e l’ondata socialista iniziata negli anni ’90 del ‘900 grazie alla vittoria alle elezioni del Comandante Chávez in Venezuela ne fu la prova. Un’ondata socialista e progressista mai sopita del tutto, nonostante vittorie e sconfitte. Vittorie e sconfitte che hanno fatto dell’America Latina e dei Caraibi un’area comunque in grande fermento, ancora una volta promotrice di modelli di sviluppo alternativi (CELAC, ALBA – TCP, Socialismo del XXI secolo) e alla continua ricerca di una sua unità e indipendenza scevre dal giogo statunitense.

Un’area che è diventata terreno conteso, terreno di scontro decisivo fra chi aspira al mantenimento dell’ordine globale unipolare e chi invece promuove e si impegna per la nascita di un mondo multipolare. Terreno decisivo di scontro, quello latinoamericano e caraibico, in quanto senza di esso Washington non avrebbe certamente la possibilità di concentrare praticamente tutte le sue forze fuori dal continente, venendogli dunque meno quella sua capacità di proiezione esterna che gli ha garantito la possibilità di essere prima una delle due super potenze nel mondo bipolare e poi l’unica durante l’unipolarismo. Ed è per questo, dunque, che Washington è tornato prepotentemente ad occuparsene già dagli inizi del III millennio.

Per fare qualche esempio: Il sostegno al colpo di stato di Carmona in Venezuela nel 2002, così come il sostegno al Presidente autoproclamatosi Guaidò dal 2019; Il riconoscimento del contestato governo ad interim di Jeanine Áñez in Bolivia del 2019 – 2020. Ed è per questo, però, che anche la Cina e la Russia (le due maggiori potenze del globo alternative a Washington e al modello che esso propugna) si stanno impegnando così decisamente in quest’area. Impegno politico, economico e militare in primis nel sostegno all’ “Asse del Male” (così definito dall’élite politica USA) Nicaragua – Cuba – Venezuela. Impegno che però si concretizza anche nella promozione del rafforzamento dei legami con vari Paesi dell’area sia bilateralmente che all’interno di organizzazioni sovranazionali (leggasi il Brasile nei BRICS e l’invito all’Argentina poi rifiutato da Milei).

Per fare qualche esempio: Cancellamento del 90% del debito cubano verso la Russia nel 2013 – ’14; Investimenti per circa 50 miliardi di dollari in dieci anni nel terzo millennio da parte di Pechino in Venezuela.  Uno scontro a tutto campo fra unipolarismo e multipolarismo, dunque, dove l’America Latina e i Caraibi giocano un ruolo decisivo e imprescindibile sia per chi difende il mondo unipolare sorto dopo la fine della Guerra Fredda che per chi aspira al mondo multipolare dove tale area sarebbe uno dei poli uniti e indipendenti.

 Alessandro Fanetti

 

            
 
Un capro espiatorio PDF Stampa E-mail

9 Marzo 2024

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 Da Comedonchisciotte dell’8-3-2024 (N.d.d.)

Il ritiro di Victoria Nuland è un’ammissione del fallimento del principale progetto di politica estera di Washington. Nessun funzionario governativo è più rappresentativo del fiasco in Ucraina della Nuland. Era sul posto a microgestire le attività durante il colpo di Stato del 2014 e ha supervisionato il sordido coinvolgimento del Dipartimento di Stato fin dagli inizi della guerra. La sua carriera è inestricabilmente legata allo sciagurato disastro sostenuto dalla NATO, che ha provocato la morte inutile di centinaia di migliaia di normali cittadini ucraini e l’annientamento di gran parte del Paese. Pertanto, la domanda che dobbiamo porci è se le persistenti macchinazioni della Nuland per trascinare la NATO in una guerra non vincibile con la Russia siano il motivo per cui è stata rimossa, o meglio, ha annunciato il suo ritiro. Ecco un estratto del comunicato stampa ufficiale del Dipartimento di Stato: Ma è la leadership di Toria (Nuland) sull’Ucraina che i diplomatici e gli studenti di politica estera studieranno per gli anni a venire. I suoi sforzi sono stati indispensabili per fronteggiare l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte di Putin, per mettere insieme una coalizione globale che ne garantisse il fallimento strategico e per aiutare l’Ucraina a lavorare verso il giorno in cui sarà in grado di reggersi saldamente sulle proprie gambe – democraticamente, economicamente e militarmente. On the Retirement of Under Secretary of State for Political Affairs Victoria Nuland, US State Department

Si tratta di un paragrafo straordinario che fa ricadere la colpa della debacle ucraina sulle spalle della Nuland. Sì, è stata “indispensabile” nel guidare gli sforzi per affrontare Putin, così come ha svolto un ruolo critico nel “mettere insieme una coalizione globale” per portare avanti una guerra per procura contro la Russia. Questa affermazione ci dice che la Nuland è stata uno dei principali artefici del conflitto in corso, il che significa che è in gran parte responsabile del crescente divario tra i leader della NATO, la crescente carneficina sul campo di battaglia e la sconfitta strategica dell’America nei confronti del suo principale rivale geopolitico, la Russia. In breve, nessun altro funzionario governativo è più responsabile di Victoria Nuland del pantano ucraino. Inoltre, la Nuland si lascia alle spalle una catastrofe gigantesca per la quale non esiste un rimedio apparente né una facile via d’uscita. Non possiamo aspettarci che l’amministrazione Biden si limiti a “tagliare la corda” in quello che viene percepito come un confronto diretto con Mosca. Biden indubbiamente farà pressioni per salvare la faccia, senza badare ai costi, e metterà ulteriormente a dura prova le relazioni con gli alleati, consegnando al contempo ampie zone dell’Ucraina orientale all’esercito russo. Questa per Washington è chiaramente una situazione senza via d’uscita, ed è per questo che (secondo noi) la Nuland – che ha creato questo pasticcio – ha ricevuto la sua “lettera di licenziamento”. Ecco altre informazioni dalla dichiarazione del Dipartimento di Stato: Il mandato della Nuland conclude tre decenni e mezzo di notevole servizio pubblico sotto sei Presidenti e dieci Segretari di Stato. A partire dal suo primo incarico come funzionario consolare a Guangzhou, in Cina, Toria ha svolto la maggior parte dei lavori in questo Dipartimento. Funzionario politico e Funzionario economico. Portavoce e capo del personale. Vicesegretario aggiunto e Vicesegretario. Inviato speciale e Ambasciatore. Queste esperienze hanno dotato Toria di una conoscenza enciclopedica su un’ampia gamma di questioni e regioni e di una capacità ineguagliata di utilizzare l’intero strumentario della diplomazia americana per promuovere i nostri interessi e i nostri valori. (Dipartimento di Stato USA) In altre parole, Victoria Nuland è una delle diplomatiche più preparate ed esperte dell’intero Dipartimento di Stato, ma – incredibile – la stanno gettando sotto l’autobus in un momento di estrema crisi perché ha fallito nell’incarico più grande e importante dei suoi 35 anni di carriera. Non è questo che stanno dicendo? È così. Si può essere certi al 100% che una pugnace combattente di strada come la Nuland non avrebbe mai gettato la spugna, a meno che non le fosse stato ordinato esplicitamente di andarsene. E, forse, avrebbe potuto mantenere il suo incarico se ci fosse stato qualche segno di progresso nella guerra, ma non c’è alcun segno di progresso. La situazione è molto più disperata e terribile di quanto si sia mai visto. Anche mentre parliamo, le linee del fronte ucraino stanno crollando mentre la conta dei morti continua a salire. L’Ucraina non ha più armi, non ha più uomini e non ha più una guida. È uno scontro totale e lo è da quando Putin aveva richiamato le riserve, più di un anno fa. I giovani vengono mandati al macello e lasciati a marcire in trincee piene di fango che puzzano di polvere da sparo e di morte. Tutto ciò suggerisce che la fine è vicina. E, se la fine è vicina, qualcuno dovrà assumerne la colpa. Ecco che entra in scena la Nuland con un bersaglio dipinto sulla schiena.

La Nuland si merita tutto ciò che le spetta. Da irriducibile guerrafondaia, ha sempre giocato con i fatti costruendo il razionale della guerra su mezze verità e vere e proprie falsificazioni, con l’intento di far precipitare il Paese in un altro inutile salasso che sarebbe inevitabilmente finito con un’altra umiliante sconfitta. Ha ottenuto ciò che voleva e ora sta avendo il giusto castigo. Ecco un breve spezzone di un articolo dell’autrice Karen Kwiatkowski, altrettanto curiosa del finto pensionamento della Nuland: La sua uscita è forse legata al continuo collasso dell’Ucraina come Stato nazionale o all’imminente caduta di Zelensky in un altro colpo di Stato, o peggio? Forse qualcuno sta pianificando un altro colpo di Stato a Kiev, per cercare di fermare l’emorragia, e questa volta la vecchia Vic non è stata invitata. Forse la CIA ha finalmente deciso di tagliare le perdite in Ucraina e lei è solo un danno collaterale. Il suo sostituto è l’ex ambasciatore John Bass, che aveva supervisionato l’eccellente e ben pianificato ritiro dall’Afghanistan qualche estate fa. Potrebbe trattarsi semplicemente di topi che saltano giù da navi che affondano. Tori è stata una figura chiave nel sanguinoso e corrotto collegamento Ucraina-Biden; si spera che la sua improvvisa partenza sia qualcosa di più di un grande e brutto topo assassino che si tuffa negli abissi – che faccia da apripista al resto dei neoconservatoriBye, Bye, Victoria! Karen Kwiatkowski, Lew Rockwell

La Nuland e i suoi ex colleghi, John Brennan e Hillary Clinton, hanno avuto un effetto velenoso sulla nostra politica, elevando la russofobia a religione di Stato e trascinando la reputazione della nazione nel fango in ogni occasione. In un’intervista alla rivista Time, la Nuland aveva baldanzosamente annunciato: Sosterremo l’Ucraina per tutto il tempo necessario. L’Ucraina sta lottando per il ritorno di tutte le sue terre all’interno dei confini nazionali. Li stiamo sostenendo, anche nella preparazione di una prossima dura spinta per riconquistare il loro territorio… La Crimea deve essere – come minimo, come minimo – demilitarizzata. Time Magazine

Assurdo. C’è ancora qualcuno che crede a queste sciocchezze? “Fino a quando sarà necessario” significa probabilmente altri 10-12 mesi al massimo. A quel punto, Washington avrà ritirato il suo sostegno e avrà spostato la sua attenzione su Taiwan. Ci scommetto. In ogni caso, pensiamo che il ritiro della Nuland sia tutt’altro che volontario. Pensiamo che sia stata licenziata dalle élites della politica estera che non credono più alla sua retorica sbruffona e alle vuote promesse di battere Putin. Rimuovendo Nuland riconoscono che la guerra per procura è fallita e che è necessaria una strategia diversa. E, anche se non sappiamo ancora cosa comporterà questo cambiamento di politica, sappiamo che la Nuland non sarà coinvolta nella sua attuazione.

Un ultimo commento: In un’intervista del 22 febbraio 2024 al prestigioso Center for Strategic and International Studies, alla Nuland era stata posta la seguente domanda: “… se il Congresso non agisce (per fornire ulteriori finanziamenti all’Ucraina)… c’è un piano B? L’amministrazione sta pensando a come ottenere aiuti per l’Ucraina? C’è un modo per fornire aiuti all’Ucraina senza utilizzare fondi stanziati dal Congresso? Nuland: Max, siamo al piano A. Siamo al piano A e, francamente, il Senato degli Stati Uniti ha appena approvato questa legge con 70 voti. Questo significa che il popolo americano è fortemente favorevole a continuare ad aiutare l’Ucraina, nell’interesse dell’Ucraina ma anche nel nostro interesse. Quindi penso che la domanda, mentre la Camera dei Rappresentanti si reca nei suoi distretti, sia quale messaggio gli elettori stanno dando ai loro membri del Congresso? E in che modo i membri del Congresso stanno comprendendo come si presenta il mondo e come dovranno rispondere se non sosterranno questi finanziamenti? Sono quindi ottimista su questo fronte. Penso che ci arriveremo. Ma credo che il popolo americano debba parlare con forza ai propri rappresentanti. Under Secretary of State Victoria Nuland: The Two-Year Anniversary of Russia’s Full-Scale Invasion of Ukraine, CSIS Center for Strategic and International Studies

Avete sentito cosa aveva detto? Non c’è un piano B. O gli Stati Uniti prevalgono nella loro guerra per procura con la Russia o cosa? Il caos? L’acquisizione di tutta l’Ucraina da parte della Russia? La dissoluzione della NATO? Cosa? Questo non è il tipo di risposta che le potenti élites della politica estera (che partecipavano all’intervista) volevano sentire. Sanno che l’Ucraina non sta vincendo la guerra, così come sanno che le possibilità di successo dell’Ucraina sono estremamente scarse, a meno che non riceva più soldi, più truppe e più potenza di fuoco, tutte cose che ora sono seriamente in dubbio. Sanno anche che il Dipartimento di Stato non ha in corso alcun negoziato con la Russia, quindi non c’è nemmeno la possibilità di un accordo a sorpresa. E ora la Nuland viene a dire che né lei né i suoi colleghi avevano formulato un piano di riserva per il caso in cui la guerra non avesse dovuto andare come previsto. Nessun piano B. È incredibile. La Nuland è estremamente arrogante o criminalmente negligente, o tutte due le cose. In ogni caso, possiamo capire perché i potenti dell’élite abbiano deciso che era giunto il momento di rottamare l’irascibile signora Nuland.

Purtroppo, non crediamo che “cambiare il messaggero” significhi necessariamente un ripensamento fondamentale della politica. Tuttavia, si tratta di un passo nella giusta direzione. Mentre l'”aria di invincibilità” dell’America continua a erodersi e la sua autorità morale crolla (Gaza), Washington sarà costretta a muoversi in modo più cauto e a “giocare pulito” con i suoi vicini. Quel giorno si sta rapidamente avvicinando. Infine, a prescindere da come lo si guardi, il licenziamento della Nuland è uno sviluppo positivo. Assaporate il momento.

Mike Whitney (tradotto da Markus)

 
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8 Marzo 2024

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 Da Comedonchisciotte del 7-3-2024 (N.d.d.)

Un bel gruppo di cittadini, dunque, è sceso in piazza a Pisa nei giorni scorsi per sostenere gli studenti malmenati e per esprimere contrarietà nei confronti delle posizioni del governo riguardo la tragedia palestinese, bellissimo gesto che rinfranca il cuore e che viene voglia di emulare. Tuttavia, è necessario elaborare ulteriori considerazioni per cercare di contestualizzare l’evento ed analizzarlo, seppur brevemente, nella sua complessità.

I deprecabili episodi repressivi contro i giovani manifestanti sono stati spesso ricondotti all’attuale governo e identificati dunque come espressione della destra violenta che in questi casi mostra il suo vero volto. Tuttavia, è possibile anche osservare che in questa epoca storica, tali azioni inaccettabili sono il frutto di una tendenza tecnocratica dominante (espressione di un neoliberismo senza scrupoli) che transita dal nazionale e si espande nel globale (e viceversa) e che nelle questioni fondamentali (a parte alcuni aspetti meno rilevanti) fa le stesse cose sia quando si manifesta attraverso governi di destra sia quando si manifesta attraverso governi di sinistra. In effetti, mi sembra ormai che la frattura politica non sia più individuabile su una linea verticale come quando era pertinente dividere la destra dalla sinistra, due diversi ambiti politici e culturali. La frattura è ora osservabile su un piano orizzontale, al di sopra di essa troviamo un’élite di potere sorretta da una maggioranza (con motivazioni diverse: dal fanatismo al calcolo, dalla necessità di aggregarsi all’indifferenza) in cui la vecchia destra e la vecchia sinistra si confondono. Mentre al di sotto della frattura troviamo la minoranza, un residuato o, se vogliamo essere ottimisti, un distillato eterogeneo che cerca di organizzarsi tra tante difficoltà, impedimenti e comprensibili disorientamenti e che proviene anch’esso sia dalla destra sia dalla sinistra che furono: sono “gli scarti” di ciò che un tempo costituiva la principale dialettica politica del nostro Paese, ma che non hanno ancora perso lo spirito critico, la consapevolezza e la forza di protestare.

Se oggi le violenze sono imputate al governo di destra, bisogna ricordare che durante il governo Draghi, fu proprio la sinistra (che formava parte del governo) a tacere, a sostenere o a giustificare gli idranti e le cariche delle forze dell’ordine contro i portuali di Trieste che manifestavano contro il green pass; le manganellate che si sono visti piovere in testa i disoccupati (con diversi ricoveri gravi) che manifestavano contro Draghi in visita a Napoli; i manganelli contro gli studenti contrari al green pass a Torino; e ancora le manganellate e gli allontanamenti subiti dai pescatori siciliani come risposta al loro desiderio di incontrare Draghi a Roma; i contenimenti delle proteste pacifiche e la criminalizzazione continua dei manifestanti, ecc. Questi avvenimenti, a differenza di quello pisano, non hanno avuto copertura mediatica adeguata e significativa e sono stati condannati come espressione di disordine, di impedimento della ripresa del Paese, relegati a questioni di ordine pubblico o derisi e giudicati come manifestazioni di incoscienza e di irresponsabilità. La partecipazione e lo sdegno diffuso rispetto ai fatti pisani si è potuta concretizzare anche perché i mezzi di informazione hanno mostrato esplicitamente la violenza e le conseguenze su chi le ha subite, e vi è stata una condanna a livello istituzionale.

Pertanto, non possiamo fare a meno di osservare che le televisioni e i principali mezzi di informazione, nel mostrare in questa occasione un evento drammatico (e censurandolo o manipolandolo in altre occasioni), hanno confermato di avere un ruolo decisivo nel coinvolgere e nell’orientare le idee e i comportamenti; ciò non toglie che i pisani non siano scesi in piazza con convinzione e spirito di solidarietà. Con tutto ciò, dunque, dobbiamo constatare per l’ennesima volta che chi ha in mano i mezzi d’informazione ha in mano il potere, il potere che conta, e troviamo l’ennesima conferma che le nostre società sono sempre più vulnerabili collettivamente e individualmente nei confronti del potere dei media ormai sempre più invasivo, subdolo e decisivo e rispetto al quale c’è sempre meno consapevolezza specialmente sul fatto che, come l’aria che respiriamo, riesce ad agire senza che noi ce ne rendiamo conto.

Se è vero che la copertura mediatica è stata determinante, è vero anche che nei fatti menzionati è stato altrettanto importante il contenuto della protesta, come se ci fossero motivazioni che esigono rispetto e altre, invece, per le quali è consentito l’uso dei manganelli. Se non si condividono le motivazioni di un certo dissenso non si può comunque approvare o rimanere indifferenti di fronte ad una repressione violenta. Non si può, viceversa, condannare la violenza solo quando si condividono le motivazioni di chi sta protestando. Se si è contro la violenza lo si è sempre e non selettivamente. Invece, sempre più spesso, l’indignazione si diffonde per due principali motivi: in primo luogo, quando la violenza viene mostrata in maniera chiara ed esplicita dai media e viene messa in risalto la sofferenza delle vittime; in secondo luogo, se sono condivise le motivazioni politiche che animano tale protesta. Queste prese di posizione, però, funzionali solo ad una soddisfazione momentanea, ad una polarizzazione dogmatica o a un calcolo effimero, ci allontanano sempre più dalle autentiche pratiche democratiche. E così, come in una corsa senza freni, perdiamo velocemente persino il ricordo delle nostre prerogative e responsabilità di cittadini che dovremmo difendere con forza e consapevolezza.

Luigi Contadini

 
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