Società del nichilismo compiuto |
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8 Maggio 2023 Da Rassegna di Arianna del 6-5-2023 (N.d.d.) Qualche settimana fa a Bologna una folla di giovani ha atteso per ore di vedere per un attimo Chiara Ferragni. La notizia colpisce per il fatto che la signora in questione non è un’icona della musica, un’attrice di successo o un’artista. La sua professione è influencer, ossia una persona che – se le parole hanno un senso – tende a determinare il comportamento, le idee, i consumi altrui attraverso dichiarazioni o stile di vita. Un’attività assai prossima all’imbroglio, giacché le azioni degli influencer sono generalmente dettate dal sistema del consumo, in particolare dei beni “posizionali”, quelli cioè che servono a segnalare uno status sociale, una condizione di prestigio, spesso solo un’ aspirazione e un’imitazione gregaria. È grande lo stupore per la scelta dei giovani bolognesi – e dei numerosissimi studenti del suo ateneo – tanto più per la forte tradizione “progressista” della città. La mutazione genetica, culturale, valoriale, dei giovani – italiani e occidentali – è compiuta: sono stati avviati, guidati, persuasi al più compiuto nichilismo. Non si spiega altrimenti la calca e l’attesa per la Ferragni, vista come un modello sociale di successo, nonostante non abbia alcuna particolare abilità artistica o culturale. La triste vittoria del nichilismo gaio di massa è confermata da uno studio spagnolo sulla salute mentale dei connazionali. Quaranta spagnoli su cento ritengono di non godere di buona salute mentale. I giovani sono la fascia di età che valuta più negativamente il proprio stato psicologico: solo uno su tre se ne dichiara soddisfatto. Gli attacchi di panico, l’ansia, gli stati depressivi, in una parola una vita non felice, sembra la normalità per i giovani iberici. L’uso di psicofarmaci riguarda almeno un giovane su due e le benzodiazepine hanno in Spagna più consumatori che nel resto del mondo. Tutto ciò in un paese famoso per la sua allegria, il buon clima e la gioia di vivere. Per di più, si tratta di una nazione che ha le leggi più permissive al mondo in materia di costumi e di nuovi “ diritti”. Evidentemente questo tipo di società fa male: ansiogena, individualista, agonistica, indifferente all’altro, vuota di ancoraggi e credenze. È ormai una malattia in sé e il suo esito è un nichilismo pratico che spaventa. Nessun principio o valore sembra degno di essere professato; si è condotti, per sopportare l’esistenza e cercare squarci di effimera felicità, alla dipendenza da sostanze psicotrope, stupefacenti, alcool, droga , gioco, sesso compulsivo. Paradisi artificiali per sfuggire a inferni reali, rintracciare scopi. Si moltiplicano gli atti di autolesionismo, le condotte antisociali, l’incomunicabilità mascherata dalla bulimia della comunicazione spuria, artificiale , delle reti sociali. Certo, non possiamo definire tutto ciò malattia mentale, ma dimostra una fragilità di fondo, una paura di affrontare la vita, le sue prove, il dolore, che rende insicure, vulnerabile, leggere come fiocchi di neve gran parte delle ultime generazioni. Nulla di strano se si rifugiano nelle dipendenze, tra le quali ha un posto di rilievo quella da reti sociali, l’iperconnessione compulsiva, la sindrome del “ mi piace “, “ non mi piace”, perfino il devastante timore di perdersi qualcosa, di non essere abbastanza alla moda, di non fare certe esperienze, in sostanza non essere abbastanza conformisti, laddove il conformismo postmoderno è un’estenuante gara di trasgressioni eterodirette ai modi di vivere, essere e pensare di ieri. […]Studi e analisi valutano gli effetti, i sintomi, ma non affondano il giudizio sulle cause. Ovvio: dovrebbero revocare in dubbio tutto un sistema, l’intera compagine sociale, il complessivo sistema del “progresso”. Che tale non è se genera disagio mentale, confusione, infelicità, dipendenza da farmaci, e produce un tipo umano nichilista, privo di principi forti, convinto che per nessuna causa valga la pena battersi, se non – per un fugace attimo – per le menzogne ansiogene diffuse dal piano alto di un potere di cui non sospettano neppure l’esistenza. Le masse giovanili si sono dimostrate remissive dinanzi alle imposizioni e alla compressione di libertà quotidiane del terribile triennio epidemico. Hanno cioè introiettato l’ adattamento privo di giudizio che Etienne De La Boétie chiamò servitù volontaria. In America, centro del decadente impero d’Occidente, la condizione giovanile è entrata a vele spiegate nel nichilismo più cupo, favorito dagli innumerevoli ghetti etnici, dalla povertà, dalla desertificazione sociale e familiare, dalla violenza diffusa e dalla frustrazione determinata dall’enormità delle aspettative rispetto alla realtà. Qualcuno fa del male gratuito, nichilismo allo stato puro; un giornalista statunitense ha citato un fatto accaduto a lui a Washington: due ragazzini in moto gli hanno strappato il cellulare dalle mani non per rapina, ma per distruggerlo ridendo; un gesto senza senso, compiutamente nichilista. Quali valori sono stati offerti a quei ragazzi, quali modelli, quali alternative al nulla esistenziale riempito di consumismo banale? Nelle città americane è prassi l’attacco vandalico a negozi e supermercati alimentari, effettuato non da affamati, ma da giovanissimi sociopatici apparentemente normali. L’assurdo è la difesa ad oltranza , con motivazioni “sociali”, da parte della stessa cultura del nulla che li ha resi selvaggi senza idee e senza domani: una generazione intera priva di qualunque disciplina formale, cresciuta senza famiglia nel deserto culturale e valoriale. Vivono nel disordine e sentono il bisogno di creare disordine nella vite degli altri. L’idea che la società intera sia colpevole della condotta di chi aggredisce, distrugge, dà fuoco ai beni altrui o schiaccia un telefono senza ragione è il sintomo di una malattia con prognosi infausta, il nichilismo. Ci vuole più cultura, dicono, ma impazza il suo contrario, la cancellazione chiamata progresso, risveglio, riscatto. Un seguitissimo influencer nero (oops, afroamericano) scrive che l’istruzione è una farsa per gente stupida. “Tutti quei filosofi si sbagliavano. Credevano che il sole girasse intorno alla terra. Pensavano che la luna fosse una stella. Non sapevano niente. L’istruzione classica insegna agli studenti a imparare cose da bianchi.“ A Chicago bande giovanili tengono in scacco interi quartieri con l’unico scopo di impaurire e distruggere. L’ignoranza fa passi da gigante in ogni ambiente sociale e in America è normale considerare razzista la matematica che impone regole fisse per ottenere i risultati “giusti”. Non se la passa meglio la grammatica, che, su pressione dei movimenti radicali woke, viene ora insegnata in maniera “critica” , ossia senza regole sintattiche e lessicali, frutto, secondo la follia emergente, di imposizioni razziste, maschiliste ed eteropatriarcali. Ognuno parlerà come vuole, una Babilonia sino alla reciproca incomunicabilità finale, la liberazione animale dai vincoli della parola. Pura regressione. La generazione degli “zoomers”, nata dopo il 1996, ha trascorso gli ultimi anni in gran parte chiusa in casa a causa della pandemia. Chi studia ha seguito le lezioni a distanza, “zoomando “ in rete. Escono sempre meno, tendono a lasciare lo studio e a non applicarsi al lavoro, sono indifferenti a ogni tradizione spirituale e trascorrono gran parte del tempo online, tra Instagram, chat, YouTube e Pornhub. Sono predisposti per diventare schiavi digitali, un gregge la cui pastura sarà il reddito universale digitale, la connessione perpetua e la promiscuità sessuale, vissuta come moda. A ondate, simili a sciami di cavallette, si agitano quando un gruppo di presunte vittime manifesta un problema di “inclusione”; non appena il rumore si placa, passano alla news successiva in totale indifferenza. Ci sono sinistre analogie con la generazione debosciata degli “ anni ruggenti” (roaring years) descritta dallo scrittore Francis Scott Fitzgerald quasi un secolo fa. Sfibrati sin da giovani, hanno orrore del passato, conosciuto solo attraverso la demonizzazione imposta, alla quale credono con fervore quasi religioso in assenza di contraddittorio. Vedono un futuro tempestoso anche nei momenti più felici, aspettandosi il peggio, terrorizzati dalle catastrofi climatiche annunciate dai burattinai. È un’orda di zombi che marcia senza pensare. Sono come il potere li ha voluti: non hanno altra colpa che aver disattivato il cervello. Anche per questo hanno ampie giustificazioni: l’ignoranza saccente che li avvolge è voluta, perseguita, programmata dalle generazioni adulte. La mutazione nichilista si conclude con l’impressionante auge della confusione sessuale, implementata dall’oligarchia al potere: in America un giovane su cinque della generazione Z si dichiara sessualmente fluido, un dato quasi doppio rispetto a quello, già allarmante, dei Millennials (nati tra il 1981 e il 1996), che già moltiplica per tre i dati precedenti. Secondo Elon Musk, l’unico tecno oligarca ostile all’incultura woke, quello LGBT è ormai “il club dei ragazzi fighi”, una forma di neo conformismo distruttivo. Impressionano i dati sull’uso di sostanze stupefacenti, quasi doppio tra i “non binari” rispetto alla media, la promiscuità sessuale e un’incidenza cinque volte più elevata di malattie sessualmente trasmissibili. Non vi è dubbio che l’infezione americana– è davvero il caso di chiamarla così – stia raggiungendo la periferia dell’impero. Questa è la società del nichilismo compiuto, le cui responsabilità – enormi, criminali – ricadono sulle generazioni adulte. Per chi è bambino negli anni Venti del terzo millennio (presto cambieranno anche la datazione: chi era, dopotutto, quel Cristo che fa da spartiacque abusivo della storia?) c’è l’indottrinamento scolastico gender fin da piccoli, la pornografia infantile proposta dalla figlia dei Clinton ( la mela non cade lontano dall’albero), la precoce sessualizzazione e, su tutto, il fastidio per ogni storia, idea, discorso non corrispondente al canone inverso predisposto, che genera intolleranza, incapacità di partecipare a un dibattito a più voci, in definitiva rancore contro la libertà. Ci capita spesso di pensare con sgomento a come sarà il mondo quando le generazioni formate nel terzo millennio saranno anziane. Sbagliamo: il mondo preparato per loro dalle oligarchie di questo tempo bastardo sarà già sepolto, travolto dalle menzogne e dal tragico nichilismo che pratica senza neppure riconoscerlo. Popoli vivi che credono ancora ai loro occhi, indifferenti alle ubbie “risvegliate” lo avranno travolto e sostituito. Una fine ingloriosa, ma giusta: chi non vuole vivere non merita futuro. Resta a chi scrive, insieme con una profonda amarezza e l’ estraneità dell’esule, un intenso senso di colpa. Non abbiamo fatto abbastanza, non abbiamo lottato, non siamo insorti moralmente per impedire il degrado che abbiamo attorno a noi e che – ammettiamolo – non ci risparmia. La generazione nichilista è figlia nostra. Abbiamo colpe terribili. Possiamo solo tenerci in piedi tra le rovine: per noi, per i giovani che resistono al contagio e per chi, un giorno, rovescerà la tendenza. Oggi è probabilmente perduto: ultimo dovere è la testimonianza per la rinascita di domani o dopodomani. Roberto Pecchioli
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La disoccupazione non è causata dal progresso tecnologico |
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7 Maggio 2023 Da Comedonchisciotte del 4-5-2023 (N.d.d.) La perdita di posti di lavoro dovuta all’introduzione dell’intelligenza artificiale, o più in generale allo sviluppo tecnico, viene sempre tirata in ballo dai suoi critici e dai suoi cantori. Il problema però potrebbe essere visto anche da un’angolatura differente. Non tutti i lavori sono informatizzabili e la maggior parte degli impieghi nel settore dei servizi sicuramente non lo è, questo vale anche nella manifattura e nel commercio. Tutti i lavori del terziario che rientrano nella cura delle persone dipendono dalla ricchezza di un paese piuttosto che dalla sua tecnologia. La perdita di posti di lavoro dovuta al progresso tecnico funziona come un mito che viene riproposto senza tregua, è efficace per far credere di essere alle soglie di un’epoca del tutto nuova, quando invece siamo di fronte alle stesse logiche di sempre. La tecnologia da questo punto di vista sta facendo riemergere qualcosa di molto classico, nei lavori d’ufficio standardizza le mansioni, se prima era richiesta conoscenza, competenza e indipendenza adesso diventa esecuzione ripetitiva di comandi su cui non si può avere alcuna discrezionalità. Le competenze del mondo del lavoro, che fanno tutt’ora parte della sua forza, vengono integrate nelle macchine. Ne deriva un aumento della concorrenza tra lavoratori meno qualificati e lavoratori più qualificati, la loro intercambiabilità , dove l’unica vera novità è il controllo continuo e la valutazione istantanea. L’avvento del web aveva suscitato le più mirabolanti teorie sulla nostra epoca, ma a ben vedere e a dispetto della futurologia, le fabbriche sono ancora lì e sono ancora importanti. Sarebbe il caso di misurare lo scarto tra la promessa dei teorici delle tecnologie digitali e le loro realizzazioni. Il web e l’informatica avevano dato avvio a tutta una serie di dibattiti sulla fine della società industriale, dove saremmo diventati tutti lavoratori autonomi (vero, con tutti i problemi che ciò comporta) e creativi. Alla fine ci ritroviamo a constatare che il lavoro alienato delle catene di montaggio piuttosto che ridursi, conquista sempre nuovi ambienti, e diventa il principio con cui si organizza l’attività mentale . Chiunque abbia a cuore la questione non può non vedere che l’applicazione di questi sistemi in scuole e università, oltre che sul mondo del lavoro, porterà ad un esonero dalle conoscenze di base funzionale ad uno stato di minorità. La critica al processo di digitalizzazione è incredibilmente unanime e allo stesso tempo incredibilmente innocua perché condivide la tesi che saremmo entrati in una nuova epoca, ed è quindi convinta che le tecnologie determinino la fine di ciò che fino a poco tempo fa davamo per scontato. Il racconto secondo cui noi vivremmo in un epoca rivoluzionaria è funzionale al fatto che tutte le idee più radicali e più strampalate vengono legittimate. Ogni volta che sentiamo parlare di un’epoca nuova dovremmo ricordare che cosa è successo durante la pandemia, dove una narrazione che chiedeva drastici interventi unita ad una mistica da cambio d’epoca ha legittimato la fine dei diritti civili. Se le società di big tech tagliano il personale bisognerebbe guardare alla situazione del commercio, allo stato dei consumi e quindi al fatto più semplice che sono aziende capitalistiche come tutte le altre, con l’aggiunta di uno spropositato potere politico. Perché, scusate, ma con tutti i disastri del mondo, ma qualcuno crede veramente che manca il lavoro? Manca chi lo paga. E quindi manca a noi la possibilità di decidere come vogliamo investire, che cosa vogliamo costruire, come vogliamo lavorare. Ci manca la forza e questo non è un problema nuovo. Giacomo Bellucci
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4 Maggio 2023 Da Rassegna di Arianna dell’1-5-2023 (N.d.d.) Nel 1947 un filosofo, che era anche un alto funzionario del governo francese, Alexandre Kojève, pubblicò un testo dal titolo L’impero latino, sulla cui attualità conviene oggi tornare a riflettere. Con singolare preveggenza, l’autore affermava senza riserve che la Germania sarebbe diventata in pochi anni la principale potenza economica europea, riducendo conseguentemente la Francia al rango di una potenza secondaria all’interno dell’Europa continentale. Kojève vedeva con chiarezza la fine degli stati-nazione che avevano fino allora segnato la storia dell’Europa: come l’età moderna aveva significato il tramonto delle formazioni politiche feudali a vantaggio degli stati nazionali, così ora gli stati-nazione dovevano cedere inarrestabilmente il passo a formazioni politiche che superavano i confini delle nazioni e che egli designava col nome di “imperi”. Alla base di questi imperi non poteva essere, però, secondo Kojève, una unità astratta, che prescindesse dalla parentela reale di cultura, di lingua, di modi di vita e di religione: gli imperi – come quelli che egli vedeva già formati davanti ai suoi occhi, l’impero anglosassone (Stati Uniti e Inghilterra) e quello sovietico – dovevano essere “unità politiche transnazionali, ma formate da nazioni apparentate”. Per questo, egli proponeva alla Francia di porsi alla testa di un “impero latino”, che avrebbe unito economicamente e politicamente le tre grandi nazioni latine (insieme alla Francia, la Spagna e l’Italia), in accordo con la Chiesa cattolica, di cui avrebbe raccolto la tradizione e, insieme, aprendosi al Mediterraneo. La Germania protestante, egli argomentava, che sarebbe presto diventata, come di fatto è diventata, la nazione più ricca e potente in Europa, sarebbe stata attratta inesorabilmente dalla sua vocazione extraeuropea verso le forme dell’impero anglosassone. Ma la Francia e le nazioni latine sarebbero rimaste in questa prospettiva un corpo più o meno estraneo, ridotto necessariamente al ruolo periferico di un satellite. Proprio oggi che l’Unione europea si è formata ignorando le concrete parentele culturali può essere utile e urgente riflettere alla proposta di Kojève. Ciò che egli aveva previsto si è puntualmente verificato. Un’Europa che pretende di esistere su una base esclusivamente economica, lasciando da parte le parentele reali di forma di vita, di cultura e di religione, mostra oggi tutta la sua fragilità, proprio e innanzitutto sul piano economico. Qui la pretesa unità ha accentuato invece le differenze e ognuno può vedere a che cosa essa oggi si riduce: a imporre a una maggioranza più povera gli interessi di una minoranza più ricca, che coincidono spesso con quelli di una sola nazione, che sul piano della sua storia recente nulla suggerisce di considerare esemplare. Non solo non ha senso pretendere che un greco o un italiano vivano come un tedesco; ma quand’anche ciò fosse possibile, ciò significherebbe la perdita di quel patrimonio culturale che è fatto innanzitutto di forme di vita. E una unità politica che pretende di ignorare le forme di vita non solo non è destinata a durare, ma, come l’Europa mostra eloquentemente, non riesce nemmeno a costituirsi come tale. Se non si vuole che l’Europa si disgreghi inesorabilmente, come molti segni lasciano prevedere, è consigliabile mettersi fin d’ora a pensare a come la costituzione europea (che, dal punto di vista del diritto pubblico, è bene ricordarlo, non è una costituzione, ma un accordo fra stati, che, come tale, non è stato sottoposto al voto popolare e, dove lo è stato, come in Francia e in Olanda, è stato clamorosamente rifiutato) potrebbe essere riarticolata diversamente, provando a restituire una realtà politica a qualcosa di simile a quello che Kojève chiamava l’Impero latino. Giorgio Agamben
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3 Maggio 2023 
Il Consiglio dei Ministri ha emanato il tanto atteso e discusso decreto sul lavoro che tra le varie misure aumenta di quattro punti il taglio del cuneo fiscale e offre incentivi vari per le aziende orientate alle assunzioni ma il fulcro,il perno sul quale sono concentrati tutti gli sguardi riguarda la trasformazione dell' attuale reddito di cittadinanza in "assegno di inclusione" : dopo cinque anni esatti,dunque il reddito fortemente voluto dai pentastellati e fonte di grandissimi divisioni e conflittualità nel dibattito pubblico se ne va in pensione cedendo il passo ad una diversa formula, senz' altro più restrittiva in termine d' erogazione di denaro e maggiormente vincolante per chi ne usufruisce. Non diciamo nulla,non pontifichiamo nulla,la futurologia non fa parte della nostra forma mentis ,sarà il Tempo-con la maiuscola,rigorosamente-a mostrarci se la sostituzione del "reddito" con l' "assegno di inclusione" eliminerà i "furbetti percettori" e "toglierà dal divano" la gran parte dei giovani e meno giovani per avviarli al lavoro,magari coprendo quei 550.000 posti vacanti specie nel settore del terziario dei servizi-ristorazione,alberghiero,eccetera-che stanno diventando impossibili da trovare per molte aziende,anche se il deficit di personale riguarda pure agricoltura ed industria sia leggera che pesante. Misura altamente divisiva,il reddito ha polarizzato la discussione in due schieramenti netti e inconciliabili: chi lo ritiene un sussidio per campare senza impegnarsi e vivere mantenuti magari integrandolo con lavoretti in nero e chi al contrario individua in un mercato del lavoro bloccato, asfittico, fermo a concezioni quasi ottocentesche di paghe e salari la vera causa della mancanza di assunzioni.Come spesso accade in queste dicotomie o in queste forme di manicheismo tendenti a vedere solo il nero o il bianco,la realtà sta nel grigio e potremmo dire che in parte entrambi hanno ragione,tuttavia...vi è un tuttavia: il solito errore di voler vedere le cose a microscala anzichè su macroscala,in una parola noi dovremmo chiederci se questa "fuga dal lavoro" sia un fenomeno tipicamente italiano e quindi un "sui generis" oppure un fenomeno in vigore,seppur in diverse modalità e metodi in altre economie altamente avanzate. Insomma,si tratta di una peculiarità italiana o no?Alcune ricerche svolte senza nemmeno scervellarsi troppo-è necessario avere del tempo a disposizione e navigare nel mare magnum della Rete-dimostrerebbero una tendenza,seppur come scritto attuata diversamente in base a differenti ambienti e temperie culturali, in atto in buona parte dell' Occidente seppur senza l’ incentivo del reddito di cittadinanza. Senza andar però lontano e scavando da vicino,come direbbe il nostro Alessandro Manzoni, balza all' occhio come l' Osservatorio del Precariato dell' INPS,coi dati citati da "L' essenziale" nel suo articolo del 25 luglio 2022, parla di " un numero di licenziamenti volontari in aumento costante dal 2016 ",quindi due anni prima dell' introduzione della misura del reddito da parte del governo Conte I ; il giornale online "L' essenziale" scava ancora a fondo e fa notare come da dati ministeriali tra il 2020 e il 2021 vi sia stato un aumento delle "dimissioni volontarie del lavoro" dell' 85,2% in dodici mesi che ha portato a un numero complessivo di 480.000 licenziamenti volontari.Il 22 gennaio 2023 (quindi recentemente) "Il Sole 24 Ore" titola nella sua edizione online : "Lavoro,la grande fuga: 1,6 milioni di dimissioni in 9 mesi" e, prestate attenzione, qua non si tratta di gente che sta sdraiata sull' ottomana ad incassare i sussidi statali ma persone con un impiego le quali per varie ragioni (stress,mobbing,insoddisfazione, paghe inadeguate,difficoltà a conciliare tempi aziendali e familiari) hanno deciso di mollare tutto: in questa cifra vi è chi ha poi trovato altri impieghi con maggiori soddisfazioni ma pure chi si è reinventato oppure ancora adesso se ne sta fermo. Scaviamo lontano? Va benissimo,facciamolo: tanto per iniziare negli Stati Uniti,un luogo che non brilla proprio per assistenzialismo ai disoccupati, dal 2020 in poi è in atto la "Great resignation",i licenziamenti spontanei di massa,fenomeno che Robert Reich ,già Segretario del Dipartimento al Lavoro ai tempi della Amministrazione Clinton ha bollato come "un enorme sciopero di massa": i numeri sono impressionanti,si parla di almeno otto milioni di dimissioni solo nell' anno solare 2021 ,con un aumento di tre milioni di giovani inattivi dal 2019 all' inizio del 2022; un rapporto OCSE riportato da varie fonti che potete trovare facilmente senza farmi appesantire l' articolo di note narra di 14 milioni di dimissioni volontarie su un campione di diversi Paesi ad economia avanzata e il "Financial Times" lamenta di un milione di posti non coperti in Gran Bretagna e Irlanda del Nord; dulcis in fundo si parla della carenza di "almeno 400.000 camionisti in Europa". Continuiamo pure negli scavi ancor più in là: parrebbe che pur nella lontana Australia,seppur in misura minore,sia in atto un tale andazzo. Adesso invece scaviamo lasciando la dimensione spaziale per entrare in quella temporale: vent' anni fa,diciamo subito dopo il passaggio nel nuovo millennio,prese piede negli Stati Uniti e in piccola parte nel Canada un fenomeno chiamato "downshifting",che potremmo tradurre in italiano in "scalare,diminuire la marcia": improvvisamente diversi managers o dirigenti o persone con un alto profilo professionale e buone competenze-non di certo operai generici-iniziarono a mollare tutto,improvvisamente.Chi andò a fare lunghi viaggi in barca per mare narrando le proprie avventure, chi passò il tempo in campagna,chi viaggiando,chi dedicandosi ai propri interessi e facendoli fruttare. I "downshifters" furono ovviamente persone di alto tenore economico e grandi competenze lavorative,normale e fatale che fosse così perché normali e fatali nella Storia sono certi fenomeni valoriali o comportamentali che nascono sempre dall' alto per diffondersi poi, lentamente, attraverso il tronco,in tutte le diramazioni del corpo sociale: ora non siamo più ad una élite professionale di alto livello,siamo scesi a rami più bassi e forse nessuno dei "licenziati volontari",di sicuro pochi vivranno viaggiando in barca e curando un blog apposito o coltivando orti nelle campagne ma poco importa,la tendenza ormai è in atto e riguarda come più volte detto una forma di insoddisfazione che tende in molti casi a sfociare al confine del rifiuto del lavoro. In Italia abbiamo avuto il "reddito di cittadinanza" e ovviamente la tendenza si è sublimata in questo strumento a causa di peculiari ragioni ambientali, creando la tempesta perfetta tra chi esce volontariamente e chi volontariamente non entra. Si è scritto di come il fenomeno sia in atto non da ieri e non solo in Italia e ora andiamo ad un altro nocciolo della questione: leggendo varie analisi e commenti (giornali, analisti,ecc ecc) tutti sono d’accordo a scrivere che i due anni dell' "era covid" hanno fatto da detonatore facendo esplodere ed accelerare esponenzialmente la tendenza in corso e qui si apre per noi una dovuta riflessione: evidentemente tra un video aperitivo e l' altro ,tra un cazzeggiamento online e l’altro a milioni e milioni di persone chiuse e bloccate forzatamente in casa qualche cosa deve essere scattato per forza,come se si fosse aperta una finestra più o meno inconscia di riflessione sugli spazi di gestione del tempo e sulla loro riappropriazione. Riassumiamo infatti le ragioni che si evincono sia dai numerosi articoli letti sia dalle testimonianze: 1) Ambienti del lavoro "tossici e malsani" a livello psicologico e umano; 2) Stress, troppe aspettative, tensione continua, continuo aggiornamento professionale (non è un caso che specie negli USA siano le aziende informatiche ad aver perso molti lavoratori) che finiscono per "succhiare il midollo della vita",ma al contrario di quello che scrisse in "Walden" H.D.Thoreau: 3) Veri e propri malanni psicosomatici dovuti appunto a un sistema incompatibile ad equilibrare tempi familiari e lavorativi,che provoca ansia, disturbi nervosi e un senso di insoddisfazione perenne,quasi chiodo fisso da estirpare a tutti i costi; 4) Da queste esperienze lette il problema dei bassi salari esiste,tuttavia non è al primo posto.Logico che in una realtà italiana dove sul diagramma i due rifiuti-volontari e da reddito-si incrociano la causa del basso salario assume una certa valenza. Riassumendo si può dire che la misura del RdC grillino e pentastellato oggi ormai liquidata da nuovi decreti e destinata a finire sia stata una concausa e non una causa delle difficoltà attuali a reperire forza lavoro,un epifenomeno anziché un fenomeno le cui radici sono molto più complesse e strutturate delle semplificazioni della dicotomia narrata in continuazione. Ad essere in crisi oggi è il concetto in sé di lavoro ancor più di come viene retribuito o dell' ascensore sociale. Essendo tale fenomenologia accelerata dal 2020 in poi ne consegue che il "cigno nero" del biennio e mezzo del covid (primavera 2020-fine inverno 2022) abbia messo in moto dinamiche e variabili talmente complesse che per valutarne la reale portata serviranno ancora anni,non mesi: siamo forse all' inizio di fenomeni che non sappiamo come inquadrare, impossibilitati per ora ad incasellarli ma fenomeni iniziati,in marcia e credo difficili da invertire come rotta. La normalità che stiamo rivivendo è solo apparente e inganna gli occhi dei distratti e dei sempliciotti: il 2019 è lontano anni luce e appartiene ad un' epoca diversa, come nel XX secolo successe al 1919 rispetto al 1914. Fermiamoci qui perché il futuro è nel grembo oscuro degli dei e l' arte dell' indovino fa a pugni con la filosofia di questo blog.Chi vivrà vedrà,d'altronde gli intermezzi sono impossibili da analizzare,anche per un modello matematico computerizzato. Per questo serve essere non tanto protagonisti ma osservatori. Simone Torresani
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Inconsistente come le Sardine |
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2 Maggio 2023 Al cittadino le faccende che realmente interessano, che lo premono, che decidono della sua vita sono quelle che la Schlein finora ha trattato solo con formulette che dicono tutto e non dicono nulla. Cosa significa “giustizia climatica”, per esempio? Oppure, quando sostiene di voler lottare contro la precarietà lavorativa, in quale modo vorrebbe di preciso affrontarla e risolverla? E il famoso salario minimo, a quali condizioni? E i diritti, detti così, genericamente, se sono sociali, ovvero collettivi, sono un conto (ad esempio, i diritti riguardanti una determinata categoria di lavoratori), se sono individuali (il matrimonio gay, che lo schleiniano Alessandro Zan ha rilanciato nell’ultima proposta di legge depositata in parlamento), sono un altro conto. Ebbene, per la Schlein vanno in coppia. E sia. Ma con quale priorità? Perché la politica è fatta anzitutto di tempi, di dosaggio, di agenda. Ma del resto, le supercazzole in perfetta continuità col passato in cui ha già abbondato la segretaria della “svolta”, dal sì alle armi in Ucraina al sì all’inceneritore di Roma, sono lì a dimostrare che è l’ambiguità il suo marchio distintivo, a voler esser buoni. Un’ambiguità che ha la radice nell’inerzia sostanziale all’interno del Partito Democratico, un partito di potere e di establishment a tutti i livelli (...). I fan replicheranno che bisogna darle tempo, che ha appena rinnovato il vertice mettendo i suoi, e che difatti qualche iper-moderato ha alzato i tacchi. Ma è sull’inconsistenza delle idee e delle proposte, apparentemente “nuove” per distacco minimo da Bonaccini, che la Schlein andrebbe messa sotto torchio. Altrimenti, tocca prenderla in giro sugli abbinamenti fra giacca e pantaloni, sul “trench sartoriale” da preferire all’“eskimo”. Sì, la soluzione del rebus è questa: ha optato per Vogue perché sapeva che su quelle colonne se la sarebbe cavata dicendo quel che sa dire benissimo. Cioè niente. Ma chi lo sa, nel nichilismo imperante può essere pure che, nei sondaggi, la collaudata tecnica dell’arma di distrazione di massa paghi. Magari di uno zero virgola. Buttalo via. Alessio Mannino
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