7 settembre 2010

Povera Carla Bruni. Il passaggio da fotomodella coccodè a first lady si poteva anche accettare, del resto da un personaggio tutta immagine-niente sostanza come Sarkozy ci si può aspettare simili scelte in materia di donne. Ma che queste ex veline, non appena conoscono i fasti della celebrità politica, si ergano anche a paladine dei diritti delle donne e passino dal trombare al tromboneggiare è veramente un’abitudine insopportabile. E se una Carfagna fino ad oggi l’ha passata liscia, Carla Bruni (per questo, appunto, “povera”) pare sia stata pesantemente attaccata da un quotidiano iraniano per il suo appello contro la lapidazione dell’adultera Sakineh. Se volessi fare il “politically correct” dovrei subito precisare che, per carità, noi non siamo favorevoli alla lapidazione e neppure alla condanna delle adultere, che i diritti delle donne vanno rispettati, che la discriminazione nei loro confronti è odiosa e bla bla bla. Mi/vi risparmio questi preamboli perché, sinceramente, di Sakineh non me ne frega niente, come non frega niente a Carla Bruni e a tutti gli altri milioni di ipocriti o idioti che hanno sostenuto l’appello contro la sua lapidazione. Non può esistere un reale interesse o un vero dolore nei confronti di una persona che non si conosce minimamente, lontana migliaia di chilometri e goccia nel mare delle infinite morti e ingiustizie che affliggono il nostro pianeta. La battaglia e l’interesse, tuttalpiù, sarebbero contro la pena di morte o la difesa dei diritti delle donne e la firma di un appello, preferibilmente su Facebook, il modo migliore e più facile per sentirsi autore di una buona azione. Poi magari il proprio vicino di casa picchia la moglie a sangue tutti i giorni ma non ce ne frega niente. E, allora, se il nocciolo della questione non è la persona Sakineh ma quello che rappresenta, possiamo tranquillamente affermare che la presunta (perché sappiamo tutti l’attendibilità di certe traduzioni) accusa di “prostituta” rivolta a Carla Bruni da parte del giornale iraniano è da criticare solo perché pecca in difetto: prostituta (intellettualmente, il che è infinitamente peggio che fisicamente) non è solo Carla Bruni ma anche ciascuno di coloro (e sono decine di migliaia, potenzialmente milioni) che sostengono questa battaglia per salvare la giovane iraniana. E’ infatti evidente che si tratta dell’ennesimo, penoso e vergognoso pretesto per attaccare l’Iran e preparare il terreno mediatico a quell’attacco militare che USA e Israele pianificano da anni. Lo spauracchio nucleare, la demonizzazione in chiave nazista di Ahmadinejad, le inverosimili accuse di brogli in occasione delle elezioni di quest’ultimo e il conseguente ipocrita sdegno per l’ingigantita repressione degli oppositori al “regime” evidentemente non sono bastate, ci voleva anche il pietoso caso umano dell’innocente da salvare dai barbari. E gli appelli per tutte le adultere condannate alla lapidazione in Arabia Saudita? Ah già, non si possono salvare tutti, meglio lasciar stare gli amici dell’Occidente. Qualcuno obietterà: non tutti i sostenitori dell’appello per Sakineh sono prostitute intellettuali, la maggior parte sono persone in buonafede ingannate dalla propaganda di regime (quello vero, il nostro). Probabile, ma non li giustifico. Invece di scrivere stronzate su face book usino internet per informarsi. Oppure tornino ai propri affari, se sono donne magari spendano il loro tempo a tradire i mariti. In Iran, possibilmente.
Andrea Marcon
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Dalla parte della Corrida |
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di Fabio Mazza
2 settembre 2010

A seguito di iniziativa popolare di associazione animalista catalana, il parlamento della riottosa regione spagnola ha approvato con 68 voti favorevoli e 55 contrari, nonché 9 astensioni, la legge che vieta la tauromachia in quelle contrade. La decisione, seguita da manifestazioni di giubilo dell’associazione animalista che aveva presentato la proposta, e da altrettante manifestazioni di dissenso di tradizionalisti dell’agone dell’arena, è interessante ai fini di un'analisi sull’evoluzione della mentalità moderna. Per quanto ci riguarda dichiariamo immediatamente che siamo favorevoli alla corrida, laddove essa sia scevra dalle manie e dalle degradazioni degli sport moderni: doping ai tori, scommesse, mezzucci per vincere e via dicendo. Laddove un uomo, senza aiuti, si misurasse da solo con un animale, questo sarebbe per noi segno di virile coraggio, e metterebbe sullo stesso piano la vita dei due esseri, nobilitando cosi la morte dell’uno o dell’altro. Il misurarsi con la natura, e contro se stessi, i rituali del preliminare, la tradizione dell’arena, che ricorda da vicino quella dei munera gladiatori di romana tradizione, è a nostro avviso qualcosa di non certo ripugnante, di non certo inutile, di non certo inumano. Sicuramente vi è un risvolto crudele, ma solo più manifesto e diretto che in tanti campi della vita odierna, ove la crudeltà si manifesta in forme più serpentine e occulte. Se a questo aggiungessimo (ma è chiedere l’impossibile per quest’epoca disastrata), la possibile elevazione spirituale di chi partecipa a cimenti di tal fatta, attraverso l’ascesi dell’azione e con risvolti possibili ed eventuali di “mors triumphalis”, allora capiremmo che davvero questa disciplina potrebbe, in date condizioni, propiziare un meccanismo “anagogico”. Se al contrario per corrida deve intendersi uno spettacolo per turisti, una fonte di guadagni per allibratori e di malavita o di alterazione della regolare agone con somministrazione di sostanze ai tori, o con trucchi atti a renderlo indebolito, come è stato da più parti denunciato, allora la storia è diversa, e il nostro plauso alla disciplina svanisce come neve al sole. Ma l’aspetto forse più interessante dell’intera questione noi lo vediamo nella mentalità odierna di fronte a questi spettacoli. Si sostiene che sono crudeli, che sono inutilmente violenti. Ma la risposta che darebbe qualunque buon conoscitore della natura umana è che è la stessa esistenza ad essere, spesso, crudele. È la stessa natura dell’uomo che è violenta. Questo, al di la di ogni esaltazione machista, o di ogni riduzionismo, è solamente un prender atto della realtà delle cose. Chiunque non voglia capire tutto ciò e, immemore del passato, vuole costruire l’uomo perfetto, l’uomo “liberato” dall’aggressività e dall’istinto di thanatos, sta preparando un inferno in terra, ben peggiore di quello che vorrebbe combattere. Vi è nell’uomo un naturale istinto all’aggressività, alla guerra, alla conquista. Questi istinti, incanalati per millenni ritualmente come nel caso in esame, o nella guerra, trovavano la loro valvola di sfogo, la loro naturale sublimazione. Con l’avvento della macchina, con l’inevitabile tecnizzazione della guerra, e la sua perdita completa di umanità, sostituita con regole e dinamiche da videogame, la violenza, la conquista, la guerra sono state -per dirla con Massimo Fini- dichiarate pornografiche, il male dei mali. Colpite da un interdetto sociale esse ora vengono ipocritamente chiamate “missioni di pace”, e delle antiche guerre e tenzoni non conservano nulla, ormai orientate unicamente dalla conquista imperialistica e dalla mancanza di onore. E tutta questa naturale (non buona o cattiva) aggressività dove va ad incanalarsi ora? Risposta: da nessuna parte. E cosi come tutti gli istinti sopraffatti e nascosti nell’uomo, che divengono mostri relegati nel subconscio, ecco che nascono, come per magia, le paranoie, le nervrosi, le depressioni ed ogni forma di atonia e di discentramento dovuta alla riduzione dell’uomo ad un razionalismo tanto più totalitario, quanto più mosso dalle buone intenzioni e dai “diritti umani”. E cosi si assiste, per la cronaca, ad esplosioni di violenza (specie tra i giovani che più di tutti hanno necessità che questi istinti vengano sanamente incanalati) tanto più ingiustificate, tanto più si è realizzato il teorema della società del benessere. Ingiustificate per chi non può, o non vuole, vedere.
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Pausa estiva del Giornale del Ribelle |
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Con l'articolo che segue, una riflessione sulla situazione sociale e culturale degli anni che stiamo vivendo, chiudiamo il nostro blog per la pausa estiva. Riprenderemo agli inizi di settembre. Il Giornale del Ribelle ringrazia i suoi fedeli lettori e commentatori per l'interesse mostrato e per la costante partecipazione, e augura a tutti buone vacanze. Sia a coloro che riusciranno a distaccarsene, sia soprattutto a coloro che di tale "invenzione" moderna, per un motivo o per l'altro, non potranno fare a meno. Buone vacanze e buon riposo a tutti. (m.v.)
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Il parallelismo illusorio del '29 |
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29 luglio 2010

Sono ricorrenti i confronti fra l’attuale crisi economico-finanziaria e quella che si aprì col crollo di Wall Street nel ’29 e segnò tutti gli anni Trenta dello scorso secolo. Non essendo un economista non mi avventuro nell’analisi di analogie e differenze. Tante sono le sciocchezze che dicono e scrivono gli economisti patentati e accademici, talvolta premi Nobel: non vi aggiungerò quelle di un profano. Qualche considerazione di ordine storico-politico può tuttavia essere proposta. Quella crisi portò con sé un crollo di fiducia nella bontà delle ricette del liberal- capitalismo, nelle virtù taumaturgiche del Mercato che si autocorregge. Da quella crisi uscirono rafforzate correnti di pensiero che si credevano alternative al sistema oppure orientate verso correzioni sostanziali dei meccanismi della libera concorrenza. Ne uscì rafforzato il fascismo, con le sue soluzioni dirigiste e autoritarie, col suo statalismo accentratore, col rilancio dell’ideale corporativo. Ne uscì rafforzato il comunismo, che già si configurava come una nuova fede laica con milioni di adepti in tutto il mondo, esaltati dai successi dei Piani quinquennali voluti da Stalin nell’URSS, proprio quando il capitalismo era sconvolto dalla crisi. Delle prime grandi purghe del regime, che fucilava non solo borghesi e agrari ma soprattutto comunisti non pienamente allineati, parlavano i “servi del capitale”: i fedeli della nuova chiesa le ignoravano. Ne uscì rafforzata la socialdemocrazia, che trovava nuovi riferimenti nelle proposte di politica economica di Keynes, proposte messe a punto e divulgate proprio in quel decennio. L’esito di tutto quel travaglio fu la guerra più sconvolgente che l’umanità avesse mai vissuto, ma resta il fatto di un grande fermento di idee e di progetti alternativi. Niente di tutto ciò nel quadro sociale, culturale e politico odierno. Calma piatta. Qualche protesta delle categorie più penalizzate, qualche vetrina infranta, qualche sciopero generale indetto da alcuni sindacati tanto per segnalare la loro esistenza in vita, fra il disinteresse generale e lo scetticismo diffuso. Nessun programma alternativo, nessuna vera mobilitazione, nessuna nuova bandiera a mettere in moto emozioni, le uniche capaci di unificare, di fare massa e di scagliarla contro i poteri dominanti. Nessun leader che emerga nella palude del disfacimento. L’ideologia dominante, che solo pochi emarginati continuano a contestare, è quella del libero Mercato, del sistema che trae linfe vitali proprio dalla sue crisi cicliche, della prassi liberal-democratica come grande vanto della civiltà occidentale che si fa mondo. Come si spiega la contraddizione di una crisi sistemica che non provoca reazioni di massa contro il sistema stesso? Una prima risposta a questa domanda è la raffinatezza dei condizionamenti propagandistici di un potere totalitario quant’altri mai, un sistema che si impadronisce delle menti non con i metodi grossolani dell’indottrinamento politico e della repressione poliziesca, ma con la pubblicità commerciale, con la divulgazione capillare di un’ideologia attraverso strumenti apparentementi neutrali, non politici, come gli sceneggiati televisivi, le produzioni di Hollywood, la musica, le mode attraverso le quali il potere si appropria di atteggiamenti ribelli di una gioventù inquieta e sradicata svirilizzandoli e delegittimandoli. Un’altra risposta è nelle dinamiche di società in cui la percentuale di anziani è crescente, e nella possibilità di deviare il malcontento verso le masse di immigrati, come se essi fossero la causa e non la conseguenza del nostro sfacelo. Ma la risposta più convincente sta nel fatto che tutte le alternative possibili sono state sperimentate, e sono risultate perdenti o fallimentari. Fascismo, socialdemocrazia e comunismo non possono più attrarre perché hanno fallito o, come nel caso della socialdemocrazia, non sono più un’alternativa praticabile perchè poteva prosperare solo in presenza di una forte crescita e di bassi costi delle materie prime. A ben guardare proprio questa caduta di tutte le possibili alternative, questa sorta di terra bruciata che il liberal-capitalismo si è fatto attorno a sé, è la grande risorsa che ci fa sperare. Pur nell’apatia generale si avverte nell’aria l’attesa e la certezza di una fine. Si odono non più soltanto scricchiolii ma gli schianti di un crollo. Allora l’apparente indifferenza è da interpretare piuttosto come quella sorta di sbalordimento che paralizza la volontà davanti a un disastro senza rimedio. Se le soluzioni che furono elaborate all’interno della logica economicista, materialista e progressista della Modernità sono tutte fallite, il grande sfacelo obbligherà gli inebetiti al brusco risveglio della consapevolezza che si esce dal sistema solo uscendo dalla Modernità. Questa è una grande speranza che si può già intravedere nella dura realtà dei fatti, non c’è bisogno di profetismi Maya per coltivarla. Il liberal–capitalismo è la Modernità nella sua espressione più compiuta e coerente. Essendosi sbarazzato di tutti coloro che lo contestavano sul suo stesso terreno, la sua fine sarà anche la fine della Modernità. Concludendo, il parallelismo con gli anni Trenta è totalmente infondato se ragioniamo nei termini della riflessione politico-culturale. Resta la possibilità che le due epoche siano accomunate dall’esito che mise fine a quella crisi: l’opzione di una guerra che azzera tutto non per costruire un’epoca nuova ma per riprodurre il meccanismo di sempre attraverso il grande affare della ricostruzione.
Luciano Fuschini
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La fobia dell'ordine delle cose |
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di Fabio Mazza
22 luglio 2010

Il dibattito serrato sull’allarme omofobia, che ha scaldato le platee di innumerevoli (e spregevoli) trasmissioni televisive recentemente, è, in realtà, un falso problema. Quelli che volevano una legge apposita che punisse l’ “omofobia” (che letteralmente dovrebbe significare la “paura” dell’omosessuale, in senso stretto significa la “discriminazione” degli stessi), si sono visti rispondere giustamente, dagli stessi custodi della costituzione che essi esaltano ogni giorno, che non è possibile approvare una legge del genere, perché contraria all’articolo 3 della costituzione. L’articolo 3 sancisce il principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Ora, la legge in questione prevede come aggravante del delitto di aggressione, il fatto di avere commesso i suddetti reati per motivi di omofobia. Quindi se aggredisco una persona perché gay è più grave del caso in cui, poniamo aggredissi un biondo, perché a mio avviso troppo nordico. Ma non si capisce perché se picchio un gay per qualsiasi motivo, ciò debba essere più grave che picchiare un'altra persona, magari eterosessuale. “Ma perché i gay vengono picchiati per motivi inerenti al loro orientamento sessuale”, parte il coro delle solite anime belle. Ma, rispondiamo noi, come si fa a dimostrare che l’aggressione vi è stata per motivi sessuali? Se aggredisco un omosessuale per motivi personali, magari senza sapere che costui lo è, e questi per accrescere il risarcimento che gli sarà dovuto e la pena inflittami, sostiene che io l’ho chiamato “frocio schifoso”? In secondo luogo: avrò diritto o no di allontanare da me, di non volere vedere, al limite anche di odiare l’omosessuale, se questo non si traduce in un comportamento violento e aggressivo? Se non compio reati contro la persona? O dovendomi omologare al diktat demo-buonista devo amare e legittimare una realtà che per me è sì degna di rispetto (che si deve ad ogni essere umano) ma fuorviante e sintomo di discentramento interno? In ogni caso il disegno di legge in questione è palesemente anticostituzionale, contrario a quella stessa costituzione che i promotori di questa legge difendono a spada tratta quando a loro fa comodo. Ma il problema è più a monte. I gay e le lesbiche, che sono una vera e propria lobby, sostengono di volere uguali diritti e di voler essere uguali agli altri. E proprio qui si contraddicono. Difatti se si vuole essere uguali si debbono avere gli stessi diritti della massa. Non di più o diversi. Ed ecco che scatta la solita discriminazione al contrario; il solito razzismo mascherato da umanitarismo, da solidarietà sociale, da diritti umani.
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La dignitą della morte, l'umiliazione della vita |
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di Massimiliano Viviani
15 luglio 2010

La cancellazione da parte della modernità della dimensione trascendente e religiosa dell'uomo gli ha concesso una libertà di azione e di pensiero senza precedenti nella storia, ma nel contempo lo ha condannato a vivere in un'unica realtà, quella materiale, finita la quale, è finita la vita. A differenza dell'uomo del passato che non sapeva che era la terra a girare intorno al sole -ma di cui probabilmente non gliene importava più di tanto- ma sapeva, colto o analfabeta che fosse, dare una risposta certa alle domande fondamentali dell'uomo (Dio, anima e mondo) l'uomo moderno a tali domande non sa più rispondere. Ridottasi a poco più che una "scienza sociale" come tante altre, la religione non è più in grado di svolgere la funzione di fornire una risposta a tali domande e soprattutto a quella più importante in assoluto, ossia quale sia il destino umano dopo la morte. La scienza, rimasta l'unica forma di conoscenza valida nella modernità, ha preso il suo posto. Ma poichè la scienza per sua natura, al contrario delle religioni tradizionali, non è assoluta ed eterna ma parziale e relativa, le sue risposte non potranno che essere parziali e provvisorie. Quindi poco soddisfacenti. Di fatto, la risposta della scienza al mistero della morte non potrà che essere la più semplice possibile: prolungare oltre ogni limite la vita. Poichè la scienza non riconosce altre realtà oltre a quella materiale, non le resta che rimandare il più lontano possibile il momento della morte, che nel frattempo da momento di trapasso, è diventato momento di cessazione: con la morte l'uomo moderno non va da nessuna parte ma cessa semplicemente di esistere. Finisce la commedia. Cala il sipario. A questo punto ci viene incontro la cronaca. Nel maggio scorso infatti il celebre genetista Craig Venter annunciava di avere progettato e assemblato cellule capaci di autoreplicarsi, realizzando di fatto in laboratorio la prima cellula artificiale e compiendo il primo passo concreto verso la creazione della vita artificiale. Pochissimo tempo dopo il nostrano Prof. Veronesi rivelava ai media il funzionamento di una macchina che individua l'esistenza di cellule tumorali nel corpo del paziente nel momento della loro formazione, se non addirittura prima, con una probabilità prossima al 100%. Le due scoperte speculari e complementari affermano da un lato che la vita non contiene in sè alcun mistero trascendente perchè un qualsiasi computer è in grado di riprodurla (in realtà queste sono balle: cosa differenzia un uomo vivo da uno morto un istante fa? Biologicamente niente. In realtà io mi permetto di sostenere sulla linea degli antichi che il Mistero si nasconde dietro ogni punto del creato: gli elementi assemblati dal computer hanno già dentro di sè quella trascendenza che poi si ripropone in modo diverso nel corpo umano come lo conosciamo noi...), dall'altro invita implicitamente ogni persona ad attuare la medicalizzazione perpetua affinchè la vita duri sempre più a lungo. Del resto non sono gli stessi scienziati -Veronesi in testa- che ci assicurano che un giorno non troppo lontano vivremo fino a 120 anni? Che poi di fatto vorrà dire, nè più nè meno, prolungare la nostra schiavitù e andare in pensione quarant'anni dopo?
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