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E' on line MZ n°9 PDF Stampa E-mail

17 dicembre 2007

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E’ on line il nono numero stampabile di MZ – Il giornale del Ribelle. Potete liberamente scaricarlo cliccando in alto a destra, dove vedete scritto MZ Download. Perché una versione cartacea del blog? Per diffonderne i contenuti col vecchio ma imbattibile sistema della distribuzione a mano, faccia a faccia, porta a porta, nelle biblioteche, nelle università, nel luogo di lavoro, col volantinaggio in strada. Fate quante più copie potete (attenzione a stampare in fronte/retro: pagg 1-2 e pagg 3-4), rilegate con una semplice graffettatrice, e distribuite.
In questo numero: speciale sul No Dal Molin , con un'interessantissima intervista a Massimo Fini ripresa dal settimanale Vicenza Più.

 
L'unica chance rimasta: ribellarsi PDF Stampa E-mail

16 dicembre 2007

Siamo prigionieri di una scatola vuota la cui sola regola è correre più degli altri per non finire schiacciati. Una marea umana che non sa dove va la corrente.
Viviamo incasellati in abitudini, ruoli e routines che hanno smarrito la libertà di cambiare. Non riusciamo più nemmeno a immaginare la possibilità di un senso diverso, di una società dove non sia tutto prescritto, prestabilito e ordinato da autorità superiori e inavvicinabili (i governi, le banche, le Borse e i mercati internazionali, i patti di sindacato e gli intrecci societari, le organizzazioni burocratiche sovranazionali).
Dobbiamo riscoprire la volontà di rischiare. L'avventura dell'impegno contro il Potere. Perchè, ogni giorno di più, abbiamo sempre meno da perdere. (a.m.)

 
Equizi: "Vicenza nuova Val di Susa" PDF Stampa E-mail

15 dicembre 2007

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Franca Equizi, consigliere comunale vicentina aderente a Movimento Zero e capolista alle ultime elezioni provinciali di Vicenza con la lista civica Riscossa Democratica, esponente del Presidio Permanente No Dal Molin, è una tipa tosta. L’hanno espulsa dalla Lega Nord dopo anni in cui ha dato filo da torcere alle lobby interne (ed esterne) che ammorbano il Carroccio, e oggi combatte solitaria contro Destra e Sinistra in una Vicenza che si avvia a essere la città più americanizzata d’Europa.
Che significato ha per lei e per Movimento Zero la manifestazione di oggi, 15 dicembre?
Vogliamo dimostrare che i vicentini non si piegano alle decisioni romane: la devono smettere, i politicanti di destra-sinistra, di considerarci sudditi. Come cittadini sovrani  vogliamo essere padroni a casa nostra: dobbiamo essere noi vicentini a decidere il futuro della nostra città. Non vogliamo diventare i nuovi indiani, ma lasciare ai nostri figli un futuro sereno. Speriamo che i vicentini, come già avvenuto in febbraio, partecipino in massa per dimostrare che non siamo i soliti polentoni disposti a subire tutto. La manifestazione, per noi, significa anzitutto questo: Vicenza ai vicentini. Non agli Americani, non a Berlusconi, non a Prodi, non agli interessi economici.
Lei è un’attivista del Presidio No Dal Molin. Ci spiega qual è oggi la situazione interna al movimento vicentino contrario alla base?
Sottolineo che fra chi frequenta il Presidio ha votato o proviene dai più svariati partiti dell'arco costituzionale. Attualmente gli attivisti del Presidio Permanente sono consapevoli del tradimento di  tutti i partiti e contestano indistintamente destra e sinistra, mentre i componenti del Coordinamento dei Comitati, strumentalizzati da (quando non organici a) partiti e sindacati, pensano sia ancora possibile mediare. Secondo me è giunto il momento di chiedere ai 170 parlamentari che, probabilmente per l’imminente campagna elettorale, si sono schierati con il No Dal Molin, che chiedano a Prodi di tornare sulla sua decisione. Anche causando la caduta del governo. Questa sarebbe coerenza, anche se non credo lo faranno: tengono troppo alla ricandidatura, fanno la faccia feroce ma poi scodinzolano dietro i loro padroni, i partiti. I signori parlamentari, finora, hanno prodotto solo chiacchiere.
Quali sono le responsabilità del governo Prodi e prima del governo Berlusconi nella costruzione della base americana?
Entrambi sono servi degli Americani, perché l’Italia è serva degli Usa. Hanno deciso senza sentire la comunità locale trattandoci come sudditi, e lo stesso dicasi dell'amministrazione comunale di centrodestra. E’ la dimostrazione che non esiste differenza fra destra e sinistra, che si sono pateticamente rimpallate le responsabilità proprio per nascondere questo fatto ormai acclarato: che sono uguali nel truffare la gente con la scusa degli opposti schieramenti. Dico di più: se le ultime elezioni fossero state vinte da Berlusconi e oggi ci fosse lui al governo, la sinistra unita avrebbe manifestato un giorno sì e un giorno pure facendo una facile opposizione, e il governo avrebbe, probabilmente, avrebbe annullato la decisione presa.
Qual è la prospettiva nel breve-medio periodo per il movimento? E’concretamente possibile impedire l'insediamento Usa? E come?
Credo sia ancora possibile bloccare i lavori: basterebbe che i 170 parlamentari obbligassero Prodi a modificare la decisione presa anche a rischio di chiudere anticipatamente la legislatura. In ogni caso noi cercheremo in tutti i modi di impedire questo scempio per la nostra città (patrimonio dell'Unesco): la Val di Susa insegna. L'attuale classe politica con la sua scellerata decisione ha scosso i vicentini: ma si erano viste tante persone di ogni età, ceto sociale e credo politico scendere in piazza, impegnarsi in prima persona e contestare per un ideale comune, creando una comunità di lotta. Attenzione politici inciuciati: la misura è colma.

 
Sciopero camionisti, prova generale di decrescita PDF Stampa E-mail

14 dicembre 2007

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Una vita dura e stressante. Le ore di lavoro che aumentano e i margini di guadagno che diminuiscono a fronte di una esternalizzazione selvaggia praticata dalle aziende produttrici. Queste ultime che scaricano sui piccoli trasportatori gran parte dei costi delle consegne. È questa la cornice della massiccia protesta che fino all'altro ieri ha paralizzato le autostrade italiane, tagliando i rifornimenti al Paese. I piccoli trasportatori chiedono al governo un prezzo del carburante più ragionevole e contemporaneamente chiedono maggiori esenzioni fiscali. Fin qui tutto normale. Ma se si analizzano i fatti recenti con una prospettiva più allargata la percezione del problema cambia.
In realtà i camionisti non domandano più soldi e più sgravi fiscali per tradurre il tutto in minori carichi di lavoro con una maggiore qualità dello stesso. Chiedono più sgravi per potere lavorare con gli stessi ritmi folli per magari aumentarli in modo da incrementare i profitti. Per fare girare ancor più una economia che se solo si ferma per un secondo schianta sotto il suo stesso peso.
Per chi scrive l'unico antidoto al collasso dell'economia mondiale si chiama decrescita. Il paradosso però è un altro. A far capire l'importanza di questa prospettiva così radicalmente avversa al senso comune del "tutto, di più e subito" è stata proprio la protesta dei camionisti, passata per golpista e violentemente corporativa. Sì proprio loro, l'emoglobina di un sistema circolatorio produttivo come quello italiano dove la gomma è l'unico vettore di un modo di produrre che nel Paese è ancora, per certi versi, il più assurdo e pericoloso.
Spero che qualcuno un po' se ne sia accorto, ma il blocco, anche termporaneo, della consegna delle merci, forse ci ha fatto capire un po' meglio che è qui il punto. Le merci. Quanto di quello che viene stipato ogni giorno nei container autostradali è realmente utile? Perché in nome della produzione di massa applicata al superfluo si è finiti per inquinare, disboscare, cementificare e ammorbare l'ambiente, la nostra storia, la nostra vita? Detto in parole povere, tutto 'sto casino è venuto fuoti in realtà per motivi legati alla sinistra banalità del superfluo. Il necessario perpetuarsi del circolo produci, consuma, spreca, inquina che grazie all'economia del petrolio è divenuto cifra assoluta del mondo contemporaneo. Anche se non si sa per quanto ancora. Lo sciopero dei camionisti è stato, a guardarla da questo punto di vista, la prova generale di quando l'oro nero scarseggerà per davvero. Un putsch (involontario) della decrescita.
L'ultimo aspetto, comico direi, è quello che esce dalle prese di posizione di condanna di Montezuma Cordero alias Luca di Montezemolo, ras italico di Ferrari e soprattutto Fiat. Ma caro Montezuma: non sono stati i tuoi angeli protettori, gli Agnelli negli anni '60 ad imporre il trasporto su gomma per favorire la produzione di auto e camion? Non sono stati proprio loro ad affossare il trasporto su ferrovia? E ora proprio tu, Mr Fiat, ti lamenti con i tuoi clienti camionisti? Caro Luca, meglio che tu taccia e ti limiti a pettinare il tuo ciuffo.

Marco Milioni

 
No al Dal Molin, no alla servitů Usa PDF Stampa E-mail

12 dicembre 2007

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Il ministro degli Esteri Massimo D'Alema dopo il colloquio avuto ieri con il Segretario di Stato statunintense Condoleeza Rice: "Sulla base Usa di Vicenza sono state prese tutte le decisioni, la questione è risolta. Anzi, da parte americana c’è stato un ringraziamento per il fatto che il governo italiano ha dato la sua disponibilità e ha preso le decisioni che doveva prendere". E' precisamente in questo "doveva" che si confessa alla luce del sole la sudditanza dell'Italia (e, beninteso, dell'Europa) alle strategie internazionali e alla logistica militare di Washington e del Pentagono. Ma per fortuna che al governo c'è la sinistra "radicale", vero signori 170 parlamentari che hanno chiesto la moratoria-burletta per il raddoppio Usa a Vicenza agitando quel faldone di carta straccia che è il programma dell'Unione (là dove prevede, bontà sua, nientemeno che una Conferenza sulle servitù militari)? Non avete neanche un briciolo di vergogna nel dichiararvi contrari a parole alla svendita della nostra terra, recitando la facile parte dei contestatori interni che si tengono ben stretta la tessera, la poltrona e la fedeltà canina ai partiti governativi?
Movimento Zero sfilerà a Vicenza questo sabato, 15 dicembre. Lo farà a testa alta, perchè a Vicenza è in prima linea contro i diktat Usa e i suoi manutengoli di destra (il Comune locale e il governo Berlusconi, che fece i primi accordi) e di sinistra (all'opposizione in città e oggi al governo a Roma). Manifesterà contro un esproprio: di terra, di sovranità, di dignità e di democrazia (negata ai vicentini, che avrebbero il diritto di avere l'ultima parola sulla loro città). No Dal Molin!

 
"Vittoria di merda" PDF Stampa E-mail

11 dicembre 2007

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Abbiamo aspettato più d’una settimana per commentare l’esito del referendum sulla nuova Costituzione venezuelana di domenica 2 dicembre. Lo abbiamo fatto volutamente, per stare a sentire tutte le tendenziose idiozie accumulatesi sui nostri media “democratici” (ad orologeria).
Il presidente Hugo Chavez ha perso di misura: il 49% dei votanti ha votato per la riforma da lui proposta, il 51% l’ha bocciata. L’orchestra dei commentatori occidentali ha suonato all’unisono il peana del responso democratico, della volontà popolare. Infatti: è andata così. Ma fino al giorno prima il Venezuela chavista era uno Stato avviato alla dittatura, con l’ex colonnello dal basco rosso dipinto come un caudillo autoritario e populista. Delle due l’una: o la stampa dei Paesi “democratici” e “liberali” (fra cui l’Italia) mente con questo ritrattino di comodo modellato su misura per demonizzare un Paese sovrano, oppure la consultazione è stata tutta una bufala. E ci parebbe davvero strano che in un “regime” chi è al governo perda, e per di più d’un soffio.
E’ la propaganda spacciata per informazione. Quella per cui il voto trionfale per Putin in Russia deve essere una macchinazione senza valore, mentre quello sudamericano dev’essere la vittoria della democrazia (occidentale, of course). Due pesi e due misure: se il risultato è gradito alle nostre oligarchie politico-economiche, è un buon risultato; se non lo è, va condannato. Propaganda, solo propaganda.
La riforma costituzionale per consolidare la “Revolucìon” della Repubblica Bolivariana di Venezuela prevedeva i seguenti punti: l’eliminazione del limite di due mandati per la rieleggibilità del presidente, con l’estensione della carica da sei a sette anni; la creazione di consigli regionali decentrati; abbassamento dell’età del voto da 18 a 16 anni; il passaggio del controllo della politica monetaria dalla Banca Centrale al presidente, cioè allo Stato; il conferimento all’esecutivo del potere di espropriare la proprietà privata per assicurare il fabbisogno alimentare della popolazione e il divieto di grandi assembramenti proprietari in campo agricolo; riduzione dell’orario della giornata lavorativa da otto a sei ore; introduzione dell’assistenza sociale ai lavoratori che regolarizzeranno la loro posizione (il lavoro in nero è una realtà che riguarda la metà della popolazione attiva nel Paese); istituzionalizzazione di programmi di assistenza sociali con fondi provenienti dalla vendita del greggio. Tutto nel nome del “socialismo bolivariano” delle camicie rosse chaviste.
Un programma nettamente antiliberista e in controtendenza rispetto al modello globale di democrazia in mano alle lobby imprenditoriali e alla finanza internazionale, come si vede. Di qui l’ostilità dell’Occidente. Un programma che, almeno riguardo alla riconquista della sovranità sulla moneta, all’orario di lavoro ridotto e all’apertura alle autonomie regionali (non sulla rieleggibilità, ma è affare dei venezuelani, non nostro!), ci sentiamo di appoggiare in pieno.
Il guaio di Chavez è che osa sfidare gli Usa, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. La sua arroganza sta nell’aver promosso un Banco do Sur, un istituto internazionale di credito a cui ha aderito quasi tutti gli Stati dell’America del Sud, allo scopo di dare impulso a un’economia continentale sempre più indipendente dal sistema finanziario occidentale. Il suo peccato è stato quello di aver distribuito 24 milioni di libretti in cui si spiega la Costituzione, mentre qui da noi in Italia non la conoscono neppure i politici. Il suo marchio d’infamia è di voler rivoluzionare il proprio Paese dopo essere stato rieletto per due volte con un grande consenso popolare, con giornali e tv che lo criticano liberamente. La sua colpa è quella di intestardirsi a dare al Venezuela un’identità libera dal dogma della globalizzazione e della modernità unica e totalitaria.
Perciò ha ragione Hugo: quella dei suoi avversari – quegli stessi che gli rinfacciano il fallito golpe del 1992 per poi tentarlo loro dieci anni dopo, e che vorrebbero il ritorno a un Venezuela dove il petrolio è in mano a compagnie private complici degli Usa, dove la sanità pubblica è un miraggio e dove le minoranze etniche sono prive di ogni diritto – è stata una “vittoria di merda”. Mentre il Venezuela di Chavez è tutto in queste sue parole: “Il paese era al collasso. Ho evitato un bagno di sangue, mi sono arreso, ho fatto un anno di carcere, sono stato espulso dall’esercito. Ma ho dato una scossa e il paese ha risposto nelle elezioni del 1998. Non ha pagato invece chi ha fatto il golpe nel 2002. L’ex presidente della Confindustria assieme alla Centrale dei sindacati, che tutto era tranne un sindacato dei lavoratori. La nostra Repubblica bolivariana è uscita dalle urne. Una maggioranza schiacciante. E’ l’oligarchia che non accetta questa realtà democratica. La rivoluzione socialista e bolivariana dà fastidio a molti. E’ l’alternativa al neoliberalismo che ha dominato gli ultimi vent’anni. E’ la dimostrazione che esiste un’alternativa, più umana, meno crudele”.

Alessio Mannino

 
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