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Il prezzo del Kurdistan PDF Stampa E-mail

24 ottobre 2007

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Per gli Stati Uniti, "alleato" è sinonimo di "servo".
Servo è Israele, stato fantoccio e unica potenza nucleare del Medio Oriente, messo lì a far la guardia ai bidoni di petrolio dei vicini Stati Arabi.
Servo oggi è l'Irak, e servo si vorrebbe far diventare anche l’Iran, altro ex lacché (do you remember lo Scià di Persia?) che ha deciso di non piegare la testa sul diktat nucleare. Serva è sempre stata la Turchia dei generali eredi di Ataturk, riverita e coccolata in quanto utile come spina nel fianco del fu Impero Sovietico (oggi la Russia di zar Putin).
Ai servi fedeli, si sa, si concede tutto. Ad Israele è stata perdonata una politica razzista e di apartheid nei confronti dei Palestinesi ancor peggiore di quella praticata a suo tempo nella Repubblica Sudafricana. Valanghe di risoluzioni ONU si sono accumulate come rotoli di carta igienica senza che un solo diritto sia stato applicato, un solo metro di terra restituito. Alla Turchia, invece, è stato concesso di mettere in atto il più grande etnocidio dopo la Shoah, con l'aggravante di essere stato strisciante e permanente: quello contro i Curdi.
Da decenni, persecuzioni e massacri tendono ad eliminare dalla faccia della terra questo popolo fondamentalmente mite ed inoffensivo ma orgoglioso, che chiede solo di parlare la propria lingua, praticare la propria cultura ed avere una propria terra. Una terra che spazia nella regione tagliata da cinque Stati: Irak, Iran, Siria, Armenia e appunto Turchia. E' il Kurdistan oppresso che la Storia degli imperialismi ha occultato con un tratti di matita ed esecuzioni di massa.
Ma oggi il servo turco si mette in mezzo agli affari americani in Irak, dove i curdi locali sono fedeli alleati dell'occupante Usa contro lo strapotere di ieri dei sunniti (filo-Saddam) e quello di oggi degli sciiti (filo-iraniani) per il controllo dei pozzi di petrolio locali. E così Ankara ha osato bombardare i resistenti curdi del dissidente Pkk, rinfocolando una zona così delicata nel marasma irakeno. Forse niente più che un fuoco fatuo, un avvertimento a Washington sul prezzo da pagare a una Turchia dove soffiano forti i venti di un Islam politico filo-europeista (vedi l'ascesa alla presidenza di Abdullah Gul, delfino di Erdogan)  
Ancora una volta, il Medioriente è vittima delle dissennate politiche degli Usa. Ancora una volta, la necessità che ogni popolo abbia una patria, e che quella patria non abbia padroni, risulta tragicamente evidente.

Giuliano Corà

 
Irak, una guerra da non vincere PDF Stampa E-mail

23 ottobre 2007

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E’ convinzione diffusa che in Iraq l’Amministrazione Bush abbia sbagliato i suoi calcoli, passando dall’annuncio di una facile vittoria all’impantanamento stile “nuovo Vietnam”.
In questo senso si è espresso da ultimo nientemeno che l'ex comandante delle truppe americane a Bagdad, il generale Ricardo Sanchez. Secondo il quale il governo degli Stati Uniti sarebbe responsabile di «un piano di guerra catastroficamente sbagliato e irrealisticamente ottimista».
«C'è stata — aggiunge Sanchez, andato in pensione nel 2006 — una palese e sfortunata dimostrazione di leadership strategica incompetente da parte dei nostri dirigenti nazionali». Cioè la banda Bush, Cheney, Rumsfeld.
Critiche pesanti e autorevoli. Tuttavia noi non le condividiamo.
Intendiamoci: Sanchez ha perfettamente ragione se consideriamo la questione dalla sua ottica, che è quella di un militare (e un militare combatte le guerre per vincerle).
Peccato però che Bush&C non siano dei militari. E allora sarebbe il caso di inquadrare le loro scelte in una prospettiva diversa. In fondo, se pensiamo al vero motivo per il quale gli Usa e i loro complici hanno mosso guerra all’Iraq, possiamo renderci conto che un Iraq rappacificato - seppur a suon di stragi delle numerose fazioni che si oppongono all’invasore e al governo fantoccio trincerato nel quartiere americano di Baghdad - forse non sarebbe funzionale alla strategia imperialista yankee.
Innanzitutto verrebbe meno il pretesto che gli americani adducono per giustificare la loro permanenza in Iraq: combattere il terrorismo e salvaguardare la "democrazia". Un bel rischio per chi preferirebbe continuare da un lato a piantonare i giacimenti petroliferi che si è assicurato, e dall’altro a mantenere in un’area strategica una forza militare così consistente.
Gli americani, poi, conoscono molto bene i vantaggi della “strategia della tensione”: un Iraq perennemente destabilizzato e nel quale non è neppure più possibile capire chi combatte o commette stragi e perché, può risultare estremamente utile. Anche all’alleato israeliano. Il pericolo del terrorismo islamico, il nuovo nemico universale, deve essere sempre tenuto vivo.
A queste ipotesi si potrebbe obiettare che le guerre costano, sia in termini economici che di vite umane. Il saldo tra i benefici e gli svantaggi di una simile strategia, dunque, sarebbe positivo?
L'amministrazione americana ha dato ampia prova di tenere in considerazione le vite umane, comprese quelle dei suoi cittadini, meno di un dollaro bucato. Quanto ai costi economici, l’11 settembre e quello che né è conseguito hanno in realtà permesso agli americani di rimettere in piedi la propria economia sull’orlo del collasso grazie all’esplosione (è il caso di dirlo) delle spese militari.
Morale: per qualcuno la guerra permanente è un ottimo affare.

Andrea Marcon

 
Il Paese di Gelli e la rivolta che non c'è PDF Stampa E-mail

21 ottobre 2007

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Mentre il ministro Antonio Di Pietro vorrebbe farci credere di essere contrario al ddl Levi che vuole mettere il bavaglio alla libertà di opinione via internet (prima lo firmi e poi ti indigni, Tonino?). Mentre il suddetto Levi precisa che a certificare se un sito faccia “attività editoriale o privata” sarà l’Autorità per le Comunicazioni, nuovo Minculpop in versione democratico-soft. Mentre la sinistra cosiddetta radicale (la Cosa Rossa, o Blob tardo-finto-marxista) va in piazza contro il Welfare del governo Prodi ma contemporaneamente a favore del governo Prodi (un manifestante: “Questo è un governo di merda, ma è il nostro governo”). Mentre si sprecano fiumi d’inchiostro sulla sciura Brambilla e i suoi Circoli della Bocciofila della Libertà. Mentre il comico Maurizio Crozza sviscera la vera essenza del veltronismo, nuovo oppio del popolo  (“Noi dobbiamo stare sempre dalla parte dei debboli, certo, ma anche dalla parte dei forti. Dobbiamo dire «I care, mi interessa», ma anche «I don’t care», che vuol dire «nun me ne po’ fregà de meno»”). Mentre al Corriere della Sera, santuario di quel Centro economico dietro al quale si cela la natura lobbistica di Destra e Sinistra, il direttore Paolo Mieli deve fronteggiare la possibile uscita di scena per la rabbia del “banchiere santo” Giovanni Bazoli, infuriato per il troppo spazio dato a un altro azionista del quotidiano di via Solferino, Montezemolo, troppo anti-prodiano nelle sue sparate finto-grillesche su riforma elettorale, tasse, sicurezza eccetera.
Mentre la solita Italietta naviga a vista con occhiali oscurati dalla propaganda di regime, un magistrato, un pm colpevole di indagare sul Presidente del Consiglio e sul Ministro Guardasigilli, Luigi de Magistris, viene esautorato: il procuratore di Catanzaro, suo superiore, gli toglie l’inchiesta su fondi europei stornati da un giro affaristico-massonico dalle importanti entrature ai piani alti del potere. Leggetevi nella sezione Articoli ribelli l’intervista rilasciata oggi al Corriere della Sera dal giudice: de Magistris lancia la gravissima accusa di una "mano occulta" la cui regia sarebbe responsabile di un golpe giudiziario organizzato a tavolino per metterlo a tacere. E la gente pare non avvedersene. Invece dovrebbe dare inizio alla rivolta.
Parafrasando quel manifestante, questo è un Paese di merda, ma non è il nostro Paese, il Paese in cui vorremmo vivere e che ipocritamente viene chiamato Belpaese. E’ il Paese di Licio Gelli e delle massonerie (partitiche, finanziarie, industriali, corporative, giornalistiche, etc). Ma anche (come direbbe Veltroni-Crozza) il Paesello cialtrone di Briatore. Dove le verità ufficiali sono le paginate e i servizi sulle polemichette false e bugiarde di vip e attorucoli del teatrino italiano. Mentre le verità senza aggettivi sono schiacciate e zittite nell’indifferenza dei più.

Alessio Mannino

 
Dittatura mascherata PDF Stampa E-mail

20 ottobre 2007

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Quatto quatto, lo scorso 12 ottobre il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Ricky Levi, ha presentato un disegno di legge che imporrebbe ai blog come il nostro di registrarsi al ROC (Registro Operatori Comunicazione). Se il ddl entrasse in vigore, la maggioranza dei siti internet italiani sarebbero costretti a sottoporsi ad assurdi passaggi burocratici e spese per molti insostenibili: certificati, bollo, etc. Anche se fanno informazione senza fini di lucro.
Qualsiasi sito o blog dovrebbe diventare una testata giornalistica, con un giornalista iscritto all’albo come direttore responsabile e una casa editrice a garanzia. Un bel modo per tappare la bocca a tutti quegli italiani che attraverso la Rete esprimono liberamente le proprie opinioni, senza per questo avere il tesserino della corporazione dei pennivendoli.
Vogliono metterci sotto silenzio: si sono resi conto che internet comincia a minare le basi del potere dell’informazione. I partiti, braccio armato degli interessi economici proprietari o inserzionisti dei media tradizionali, non hanno trovato altro modo di imbavagliarci che redigendo una legge indegna come questa. Una legge liberticida la cui giustificazione, in ultima analisi, sarebbe quella di tutelare dalla diffamazione a mezzo stampa. Un po’ come restringere l’uso delle penne perché potrebbero essere usate come armi contundenti. D’altronde, si sa: ne ferisce più la penna che la spada. Figuriamoci le tante, libere penne informatiche.
Così, dopo la tabula rasa, gli oligarchi e i loro scherani potranno finalmente controllare i pochi siti superstiti per mezzo degli editori amici.
E noi saremo costretti a spostarci su server esteri, dove questa truffa chiamata democrazia è meno sfacciata di quella italiana.
Avviso ai naviganti: chi viene ancora a dirvi che l’Italia è una democrazia, ditegli che siamo alla dittatura mascherata. E mandatelo a quel paese.

Petizione contro il disegno di legge Levi
Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo  di Ricardo Franco Levi

Antonello Molella

 
Watson, il razzista "scientifico" PDF Stampa E-mail

19 ottobre 2007

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James Watson, 79 anni, premio Nobel per la medicina per aver "scoperto" il DNA insieme a Francis Crick, si è dichiarato pessimista sull’Africa: “l'intelligenza degli africani è come la nostra? Ciò contraddice tutti gli esperimenti effettuati”.
Giusto il pessimismo sull’Africa: noi bianchi occidentali e il nostro sistema di sviluppo ne abbiamo decretato la tragica fine.
L'opinione di di Watson, tuttavia, oltre che essere semplicemente razzista (gli esperimenti di cui parla non sono dotati di alcuna validità scientifica), è anche di una arroganza senza precedenti. Come se non fossimo stati noi bianchi, con la nostra stupidità, la nostra violenza e il nostro umanitarismo interessato, ad avere decretato la devastazione dell’Africa. Un continente, dati alla mano, che era autosufficiente e “felice” fino agli Anni Sessanta del secolo scorso. Ma, giustamente, in democrazia la libertà di espressione impone che ciascuno possa dire la sua. Ci sono però affermazioni responsabili e irresponsabili. Essendo Watson un premio Nobel, la sua parola è autorevolissima e potente. Le opinioni di Watson pesano come macigni: non è certo un avventore da bar che dice che i marocchini sono tutti nullafacenti e stupratori.
L’idea “i bianchi sono più intelligenti dei neri” (magari supportata in futuro da qualche test di intelligenza che, in un mostruoso rituale di autocelebrazione della mente umana, sarebbe dotato di valore scientifico) giustifica la morsa in cui l'Occidente tiene avvinta l'Africa.
Tiriamone le conseguenze. L’uomo bianco sarebbe scientificamente superiore all’uomo nero. I neri sarebbero scientificamente schiavi dei bianchi perché meno intelligenti. Quindi non solo il libero mercato, il capitalismo, l’economia, i teorici del destino manifesto giustificherebbero lo scempio che è stato fatto dell’Africa e del resto del mondo (compreso lo stesso Occidente), ma anche la scienza ufficiale.
Spesso il razzismo nasce dalla paura verso ciò che non si conosce o non si comprende o da qualche sentimento di inferiorità. Non sarà che Watson abbia qualche infantile complesso d'inferiorità verso i neri, ancora non del tutto assoggettati al dominio bianco?
L’eminente scienziato premio Nobel ha sostenuto in passato il diritto delle donne ad abortire quando test genetici avessero dimostrato l’omosessualità del feto. Il Museo della scienza di Londra ha fatto bene a mettere a tacere un vecchio razzista come Watson. Se vuole, che scriva, come gli altri, le sue stronzate su un blog.

Ettore Casadei

 
La luce in fondo al tunnel PDF Stampa E-mail

17 ottobre 2007

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«I politici pensano che la popolazione debba essere tenuta lontana dalla gestione degli affari pubblici... Secondo questo punto di vista è sbagliato provare a coinvolgere la gente nella gestione della cosa  pubblica...le oligarchie pensano che la maggioranza della popolazione sia ignorante e inaffidabile...». Ma chi è l'anarco-insurrezionalista che afferma tali oscenità? Un terrorista? Un disperato? Un bombarolo? No. E' Noam Chomsky, un pacato professore di linguistica del Mit di Boston.
Di recente Chomsky ha anche detto: «È chiaro, quindi, perché le persone al potere non agiscono secondo i desideri della popolazione; questo è l'opposto di una democrazia funzionante. Penso che la vera democrazia sarebbe molto più efficace senza quelli che chiamiamo partiti politici, che funzionano solo come macchine per la produzione di candidati. L'unica forma di partecipazione è radunarsi ogni tanto e scegliere tra candidati e programmi che vengono presentati loro. Le persone sono escluse dalla formazione delle posizioni politiche dei candidati. Alcune figure che sono in grado di raccogliere finanziamenti, il che vuol dire che sono "create" dal mondo economico, arrivano nelle città e dicono "Vota per me perché so io cosa fare" e la gente decide se votarli o meno. Una società democratica dovrebbe funzionare un po' diversamente. Cosa dovrebbe accadere in una democrazia vera? La gente si radunerebbe pubblicamente e deciderebbe quale politica preferisce e direbbe ai candidati: "Questa è la politica che desideriamo; se sei in grado di portarla avanti bene, altrimenti vai a casa"». Insomma ritorna la saga della politica e della democrazia come affare riservato a poche elites, di cui la casta dei parassiti eletti è solo la facciata più visibile
Vista la stretta attualità di queste parole, uno si aspetta che la grande stampa italiana approfondisca l'argomento. Invece no. L'ha dovuto fare Beppe Grillo sul suo blog.
Leggendo Chomsky  viene alla mente che le stesse identiche considerazioni, con un taglio più rivolto alla analisi culturale e di grande prospettiva, le fa da sempre Massimo Fini, con la sua critica inoppugnabile alla democrazia cosiddetta "rappresentativa".
Che significa questo? Significa che in giro per il Paese c'è un bel po' di gente che si è stufata e ha cominciato a seguire una stessa onda di ritrovata consapevolezza, con passione e alla ricerca di informazioni reali e non manipolate.
Alziamo la testa e riprendiamoci il foro della res publica. Grillo ci sta provando, mettendo il carburante. Ma alla sua macchina manca una meta. Molti intellettuali come Fini, Chomsky, Serge Latouche, affrontano le medesime tematiche muovendosi su piani (finora) diversi. Ma gira e rigira tutti dicono la stessa cosa: «Ormai la politica non che è l'ombra che il potere economico ha posto sulla società» (giusto per citare il filosofo John Dewey).
Sarebbe ora che il coro sparso delle voci critiche facesse davvero coro, e che i movimenti di protesta e le teste pensanti si parlino. Per indicare una luce in fondo al tunnel.

Marco Milioni

 
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