20 febbraio 2008 Quella venuta in mente ad Alberto Perino, uno dei valsusini più fantasiosi e tenaci fra i molti che si oppongono al Tav e non sono mai stati sfiorati dall’idea di pentirsi, è un’idea geniale di quelle destinate a lasciare il segno. Lo si è potuto evincere fin da subito constatando come la Valle NO TAV che molti avrebbero voluto ormai “addomesticata” sia tornata a fare parlare di sé sulle prime pagine dei giornali e sui “telebugia” nazionali, per approdare perfino alla tv francese, lasciando basita buona parte della classe politica italiana che non brilla certo in quanto a fantasia. La proposta fatta ai 32.000 cittadini della Valle di Susa che la scorsa estate hanno firmato il documento di contrarietà al Tav, ma anche a tutti coloro che quel documento non hanno potuto firmarlo, è quella di acquistare 1 mq della loro Valle nei territori che dovrebbero essere oggetto dei cantieri per la costruzione dell’opera. Quando arriveranno le ruspe migliaia di proprietari potranno così concretamente esercitare il diritto legale di opposizione a qualunque decreto di esproprio o di occupazione temporanea che dovrà essere notificato, stando alla legislazione attuale, ad ogni singolo proprietario, dilatando in questa maniera a dismisura i tempi di costruzione dell’opera. La genialità dell’operazione come si può ben comprendere va però molto al di là dell’aspetto meramente burocratico, in quanto dischiude nuovi orizzonti di lotta legale e non violenta che sono in grado di mettere in crisi l’arroganza dei poteri finanziari e politici che prevaricano sistematicamente i cittadini. Cittadini che difendono la propria terra ed il proprio futuro con i denti diventando simbolicamente proprietari di una parte infinitesimale di quel territorio che la mafia del cemento e del tondino intende cementificare, inquinare, violentare e distruggere. Immaginate se tutte le centinaia di realtà che in Italia stanno lottando contro le nocività facessero propria l’idea di Alberto Perino. Se tutti coloro che lottano contro il Tav, gli inceneritori, le discariche, le centrali a carbone e turbogas, le nuove autostrade, i rigassificatori ed ogni altra grande opera attraverso la quale verrà devastato il territorio in cui vivono, decideranno nei prossimi mesi di acquistare collettivamente porzioni dei terreni sui quali dovrebbero sorgere questi mostri. La Valle di Susa, dove i cittadini hanno iniziato ad acquistare “un posto in prima fila” può essere il preludio di tanti nuovi palcoscenici quanti i politici immersi fra i sondaggi della campagna elettorale neppure possono immaginare. Una cosa è certa, si tratterà comunque di uno spettacolo da non perdere per nulla al mondo e le adesioni, prima ancora che il progetto sia partito ufficialmente sono già svariate centinaia. Pochi pentiti ma molti in prima fila! Marco Cedolin
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19 febbraio 2008 Kosovo indipendente: giusto o sbagliato? Qui sotto potete leggere due opinioni di militanti di Movimento Zero. Ad esse, per un libero confronto di idee, ci sentiamo di aggiungere quella nostra, molto semplice. In base alla riscoperta e alla valorizzazione delle identità locali (piccole patrie) - un augurio per il futuro ma anche un processo in atto per reazione alla pseudo-identità globalizzata i cui modi possono essere vari, non necessariamente violenti o comunque "illegali" - in forza dell'autodeterminazione dei popoli e del diritto di non riconoscersi più nel proprio Stato quando questo faccia strame del principio di sovranità, è sacrosanto difendere la possibilità per un gruppo etnico, culturale, linguistico e sociopolitico di ribellarsi. Ora, il caso kosovaro è figlio di interessi geopolitici di Nato, Usa e Unione Europea. La nuova enclave sorta dai roghi delle guerre balcaniche di fine Novecento è certamente una propaggine occidentale in funzione anti-serba e anti-russa. Un avamposto atlantico nel cuore dei Balcani. Ma non confondiamo i fantocci occidentali - e dentro ci siamo anche noi Italiani, che abbiamo nostre guarnigioni in loco - col diritto delle minoranze (basche, irlandesi, còrse, curde, etc) a far valere la propria identità. La stabilità, se monta la guardia a Stati nazionali servi della globalizzazione, è un disvalore da combattere. (a.m.) Uno Stato-fantoccio Ci siamo. Il governo-fantoccio di Pristina, capitale del peggior Stato-mafia in Europa (il Kosovo post-1999) ha dichiaratol’indipendenza. Ora si teme un effetto domino su vasta scala. Gli Americani, prudenti, avevano già provveduto a chiamare l’ambasciatore sloveno a Washington per dirgli, senza tanti complimenti, come doveva comportarsi il suo Paese durante il proprio semestre di presidenza europeo riguardo la concitata indipendenza kosovara. D’altronde, quello che volevano lo hanno già. In Kosovo, vicino Pristina, sorge quella che deve diventare, se non lo è già, la più grande base militare americana nel vecchio continente. Conficcata lì, nei Balcani, in posizione più che strategica. Altro che pulizia etnica serba ai danni dei kosovari albanesi. Il nervosismo del presidente russo Putin, e i suoi argomenti, sono più che comprensibili. Di certo si sa che la Russia farà di tutto per evitare l’indipendenza, e se questa effettivamente sarà, sarà al di fuori dell’Onu e del diritto internazionale. Gli europei, frattanto, cercano di comprare la sudditanza serba promettendo in cambio un posto nell’Ue. Le elezioni presidenziali in Serbia vengono vinte da Tadic, appoggiato e finanziato dall’Occidente, ma di un soffio, sul suo avversario ultranazionalista. E non può quindi che affermare che farà ogni sforzo per mantenere la sacrosanta integrità territoriale dello Stato serbo, e conservare il Kosovo, luogo della memoria fondativa del suo popolo. Ma possiamo star certi che, quando i serbi di Bosnia vorranno, a questo punto giustamente, staccarsi e far parte della Serbia, verranno addidati come facinorosi terroristi. Come lo sono i curdi in Turchia, d’altronde... E noi siamo anche con quegli indiani Sioux che, qualche tempo fa, hanno iniziato la loro campagna per la secessione dagli Stati Uniti d’America. E’ sempre esistito, piaccia o meno, un solo diritto internazionale: quello del più forte. Ciò che è francamente insopportabile, oggi, è l’ipocrisia di volerlo mascherare come il trionfo della Ragione e della Giustizia sull’oscurantismo. Antonio Gentilucci Effetto domino Il Kosovo è ufficialmente uno stato indipendente. Con un solenne atto unilaterale del suo parlamento e il sostegno dell'Occidente (in primis degli Usa), questa terra non sarà più provincia serba, ma uno stato sovrano. Un'indipendenza che per Belgrado e per i serbi superstiti di questa regione rappresenta un'offesa, prima ancora che uno strappo al diritto. E che per la gente albanese invece è una rivincita contro tutte le frustrazioni del passato, dopo gli otto anni di protettorato Onu seguito ai bombardamenti della Nato del 1999 e alla repressione anti-separatista operata dall'ex presidente serbo Milosevic. Sta di fatto che questa proclamazione unilaterale di indipendenza, oltre a violare il principio di integrità territoriale degli Stati, si basa sull'assurda pretesa che ogni nazionalità, ogni gruppo etnico ha il diritto di proclamarsi indipendente nei confronti dello stato nel quale fino a quel momento era inserito. L'errore madornale è proprio quello di confondere e di equiparare due principi e realtà assolutamente distinte e diverse tra loro, la Nazione e lo Stato. E' vero, in alcuni casi possono coincidere, come in Francia, o non essere sovrapponibili come in Svizzera. Ma dove sta scritto, quale principio del diritto internazionale stabilisce che cittadinanza e nazionalità debbano per forza coincidere? Un esempio su tutti: gli Stati Uniti d'America. Questo immenso stato federale rappresenta un variegato mosaico di culture, stirpi ed etnie diverse, che riescono tutto sommato a convivere senza attriti e in maniera pacifica. Un calderone enorme che comprende le minoranze più disparate. Sarebbe impossibile tracciare dei confini definiti e definitivi che separino un gruppo etnico da un altro. La cosa fondamentale per ogni Stato, non è quella di rendere indipendente dal punto di vista statuale e amministrativo ogni sua minoranza etnica, religiosa e culturale al suo interno, ma semplicemente di tutelarla, garantire la sua libertà di espressione e il suo sviluppo secondo regole e tradizioni proprie. Ecco perchè l'indipendenza del Kosovo rischia di avere un effetto domino in tutta Europa, per cui i vari movimenti separatisti e indipendentisti si sentirebbero a loro volta in diritto di staccarsi dagli stati di cui fanno parte. Vedi i baschi, l'Ossezia, Abkhazia, fiamminghi e/o valloni, irlandesi del nord, bretoni e via di seguito. Inoltre nei potenziali nuovi micro-stati, le minoranze, inevitabilmente esistenti al loro interno, sarebbero esposte a loro volta a pesanti oppressioni; per esempio in uno stato basco i numerosi spagnoli viventi nel suo territorio sarebbero assai meno tutelati di quanto lo siano oggi i baschi in Spagna. Se si inizia a scindere ogni comunità nelle sue componenti — etniche, religiose, di qualsiasi genere—non si finisce più. Perchè, come dice Claudio Magris: "La nazionalità è un valore caldo: lingua, consuetudini, canzoni, paesaggi, cibi. Lo Stato è un valore freddo: leggi, regole, sicurezza e assistenza sociale. Si amano i valori caldi, ci si commuove per una canzone natia, non per un articolo di un codice. Ma è quest’ultimo che permette a ognuno di cantare, commuovendosi, le sue canzoni" Dunque una tendenza preoccupante, quella inaugurata dal Kosovo, che rischia di diventare alla lunga al quanto pericolosa per la stabilità geopolitica dell'Europa. Marco Ghisolfi
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Contro Israele, non contro gli ebrei |
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17 febbraio 2008 Il boicottaggio lanciato contro la Fiera del Libro di Torino, che ha scelto lo Stato di Israele come ospite, ha riproposto per l’ennesima volta una delle più insopportabili menzogne che da decenni circolano nella cultura mondiale, quella dell’identità tra antisemitismo e rifiuto della politica israeliana. Definiamo prima di tutto, tanto per capirci, alcuni elementari concetti di base. 1) L’antisemitismo è (sarebbe) una forma di razzismo. 2) Razzismo significa identificare una "razza" (tralascio ogni argomentazione sull’inconsistenza anche scientifica del concetto di "razza", che da decenni è ormai un fatto acquisito e su cui non vale la pena di tornare) esclusivamente in base a certe caratteristiche fisico-somatiche, e rifiutarla in quanto tale. 3) Ma se proprio io volessi essere così stupido da assumere un atteggiamento razzista, potrei rifiutare i neri (perché li riconosco dal colore della pelle) e gli orientali (perché hanno gli occhi a mandorla), ma non potrei mai essere antisemita. Per la semplice ragione che non esistono assolutamente caratteri visibili in base ai quali identificare un ebreo. Che, tra l'altro, non va confuso con l'israeliano: quest'ultimo è un cittadino di uno Stato che si chiama Israele, ebreo è una persona che professa la religione ebraica. Semplice, banale.. Perché, allora, tanta voluta confusione, quando i termini del problema sono così "elementari"? Perché la confusione è un ingrediente tipico della disinformazione messa a punto dal sionismo internazionale per alzare una cortina fumogena che impedisca di vedere e denunciare i crimini di Israele, a partire dal suo stesso atto di nascita – consistente nell’espropriazione di una patria ad un popolo, quello palestinese, che l’abitava da duemila anni – sino all’attuale e permanente etnocidio, quando non genocidio, del suddetto popolo. Si veda, a questo proposito l’intervista rilasciata pochi giorni fa a Parigi da Moshe Kantor, Presidente del Congresso Ebraico Europeo (riportata dal Corriere della Sera). Kantor allinea alcuni dati sotto gli occhi di tutti. Per esempio, la cosiddetta Black List, quell’elenco di professori di origine ebraica comparso giorni fa su un blog di incerta provenienza (e, guarda caso, un analista israeliano ne avrebbe trovato l’origine in Iran: due piccioni con una fava!). Ché, se le armi di questa fantomatica cospirazione antisemita internazionale fossero tutte qui, gli ebrei avrebbero di che ridere, non di che preoccuparsi. Poi ci aggiunge, appunto, il boicottaggio; e infine la riforma della preghiera tridentina voluta dal Papa (un evento insignificante, di cui nessuno si sarebbe accorto se, appunto, molti intellettuali ebrei non avessero fatto di un topolino una montagna). Per giungere ad un’incredibile dichiarazione, che è un vero e proprio proclama terroristico: “In Italia esiste un vero e proprio asse del male”, per cui egli teme “una seconda Notte dei Cristalli”. Non ci sono parole per commentare una simile affermazione, che ha i toni ad un tempo della propaganda terroristica e dell’ennesima chiamata alle armi contro chiunque osi criticare, anche solo indirettamente, la politica israeliana. Che poi quel sionismo internazionale sia, esso sì, tutt’altro che un fantasma, lo conferma, se ce ne fosse bisogno, l’intervista (sempre sullo stesso Corriere) con Elan Steinberg, direttore del World Jewish Congress, organismo a cui fanno riferimento non solo gli intellettuali Usa di origine ebraica, ma anche e soprattutto quei potentati economici che hanno sempre sostenuto e finanziato la politica Usa nei confronti dello Stato di Israele, effettuando da decenni fortissime pressioni perché le innumerevoli risoluzioni ONU contro di esso venissero sempre trattate come carta straccia. Quanto esso sia potente, lo testimonia il tono inquietante e minaccioso delle parole di Steinberg: “Le azioni dei partiti italiani, del governo e della Chiesa Cattolica da oggi saranno sotto il microscopio. Se si continua su questa strada e gli incidenti aumenteranno, il raffreddore degli ebrei europei si trasformerà in febbre alta per gli ebrei della diaspora, e non possiamo escludere in futuro l’ipotesi di un boicottaggio nei confronti dell’Italia”. Cerchiamo dunque di evitare il meccanismo pavloviano e intellettualmente infame per cui ogni critica ad Israele si trasforma in antisemitismo. Proviamo a ragionare con la nostra testa e sui fatti. Si può essere (e si deve essere) anti-israeliani per ciò che quello Stato fa da sessant'anni al popolo palestinese, e questo non significa affatto essere antisemiti. Giuliano Corà
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MZ Reggio Emilia: no all’aeroporto |
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15 febbraio 2008 La città più inquinata della pianura Padana, media delle concentrazioni di polveri sottili più che doppia rispetto ai limiti di rischio per la salute, la maggior estensione percentuale di territorio cementato in Italia: questi i primati di Reggio Emilia. Poi, un aeroporto che da decenni gli amministratori credono di poter mettere in concorrenza con il mega-scalo di Bologna, ma su cui da sempre non volano altro che i Piper degli amatori. Negli ultimi 10 anni, 5 milioni di euro spesi da Comune e Provincia, soci di maggioranza della società proprietaria, per aumentarne il capitale sociale, altri 3.5 milioni di euro (pubblici) in infrastrutture per far decollare l’aeroporto ma da cui continuarono a decollare solo i Piper, 2,5 milioni le perdite di bilancio accertate, tutto a spese dei contribuenti. Reggio, cittadina di medie dimensioni economicamente dinamica, ma amministrata in passato da gente dalle vedute tanto ampie quanto irrazionali, non si è voluta accontentare di ciò che aveva ma ha fatto il passo più lungo della gamba. Nel 2007 la resa: Comune e Provincia gettano la spugna e cercano di vendere le quote della società. Intanto l’inquinamento locale tocca il livello massimo mai registrato, 140 sforamenti dei limiti contro i 35 consentiti dalla legge. L'USL locale calcola che se fossero rispettati, ci sarebbero 400 morti in meno all’anno in provincia. L’aeroporto è un grande campo di 170 ettari a due passi dal centro città. Il gruppo ambientalista Resistenza Verde ha capito che è perfetto per ospitare un immenso bosco urbano, centinaia di migliaia di alberi che contrastino la cappa di smog che soffoca la città. Contro ciò, residue fantasie di grandezza: chi parla ancora di ampliare la pista, voci sull’interessamento di aziende private, si è detto anche di usarla per collaudi sperimentali, quindi pericolosi, addirittura, nella piccola parte destinata comunque a verde pubblico, pare che ci passerà in mezzo una strada... Movimento Zero di Reggio ha aderito alla campagna per ottenere dall’amministrazione l’unica cosa di cui hanno bisogno i reggiani, che non sono fasulle prospettive di sviluppo, non soldi versati nelle casse comunali da aziende che si prenderebbero la terra sottraendola alla cittadinanza, ma è la tutela della salute attualmente a rischio! Nei primi due sabati di febbraio sono state raccolte 2000 firme nelle piazze in poche ore e decine di cittadini si sono offerti per collaborare, si continua fino a metà marzo, allora andremo a portare la petizione al sindaco. Vedremo se conta di più la volontà dei cittadini o le ragioni di cassa. Alessandro Marmiroli Movimento Zero Reggio Emilia
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12 febbraio 2008 Senza il minimo senso del ridicolo e della vergogna, il Pentagono ha fatto sapere che chiederà la pena di morte per sei presunti terroristi prigionieri a Guantanamo e che presto verranno processati dai tribunali speciali voluti dall’amministrazione Bush per combattere anche attraverso le armi giudiziarie il nemico. La stragrande maggioranza dei media occidentali hanno riportato la notizia supini come sempre al verbo del padrone d’oltreoceano. Vette inarrivabili di tragica comicità ha ad esempio toccato l’edizione serale del TG2 dello scorso 11 febbraio, che ha commentato la notizia della presunta confessione di uno dei prigionieri in relazione all’attentato dell’11 settembre citando le perplessità che alcuni avrebbero manifestato circa le modalità con la quale sarebbe stata ottenuta tale “confessione”. Eppure di Guantanamo si sa pressochè tutto: esistono video, testimonianze dirette, dettagliati resoconti di associazioni quali Amnesty International e persino film come “A road to Guantanamo”. Si sa che nel carcere cubano viene calpestato ogni più elementare principio di diritto, che vi sono oltre 500 detenuti che attendono il loro destino da quasi sette anni senza essere mai stati processati, che viene praticata nei loro confronti ogni sorta di tortura fisica e psicologica, unitamente a umiliazioni contrarie a quei diritti umani che gli Usa dicono di difendere quando bombardano ogni angolo del pianeta. Nella “più grande democrazia del mondo”, evidentemente, non sanno che l’istituzioni di tribunali speciali nei confronti dei nemici è un’aberrazione giuridica (purtroppo non la prima della Storia), che le confessioni estorte con la tortura non hanno alcun valore, che la detenzione prolungata di persone senza che sia loro garantita una seria difesa legale calpesta i basilari principi di tutela giuridica che una Stato liberale dovrebbe salvaguardare come sacri. Peggio: tutto questo gli Stati Uniti lo sanno benissimo. Come possono allora fregarsene bellamente, godendo della sostanziale indifferenza di opinione pubblica e mass media? La risposta è tutta in una dichiarazione di Bush rivolta a chi gli faceva notare che a Guantanamo non sono rispettate le regole della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra: “Ma guardi che quelli non sono come noi, non condividono i nostri stessi valori”. Sugli ebrei, Hitler non avrebbe saputo esprimersi meglio. Andrea Marcon
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