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Little Italy PDF Stampa E-mail

5 ottobre 2007

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Feudalesimo. Levata di scusi generale contro le dichiarazioni dei giudici Clementina Forleo e Luigi De Magistris alla trasmissione Annozero di Michele Santoro. Lasciamo perdere Santoro, che non ci piace e tuttavia, col suo darsela da bastian contrario, a volte ci fa vedere pezzi di realtà non banali. I due magistrati - l’una, la gip, altalenante fra il rogo e il santino a seconda dei giudizi che emette: mai che venga il dubbio che faccia semplicemente il suo mestiere, eh?; l’altro, il pm, sotto accusa per fumose irregolarità formali in inchieste su ramificate reti di potere – hanno detto ciò che anche l’ultimo uomo della strada sa benissimo: quando indaga nelle alte sfere, il magistrato si trova di colpo solo, accerchiato e messo all’angolo. La Forleo ha trattato il caso Unipol-Ds, con Fassino, Latorre e D’Alema beccati con le mani nella marmellata finanziaria. De Magistris ha osato intercettare il ministro guardasigilli Mastella in una storia di intrallazzi mafiosi. Naturalmente, sono tutti e due nel mirino. Perché al fondo delle ipocrite reazioni da parte politica contro i giudici, come ha scritto sul Gazzettino di questa mattina Massimo Fini, esiste la “vergognosa tendenza dell’Italia di oggi ad avere due diritti penali: uno, estremamente comprensivo, per la classe dirigente, per la Casta, e uno spietato per tutti gli altri. Che è il feudalesimo che stiamo vivendo”.
Bambocci. Grande indignazione per la battuta proferita nell’augusto consesso dell’aula parlamentare dal ministro dello sfruttamento economico ed ex banchiere centrale europeo Padoa Schioppa: “bamboccioni fuori di casa”. Stava parlando di 1000 euro all’anno di sgravio fiscale per gli affitti ai giovani. A noi, se la battuta sia di cattivo gusto, non fa né caldo né freddo. Ci mette terribilmente di cattivo umore, invece, che nessuno parli del vero motivo per cui i “bambocci” sono costretti a restare nella bambagia materna: le paghe da fame e l’incertezza assunta a regola di vita con cui i contratti “flessibili” – gioia degli imprenditori – condannano gli under 30 e oltre a restare eterni bambinoni e perfetti consumatori di gingilli inutili. Fino agli anni ’60, in Italia, non era assolutamente così. C’erano famiglie di classi umilissime che tiravano avanti in tutta dignità col solo stipendio del padre. Ora una coppia di giovani non ce la fa neppure essendo in due. Si stava molto meglio quando si stava peggio. Ma la nostra classe dirigente ci dice sempre che dobbiamo essere moderni e al passo coi tempi
Assassini. «E’ tutto uno schifo, sono tutti assassini. Prodi e Berlusconi sono assassini. Mio figlio è stato mandato a morire per fare un favore a Bush». Queste le parole di Mario, il padre dell’agente Sismi Lorenzo D’Auria morto dopo il rientro in Italia seguito alla sua liberazione dai Talebani in Afghanistan. Ora, che lui e l’altra spia italiana dovessero essere sottratti alla prigionia “manu militari” non è in discussione. Come non lo è il fatto che uno di loro possa essere caduto, magari sotto i colpi del “fuoco amico”, perché questo è un rischio che corre un soldato, e ancora più un agente segreto, in un teatro di guerra. Il rispetto per il dolore familiare non va confuso col piagnisteo tutto italiano che si scatena ogni qual volta un nostro militare, che ha scelto di fare quella vita, muore vittima di questa stessa scelta. Però una cosa giusta l’ha detta, Mario D’Auria: suo figlio non c’è più per una guerra – perché quella in Afghanistan è una guerra – che noi siamo andati a combattere accodandoci alla follia neocon degli Usa. Lorenzo è morto per esportare la “democrazia”. Ricordiamocelo. (a.m.)

 
Giustizia ingiusta PDF Stampa E-mail

3 ottobre 2007

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Renato Vallanzasca è un delinquente. Ha rapinato, sparato, ucciso, più volte e in modo atroce. Ha provocato devastazioni alla società e dolore insanabile a tante famiglie.
Renato Vallanzasca ha sessant’anni. Ne ha passati in carcere trentacinque, e dovrà restarci per sempre, condannato com’è a vari ergastoli. La sua unica figlia si è suicidata alcuni anni fa. Sua madre ha novantacinque anni. Aveva chiesto la grazia, e il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gliel’ha negata (una decisione che non stupisce da parte di chi, già nel PCI, era "uomo d’ordine", e che certo non può essere migliorato, ora che è stato elevato alla più alta carica dello Stato. Ma questo è un altro discorso).
Quello che indigna e spaventa, in questa vicenda, è l’insopportabile afror di forca che si leva dal rifiuto, lo spaventevole sventolio di cappi che esso emana. E’ una decisione, quella di Napolitano, che manifestamente va a rispondere  – vorrei sperare inconsciamente – al giustizialismo da quattro soldi che spazza da tempo il Paese, con la sinistra che fa la parte dello sceriffo per rincorrere la destra. Rom, lavavetri, rapinatori, pedofili, e poi ladri comuni, spacciatori, puttane e compagnia bella: da più anni e da più parti si leva ormai, contro di loro, l’invocazione di una moratoria, sì, ma della legalità. Per gli Amato e i sindaci benpensanti ex comunisti il carcere è poco: la pena di morte, ci vuole, magari fucilati in piazza, la domenica mattina, e addebitare i proiettili alla famiglie, come si diceva ai tempi delle BR. E per sopperire all’inefficienza di uno Stato troppo lassista e buonista, qualcuno su sta già organizzando per amministrare la giustizia in proprio: sempre più spesso piove benzina sugli accampamenti Rom, ed attendiamo gli squadroni della morte che di notte vadano in giro ad eliminare mendicanti e ragazzi abbandonati, esseri inutili e dannosi. Così la pensa – è inutile negarlo – la gran parte degli "italiani brava gente".
Andava punito, Renato Vallanzasca? Vanno puniti tutti quelli che come lui causano dolore agli uomini e danno alla comunità? Certamente. Ma se è evidente che la pena di morte non è né un deterrente al crimine né una ‘punizione’ giusta e logica, tanto più evidente risulta che non lo sia nemmeno il carcere. A che serve tenere chiusa in una cella una persona per cinque, dieci o vent’anni? Forse a fargli frequentare un corso di specializzazione in alta criminalità? A farlo diventare un omosessuale coatto? A trasformarlo in un tossico? A riempirlo di rabbia cieca e di vendetta, così che poi possa costituire una lombrosiana dimostrazione che i delinquenti è meglio ammazzarli tutti? E, sia pur accettando di ragionare secondo questa logica bottegaia, in che modo questo ‘risarcisce’ la società e il singolo del male patito?
Cos’è, questa: Giustizia, o la versione per adulti delle bacchettate sulle dita e delle scudisciate sul culo di vittoriana memoria? O non è altro che la vecchia, cara legge del taglione? E’ un punto di vista ammissibile anche questo, perché no: ma allora, se non altro per coerenza – virtù molto poco praticata in Italia – cancelliamolo dalla Costituzione quell’articolo che dice che la pena deve tendere non alla punizione ma alla rieducazione del condannato. Troviamo dunque un risarcimento effettivo.
Chi è colpevole di un crimine lo ripaghi lavorando, in uno di quei lavori che la gente normale chiama "usuranti": fonderie, raffinerie, cantieri edili, spegnimenti di incendi, manutenzione di zone montane eccetera. E così per anni, imparando la fatica del vivere. Chi ha causato sofferenza la ripaghi vivendo la sofferenza quotidianamente, assistendo anziani non autosufficienti, malati terminali, nei pronto soccorso, sulle strade, imparando il dolore del vivere.
Finito il lavoro, passerà le sue giornate in un piccolo appartamento che gli verrà assegnato, di cui pagherà l’affitto. Alla fine il prezzo pagato sarà stato equo, e se una minima speranza di ”rieducazione” e – concedetemi il termine solo apparentemente retorico – di redenzione ancora potrà esistere, la si troverà solo pagando un riscatto come questo. Tutto il resto è ferocia e stupidità.

Giuliano Corà

 
Finanziaria: oligarchie, truffe e videopoker PDF Stampa E-mail

3 ottobre 2007

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Ricordate il botto (momentaneo) che nel maggio scorso fece l'inchiesta del Secolo XIX? Il quotidiano di Genova, carte alla mano, spiegò che in Italia una mezza dozzina di società che gestiscono le concessioni per il videopoker ha un debito verso l'erario di 100 miliardi di euro. 200 mila miliardi delle vecchie lire. Cinque finanziarie light, quattro robuste, tre lacrime e sangue. Giusto per capirci, la manovra del governo Prodi nei prossimi mesi al vaglio del parlamento (e delle lobby che nell'ombra la emendano e la riscrivono usando gli scaldasedie come marionette) è in totale di 18,5 miliardi.
Durante l'estate i media, non si sa perché (o lo intuiamo benissimo), si sono ben guardati dal lanciare una campagna contro questa schifezza generata nel 2003 dal governo Berlusconi e nascosta fino ad oggi dal sodale Prodi.
Ma le indiscrezioni che vengono da Roma sulla finanziaria vanno oltre ogni immaginazione. Maggioranza e opposizione starebbero studiando un emendamento bipartisan con il quale rendere possibile un concordato tombale, al costo di poche briciole, a beneficio delle concessionarie. E queste compagnie, fai caso, vengono date vicine ai seguenti partiti: Ds, An, Fi, Udeur ed Udc.
Secondo il Secolo XIX la fetta maggiore spetterebbe, però, alle mafie. All'interno di quest'ultima speciale categoria, il bottino maggiore sarebbe quello della cosca catanese dei Santa Paola. Ribadisco che secondo i pochi articoli usciti sulla stampa sinora, si tratterebbe di una delle più colossali truffe ai danni di noi cittadini mai messa a segno nella storia d'Italia. Ma chi gestisce le concessionarie è ancora lì, e il silenzio regna sovrano.
Nel collegato alla manovra, inoltre, saranno previsti tagli all'Ires, la tassa sulle imprese, che scenderà dal 33 al 28%. Anche l'Irap calerà (al 3,9). Tagli che fanno la felicità di chi, di riffa o di raffa, sguazza sempre sulle tasche dei cittadini: le industrie. Che infatti hanno osannato la finanziaria di Padoa Schioppa con la solita, odiosa e ipocrita formula: "va nella direzione dello sviluppo del Paese". Sì, dello sviluppo dei loro profitti.
I governi, di destra o di sinitra, quando devono cercare le risorse per stare al passo con la stramaledetto "sviluppo", alla fine vanno a beccare sempre da chi ha meno. E aiutano sempre chi ha già molto. Per la gente che vive (male) di stipendio (poco), la morale è sempre quella: sacrifici, sacrifici, sacrifici. Per chi deve fare i suoi affari (fondati sul dogma del lavorare sempre di più per avere sempre meno), il premio è sempre lo stesso: favori, favori, favori.
L'intervento sulle tasse alle imprese è un classico, riuscitissimo esempio di lobbying confindustriale. Come quello sui videopoker è un classico, terribile esempio di lobbying mafioso e partitico.
Il regime in cui viviamo, da molti cocciutamente definito democrazia, non è che un sistema di oligarchie organizzate. Oligarchie che quando non si fanno la guerra tra loro per ragioni di potere (ma mai mettendo in discussione tali ragioni), la fanno ai cittadini che stanno dall'altra parte della barricata. E il metodo preferito è svuotargli le tasche. Condannandoli al solito, insensato sgobbare per tenere in vita la rendita di posizione delle bande oligarchiche.

Marco Milioni

 
E' online MZ n°4 PDF Stampa E-mail

2 ottobre 2007

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E’ on line il quarto numero stampabile di MZ – Il giornale del Ribelle. Potete liberamente scaricarlo cliccando in alto a destra, dove vedete scritto MZ Download. Perché una versione cartacea del blog? Per diffonderne i contenuti col vecchio ma imbattibile sistema della distribuzione a mano, faccia a faccia, porta a porta, nelle biblioteche, nelle università, nel luogo di lavoro, col volantinaggio in strada. Fate quante più copie potete (attenzione a stampare in fronte/retro: pagg 1-2 e pagg 3-4), rilegate con una semplice graffettatrice, e distribuite. (a.m.)

 
Questione di brand PDF Stampa E-mail

30 settembre 2007

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Pochi giorni fa è partita una nuova campagna pubblicitaria. Il marchio è la Nolita (abbigliamento). A firmarla Oliviero Toscani, il provocatorio fotografo che ha fatto le fortune della Benetton.
Il soggetto è una modella anoressica, ritratta nuda in tutto il suo stato pietoso di malata. La malattia della ragazza (il suo nome è Isabelle Caro) è presentata in tutta la sua cruda realtà: la pelle rovinata dalla psoriasi, il corpo scheletrico, le mani grigie ed invecchiate e il viso scavato dove solo gli occhi danno un vago senso di vita.
L'anoressia è una delle patologie che rientra in quelli che sono chiamati “mali moderni”. Le sue vittime sono prevalentemente donne di giovane età, che accusano un disturbo del comportamento alimentare. In pratica cominciano a non mangiare più e a sviluppare un rifiuto per il cibo fino a raggiungere la morte per denutrizione. Pancia vuota in una società che costringe a rimpinzarsi del superfluo fino a vomitare.
Il risultato è sui cartelloni pubblicitari delle nostra città: un macabro inno alla morte causata dalla modernità bulimica e trionfante, che dona infelicità innanzitutto a chi ne dovrebbe essere immagine e splendore (le modelle, appunto).
Il desiderio di diventare scheletriche è dettato dai modelli estetici femminili dominanti, sapientemente orchestrato per creare nuovi bisogni - e nuove consumatrici. Bisogna essere belle da morire.
Ora, una azienda che ha contribuito ad alimentare questa patologia si fa portatrice di una campagna “sociale”. Peccato che, se si sfoglia il catalogo di questa azienda, si noterà che i modelli proposti  sono indossati da modelle maestosamente sifilitiche. Ma non ancora morenti. Insomma, è evidente che è tutta una messinscena per sensibilizzare, sì. Ma il brand, il marchio, l’azienda. Toscani ha dichiarato: “C’è una bellezza nella tragedia. Il paradosso è che ci si sconvolge davanti all’immagine e non di fronte alla realtà. Io ho fatto, come sempre, un lavoro da reporter: ho testimoniato il mio tempo”. Il problema, caro Toscani,  non è l'immagine proposta, ma il suo presupposto, cioè far rendere economicamente di più un marchio commerciale. A persone come Toscani interessa poco del problema anoressia. Più che pensare a come rendere “positivi” i messaggi, le aziende dovrebbero cambiare completamente i prodotti. La merda resta merda, anche se d’autore.

Antonello Molella

 
Birmania libera (da tutti)! PDF Stampa E-mail

29 settembre 2007

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Birmania: questione di business. Da una parte c’è una dittatura di bolsi gerontocrati con le stellette, protetta dalla Cina capitalcomunista febbricitante per le Olimpiadi che la consacreranno definitivamente come superpotenza mondiale. Un regime in affari con l’India (per il gas, così prezioso per l’immane fabbisogno di New Delhi), con Israele che la rimpinza di armi, con multinazionali come la Unocal e la Total (per i gasdotti costruiti o in progettazione passando sulla pelle di etnie dissidenti come i Karen), con la Thailandia (fedele alleato degli Usa) per dighe e impianti idroelettrici. L’embargo americano deciso da Clinton nel 1997 e rinnovato da Bush nel 2003 è un ricatto a metà, più una spada di damocle che non una chiusura netta. Uno strumento di pressione che ha retto fino a oggi, quando la crisi economica ha fatto sollevare la popolazione, in testa dei pacifici bonzi buddisti.
Dall’altra c’è un popolo in rivolta per ragioni economica: il prezzo della benzina. I monaci, la gente per strada. La repressione miete vittime. Ma non come nel 1988, quando furono uccisi in piazza centinaia, forse migliaia di persone. E questo perché il padrone cinese ha impartito un ordine preciso ai suoi manutengoli birmani: non esagerare. E infatti sembra che adesso il governo di generaloni si avvii a una soluzione diplomatica del caos in cui versa il Paese.
Il terzo attore è l’Occidente con le sue brame di conquista economica. Ricchezze minerarie e posizione strategica. Un mercato ancora chiuso ai prodotti della globalizzazione trionfante. Di qui l’offensiva propagandistica che mira ad annettere la Birmania al totalitarismo del Ventunesimo Secolo, la falsa “democrazia” made in Washington. Gli ideologi dell’esportazione della democrazia sono tutti eccitati al pensiero di un Irak 2, col piacere doppio di non dover usare le armi e impelagarsi in un’altra guerra.
Mettersi il nastro rosso in solidarietà coi monaci ribelli? Giustificare il potere militare eterodiretto dal dragone cinese? Noi siamo per la libertà dei popoli di farsi la propria storia. Di rovesciare o di innalzare i regimi come gli pare. Di autodeterminarsi senza che nessuno imponga dall’esterno il destino altrui (magari con la pelosa propaganda mediatica manovrata dalle oligarchie occidentali, a cui i soliti pseudo-pacifisti a corrente alternata si accodano). Noi vorremmo una Birmania libera dai cinesi, dagli americani, da noi occidentali, da tutto e da tutti fuorché dai birmani, unici depositari del diritto alla sovranità e all’indipendenza.
Non strumentalizziamo quei monaci. Non intromettiamoci. Denunciamo invece gli interessi delle bande di rapinatori di professione, cioè le grandi aziende (cinesi, statunitensi, italiane o indiane non fa differenza) che vogliono trasformare una dittatura militare in una dittatura delle multinazionali. Vedrete che la cricca militare resterà al suo posto. Tutti i peana alla democrazia si diraderanno ben presto quando la cricca occidentale otterrà maggiore flessibilità nelle importazioni e nei contratti. Fra cricche ci si intende.
E così la Birmania finirà di nuovo nel dimenticatoio in cui era. Sbugiardando la facile e ipocrita indignazione di questi giorni.
Viva la Birmania libera (dalle multinazionali e dagli appetiti di ogni altro Paese)!

Alessio Mannino

 
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