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La favola del "capitalismo verde" PDF Stampa E-mail

27 novembre 2007

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Nel marzo 2007 un imprenditore inglese, Chris Goodall, consulente dell’Unione Europea e candidato al parlamento per il Green Party, ha pubblicato “How to Live a Low-carbon Life”: una sorta di guida pratica per contrastare individualmente, con piccole modifiche al nostro stile di vita, l’eccesso di produzione di anidride carbonica (CO2) che sta mettendo in crisi il sistema ecologico terrestre.
Buona parte del libro è dedicata, com’è facile immaginare, al tema dei trasporti. In particolare, riguardo l’uso dell’automobile come mezzo di spostamento, Goodall afferma che, se si possiede una vecchia auto inquinante, la sostituzione della stessa con un modello nuovo inquinerebbe molto di più di quanto inquinerebbe continuare ad utilizzare il vecchio pezzo, a causa dell'ingente quantità di emissioni di CO2 sprigionate dal processo produttivo. In altre parole, con macchine nuove ad emissioni ridotte i ricchi abitanti dei centri città respirano aria (forse) più pulita. Ma globalmente ci si rimette sempre. Perchè si trasloca il problema in qualche area del mondo in cui non ci si può permettere di sottilizzare su questioni ambientali, e perchè così si alimenta il processo del profitto. Insomma: ci guadagnano sempre i padroni del vapore, e ci perde sempre l'ambiente e la qualità della vita. Le conclusioni di Goodall ci dicono che gli eco-incentivi per acquistare nuove auto, sui quali si è fatta gran propaganda negli ultimi anni, sono sotto sotto una truffa. Il perchè è ovvio: la soluzione non può essere la produzione di oggetti che inquinino meno di altri; è la produzione di massa in sè, ad essere inquinante. Qualunque sia il prodotto.
Nel caso degli eco-incentivi quello che sta più a cuore a politici e aziende non è evidentemente l’ambiente. La parola chiave è "incentivo", non "eco". Incentivo vuol dire alimentazione del consumo di massa, che non può essere ecologico per definizione.
L'ecologia è diventata, nè più e nè meno di tanti altri "mercati", un business, un marchio da sfruttare economicamente. Al Gore, subito dopo il Nobel, ha avviato una collaborazione con una società di venture capital per lo sviluppo di tecnologie "pulite". Qualche giorno fa Sergio Romano, sul Corriere della Sera, si augurava che in Italia entrino in azione “uomini d'affari” che parlino di “economia di mercato verde”. Ma la logica capitalistica è di per sè anti-ecologica. Sarebbe bene metterselo bene in testa una volta per tutte.

Marco Matteazzi

 
'O Re PDF Stampa E-mail

27 novembre 2007

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Se al referendum Monarchia/Repubblica nel ’46 fosse andata diversamente, oggi governerebbero i Savoia: nobilotti dalle malghe savoiarde, più usi a praticare pecore che principesse, cooptati sul trono nel 1861 da una borghesia che aveva bisogno di un Re Travicello per fare i suoi affari, ed unire un’Italia che non aveva né voglia né bisogno di essere unita.
La dinastia sarebbe questa: il Re Fucilatore, la Regina dei Biscotti e il Principe dei Sottaceti. Il Re Fucilatore è l'attuale Vittorio Emanuele, celebre per la vicenda di Dirk Hammer, il tedesco colpito da un proiettile sparato dal suo yacht (suo di Vittorio Savoia) nel ’78. Nei vent’anni successivi, tramite traffici "legali" di armi, e amicizie "particolari" (Licio Gelli), il Savoia è divenuto uno degli uomini più ricchi d’Europa.
Intanto raccontava a tutti di quanto desiderasse rivedere l’Italia, e ne fosse impedito da un "antidemocratico" comma della Costituzione repubblicana. Con qualche scivolata: le sue demenziali dichiarazioni sulle leggi razziali firmate dal nonnino nel ’38, che “non erano poi così terribili”. Ma ‘o Re ne uscì ogni volta a testa alta, sostenuto da giornalisti e politici spesso complici, che nel 2002 gli hanno permesso di tornare in Italia. E nel ’91 è stato assolto di quel delitto. Dicono che la giustizia è cieca, ma io voglio anche sperare che porti vestiti senza tasche; di sicuro è stupida, perché l’anno scorso ‘o Re, chiacchierando con un amico, ha raccontato che “anche se avevo torto, devo dire che li ho fregati. Ero sicuro di vincere, più che sicuro”, ride dei giudici che l’hanno arrestato, “stronzi, coglioni, morti di fame senza un soldo, con la moglie a casa che gli fa le corna”. La conversazione, esemplare per il rispetto dimostrato verso le istituzioni dal neocittadino italiano, avviene in cella, dove ‘o Re è finito per l’ultima delle sue imprese "commerciali": tangenti, corruzione, slot machines truccate (che miseria: come un guappo di Forcella) e prostituzione.
Figa fresca per il re, insomma, e del resto bisogna capirlo. Gli anni passano (“Xe el mal de l’agnelo: cresse la pansa, cala l’oselo” si dice in veneto) e non è che la Regina dei Biscotti possa suscitargli eccessive fantasie: sembra la santa protettrice dei chirurghi plastici, e certo di soddisfazioni ne deve dare pochine...
Completa la regal famiglia il bel Filiberto. Qualcuno ha scritto che “nulla come la stupidità dà la misura dell’infinito”. Sbagliato: l’inutilità è ancor più abbacinante e, a parte appunto alcuni suoi ineffabili spot tv per cetriolini e cipolline, non si conoscono altri suoi significativi contributi all’economia dell’Universo. Perché allora occuparci di questa minutaglia da Novella 2000? Perché proprio in questi giorni, ‘o Re e il Principe dei Sottaceti hanno chiesto alla Repubblica Italiana il risarcimento per i danni morali e materiali subiti durante l’esilio. E io son d’accordo: "date a Cesare quel che è di Cesare", dice Gesù. Anzi, potremmo fare una partita di giro: noi paghiamo ai reali i nostri danni, e loro ci pagano quelli che la loro trista schiatta ha causato al Paese, i milioni di morti che hanno seminato, dal colonialismo cialtrone in Libia, al fascismo, allo sterminio degli ebrei italiani, alla Seconda Guerra Mondiale. Forse ci rimettono? Può darsi ma noi siamo i soliti "italiani brava gente", e chi mai avrà il coraggio togliere il pane di bocca a un vecchio re? E poi è anche Natale: alla fine saremo pari, e lo rimandiamo a casa con un pandoro e una bottiglia di spumante.

Giuliano Corà

 
Scuola-logo PDF Stampa E-mail

25 novembre 2007

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Ormai non ci stupiamo più di vedere la gigantografia di una marca di shampoo coprire la facciata di una cattedrale che abbisognava di fondi per il restauro, o tridimensionali spot semoventi circolare per le strade, autobus trasformati con la vernice in enormi pacchetti di gomme da masticare o in lattine di Coca Cola. Ci scandalizziamo ancora un po’, per fortuna, quando un nomade che guida ubriaco e uccide quattro ragazzi diventa testimonial di una marca di jeans creata su misura per lui.
Dovunque le sponsorizzazioni di eventi arrivano, presto pretendono di dettar legge e sovrapporsi all’evento che sponsorizzano. Così non abbiamo più un trofeo di calcio, ma un trofeo Birra Moretti. Non più un festival di musica rock ma un Heineken Jammin' Festival.
Il presentatore di uno show televisivo deve stare attento a ciò che dice, perché un riferimento a qualcosa che non piaccia allo sponsor può far perdere i finanziamenti e chiudere lo show.
Finora vi era un solo luogo rimasto inviolato dai tentativi di convincerci che il prodotto più schifoso sia il migliore perché reclamizzato da un testimonial di grido: la scuola.
In questo luogo “sacro” i pubblicitari non sono mai entrati con i loro cartelloni, ma, come ogni volta accade in Occidente, l’anticipazione del peggio che ci aspetta arriva dall’America.
Negli States si sono cominciate a vedere McDonalds scolastici al posto delle mense scolastiche, palestre reclamizzate più dello stadio della finale dei mondiali. Addirittura in una città canadese la Pepsi ha acquisito il diritto di dare la sua immagine a intere scuole: “Pepsi, la bevanda ufficiale della scuola media di Cayuga”, si legge in un megacartello. In Florida un istituto superiore ha siglato un contratto con cui si impegna a far di tutto per massimizzare le vendite della bibita tra gli studenti.
È nato recentemente un canale televisivo dedicato esclusivamente alla pubblicità in classe in cambio di finanziamenti. 12.000 scuole si obbligano a trasmettere alcuni minuti di spot interrompendo le lezioni, e gli studenti sono obbligati a seguire senza poter cambiar canale.
Il fondo è stato toccato quando le aziende, evidentemente non soddisfatte, hanno cominciato a metter le mani sui programmi scolastici, spingendo perché venissero studiati i loro marchi: lezioni su come si fabbrica una scarpa Nike, guide allo studio di Anastasia (recente film Disney), ricerche di mercato e test d’assaggio in aula... Hanno perfino cominciato a chiedere esplicitamente che i prodotti pubblicizzati vengano illustrati dagli insegnanti e che gli studenti realizzino slogan che l’azienda utilizzerà davvero nei suoi spot. Il tutto a spese dei contribuenti.
In Italia a questo non siamo ancora arrivati, ma non temete: il blocco di potere imprenditorial-economico sta già cominciando ad allungare le mani sull’istruzione.
Confindustria ha organizzato un seminario, “Orientainsegnanti” (da quando tocca alle imprese orientare gli insegnanti??). Diego Della Valle ha forse creduto di essere il novello Stainer o la rediviva Montessori, proponendo una scuola ove la funzione educativa non sia più esercitata dai soli docenti ma sia condivisa con gli imprenditori.
“Sempre più ragazzi scelgono studi umanistici piuttosto che quelli scientifici, ciò contrasta con la necessità delle imprese reggiane di assumere personale tecnico qualificato”, vi era scritto in una pagina di un giornale di Reggio Emilia qualche giorno fa da parte di un associazione d’imprese. Il giovane viene fatto sentire in colpa perchè la sua scelta non è benvista dalle aziende, si cerca di creare l’ambiente per cui un ragazzo non scelga la scuola in base ai suoi interessi e progetti futuri, ma in base a quello che vogliono le imprese, e chi se ne frega delle sue aspirazioni.
Mister Tod’s definisce la scuola un'azienda fatta per costruire cose, e dipende anche dagli imprenditori quali saranno queste cose. E chiede che le porte dell’istruzione gli siano aperte un po’ di più.
Insomma, questi cercano di entrare nelle aule, di far credere di essere dei validi partner didattici, si assumono il compito di plasmare i ragazzi: filantropismo? No, profitto.
Facile immaginare quale sarebbe il seguito, oltre a creare futuri dipendenti, cercherebbero di creare futuri consumatori, e cominceremo a vedere ciò che si vede in America.

Alessandro Marmiroli

 
La stoccata di De Benedetti PDF Stampa E-mail

23 novembre 2007

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Aria di scandalo, e lo scandalo non c’è. La Repubblica, organo della tessera n°1 del Partito Democratico, ovvero il finanziere Carlo De Benedetti, “scopre” che in tutti questi anni direttori di testate giornalistiche e dirigenti di Rai e Mediaset si telefonavano per concordare peso e toni delle notizie a tutto vantaggio dell’ex premier Silvio Berlusconi (che, tanto per dire, aveva messo come responsabile marketing strategico Deborah Bergamini, già sua assistente personale). Un sistema Moggi del piccolo schermo.
Caro Ezio Mauro successore del fondatore Scalfari, complimenti: hai scoperto l’acqua calda. E c’è ben poco da indignarsi: da quand’è che i magnati del profitto se ne fregano allegramente dei conflitti d’interessi pur di perseguire i propri, piazzando a destra e a manca persone di propria fiducia? Da sempre, ci risulta.
E complimentoni anche per il garantismo double-face: quando le intercettazioni riguardavano il trio diesse D’Alema-Fassino-La Torre, il quotidiano del Pd reclamava limiti e appoggiava il Ministro della Censura Clemente Mastella, che con una legge (ancora non approvata, per fortuna) vorrebbe vietarne la pubblicazione sui giornali. Oggi invece sono uno scoop, un’inchiesta, uno smascheramento salutare per la democrazia. Se fosse già passata, la legge-bavaglio, i repubblichini di Repubblica non avrebbero potuto scrivere una riga.
Ma dietro lo “scoop” c’è dell’altro. Pare che il padrone De Benedetti voglia conquistarsi un ruolo nel frenetico risiko bancario italiano. Il tripolarismo finanziario (Unicredit-Capitalia, Intesa San Paolo-Imi, Monte Paschi-Antonveneta) lo vede fuori dalla porta. Così Carlo cerca di avvicinarsi al cardinale degli sportelli, il prodiano di ferro Giovanni Bazoli (Intesa). E lo fa lanciando una dolorosa stoccata ai disegni di inciucio di Veltroni, i cui interessi, attualmente, sono oggettivamente convergenti con quelli di Berlusconi e in rotta di collisione con quelli di Prodi (tanto è vero che il Berlusca gli ha proposto un accordo per la legge elettorale e magari per un governo insieme da fare subito, scalzando Romano da Palazzo Chigi). De Benedetti appoggia quest’ultimo contro Veltroni per proprio tornaconto: tutto qui. Così come, appena due anni fa, pareva andare d’amore e d’accordo con Silvio, fino a voler metter su un fondo finanziario in accoppiata.
Le strade della finanza sono infinite. Ma passano sempre per la stampa controllata.

Alessio Mannino

 
Contro la televisione PDF Stampa E-mail

23 novembre 2007

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Televisione, nuovo Minculpop: principale mezzo per metterlo in quel posto al popolo facendolo distrarre. Televisione, oppio del popolo: mentre sei lì davanti, non vivi. La vita vera è là fuori. Televisione, imbonitrice massima del modello “guarda, compra, consuma (e crepa)”: senza di lei, senza l'onnipresente pubblicità, l’intero sistema produzione-consumo crollerebbe in pochi giorni.
Preparatevi: l’anno prossimo Movimento Zero colpirà mamma tivù. Per conquistare l’indipendenza e la libertà bisogna staccarsi dalla tetta, no?
Abbasso la televisione, abbasso la televisione, abbasso la televisione!

Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana.
Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè come dicevo i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.  L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che «omologava» gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale «omologatore» che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo.  Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?  No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i «figli di papà», i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi sottoproletari umiliati cancellano nella loro carta d’identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di «studente». Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo borghese, che essi hanno sùbito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo borghese, nell’adeguarsi al modello «televisivo» che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio «uomo» che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.  La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto «mezzo tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. E il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collo-care. E attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.  Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre...
Pier Paolo Pasolini, Corriere  della sera, 9 dicembre 1973

 
Un dibattito, un grande interrogativo PDF Stampa E-mail

22 novembre 2007

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“Il Colonialismo classico depredava le ricchezze dei colonizzati, ma, pur imponendo le proprie leggi, rimaneva sostanzialmente estraneo alla loro cultura. Il Neocolonialismo – quello della globalizzazione – ha invece dichiarato guerra totale al mondo non occidentalizzato: ogni spazio va conquistato, ogni mente sottomessa, ogni cultura omologata. Quale posizione assumere, di fronte a questa situazione?”. Su questo concetto – che è più un dato di fatto che un’opinione – il Gruppo di Vicenza di Movimento Zero ha organizzato, venerdì 9 novembre scorso, un incontro pubblico a cui erano stati chiamati come relatori Padre Nicola Colasuonno dei Missionari Saveriani di Brescia e Francesca Casella, responsabile italiana di Survival (vedi link a lato). Intitolandolo, non a caso, “Occidentali go home?”.
Nei relatori invitati avevamo visto il contrapporsi di due posizioni che ci sembrano simboliche di quello che è oggi l’atteggiamento di buona parte dell’Occidente nei confronti del cosiddetto Terzo Mondo (intendendo con questo termine non solo le popolazioni “non sviluppate”, ma anche -  e questo è il campo d’azione specifico di Survival - quei popoli che rifiutano l’apporto della civiltà occidentale, preferendo mantenere stili di vita e culture ancestrali).
Nei loro confronti, la posizione e l’agire di Survival sono chiari. Non “difesa” di questi popoli dall’Occidente: come ha detto Casella in un suo intervento, “difenderli” da qualcosa, fosse anche ciò che noi identifichiamo come male, significa ancora una volta decidere per loro e al loro posto; quanto difesa, questo sì, del loro diritto di scegliere liberamente ed autonomamente la strada da seguire, anche qualora contemplasse l’acquisizione di elementi della cultura “bianca”. Così, per esempio, Casella ha raccontato di come siano stati fallimentari interventi occidentali che, sia pur attuati in perfetta buona fede, non avevano tenuto conto dell’adattamento all’ambiente e dello stile culturale delle popolazioni locali, ma anche di come molte culture indigene usino correntemente il computer per parlare di sé, per mantenere i contatti con culture diverse ed anche per combattere la loro battaglia in difesa della propria “diversità”. Secondo Survival, insomma, bisogna guardarsi dal riproporre una versione aggiornata, ma non meno pericolosa, del mito del buon selvaggio – figlio, del resto, proprio di quel razionalismo illuminista che teorizzò ad attuò la conquista e la “civilizzazione” dei popoli non europei.
Più “familiare” è apparsa la posizione dei Saveriani. Lontana e più moderna del missionariato classico, essa tuttavia ammette che un intervento sia possibile, in quelle realtà più critiche e degradate, magari proprio per effetto di politiche occidentali sconsiderate e di rapina. Rispettosi anch’essi della diversità culturale e perfino religiosa delle popolazioni indigene – Padre Colasuonno ha detto che la conversione non è più affatto un obiettivo primario, e che invece si guarda alle differenti espressioni religiose come a manifestazioni comunque della presenza divina – i Saveriani sembrano proporre un tipo di intervento che quasi ricorda, paradossalmente, un insegnamento maoista celebre negli anni Sessanta: non portare il pesce a chi ha fame, quanto piuttosto insegnargli a pescare.
Atteggiamenti, dunque, entrambi discutibili e proprio per questo interessanti. Che però si sono scontrati con un terzo punto di vista emerso dal pubblico. Attenzione, hanno detto infatti alcuni dei presenti - riferendosi soprattutto alla posizione di Survival - a non cadere nell’errore di considerare il Progresso come neutro, e le sue conquiste e i suoi prodotti come optionals che possono essere accettati o rifiutati senza danno e senza conseguenze. In realtà, il Progresso sarebbe comunque politico, sempre promosso da interessi economici di grandi aziende occidentali che mirano solo a impadronirsi di nuovi mercati installandovi il bisogno di consumare i nostri prodotti, ed in ogni caso veicola contenuti culturali diversi ed estranei rispetto alle culture locali. Difendere questi popoli dalla “infezione” occidentale non significa dunque praticare una specie di neocolonialismo antimodernista, ma salvaguardare una diversità culturale che è patrimonio dell’umanità intera (e sua futura e possibile risorsa e via di salvezza, ha aggiunto in un altro momento Casella, in questo d’accordo con le posizioni dei suoi obiettori).
Come si vede, un dibattito intenso e ricco di stimoli e suggerimenti.

Giuliano Corà

 
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