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Pensare l'impensabile PDF Stampa E-mail

5 Marzo 2024

 Da Comedonchisciotte dell’1-3-2024 (N.d.d.)

Siamo nel 1788, è estate, due contadini stanno zappando in un campo nella campagna francese. Sulla strada che corre vicino al campo, spunta dalla polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli una bella carrozza, che si ferma poco lontano da loro. Da essa scende un signorotto, di buone maniere e ben vestito che li chiama a sé. I due si avvicinano con fare riverente, come si deve a chi è di ceto superiore, inchinandosi e scappellandosi. Il signore a quel punto chiede loro: “ma sapete voi che a partire dall’anno prossimo e per i secoli a venire, voi sarete liberi, io e voi saremo uguali, noi avremo gli stessi diritti e gli stessi doveri e potremo chiamarci tra noi, fratelli?” I due lo guardano con fare dubbioso, chiedendosi, ma senza esprimerlo, che sorta di trucco possa essere quello del signore. “Come Voi più gradite mio signore“, risponde uno dei due inchinandosi con una riverenza. Il giovin signore gira loro le spalle e senza dire altro risale in carrozza e si allontana. I due tornano a lavorare, come sempre hanno fatto nella loro vita e così i loro avi, per generazioni, hanno fatto da sempre. Ma una volta che il signore è giunto a distanza di sicurezza, scoppiano in una risata fragorosa: “sono pazzi questi ricchi, anzi più sono ricchi e più sono pazzi!! l’avesse sentita mio nonno una baggianata simile!!” Nel 1789 scoppia la Rivoluzione Francese, il Re più Re di tutti, Luigi XVI viene decapitato, la monarchia crolla, “Liberté Fraternité, Égalité” è il nuovo motto della Nazione. Di lì a venti anni lo sarà di tutta l’Europa.

Questa immaginifica scenetta non si è mai, chiaramente, verificata ma serve a introdurre il tema di questo articolo con una domanda: quanto siamo disposti a “pensare l’impensabile“? L’epoca in cui viviamo ci sta abituando a continui cambiamenti, in particolare in termini tecnologici. Dopo un’iniziale inerzia all’inizio del millennio, internet si è diffusa in tutto il mondo, trasformandolo, creando le basi di successive evoluzioni tecnologiche sempre più profonde. Interi settori economici sono stati sconvolti dall’avvento del World Wide Web prima e dagli smartphone poi: l’industria del turismo, con la quasi sparizione delle agenzie di viaggio grazie ai siti per il turismo “fai da te”, il mondo della comunicazione, con le agenzie di stampa sostituite da Twitter, l’industria bancaria, con il trading online e la possibilità del remote banking che ha decimato gli sportelli fisici. E cosa dire del commercio tradizionale, minacciato prima e surclassato poi da quello elettronico, tanto che la sua azienda più nota, Amazon, ne è oggi un sinonimo e ha fatto del suo proprietario uno degli uomini più ricchi al mondo in meno di dieci anni? Oggi pensiamo ad ogni nuova evoluzione tecnologica (l’Intelligenza artificiale, su tutte), come qualcosa di ineluttabile, grazie anche all’enorme pressione mediatica che accompagna ogni novità. Cosa dire però della politica internazionale? Abbiamo la stessa capacità di accettare che qualcosa possa cambiare in maniera sconvolgente rispetto agli equilibri esistenti? In particolare parliamo dei BRICS e della possibilità che non solo aumentino di numero ma che in un futuro non troppo lontano possano emettere una loro moneta, alternativa al Dollaro e all’Euro, minacciando lo status internazionale di queste valute e con esso quello di USA ed Europa, leader mondiali da secoli. Il dominio occidentale sul mondo ha il suo inizio con le scoperte geografiche avvenute dal XV secolo in poi, scoperte che si sono tramutate in dominio prima e colonizzazione poi. Da quel momento gli europei sono usciti dalla loro area geografica originaria e si sono stanziati in altre aree del mondo (senza considerare qui le modalità con cui ciò è avvenuto), gettando le basi per la seguente affermazione come cultura dominante del mondo.

In un incontro tra Xi Jinping e Putin di qualche mese fa, il primo pare abbia ripetuto una frase, secondo la quale “ci sono decenni in cui non accade nulla: e ci sono settimane in cui accadono decenni”. Subito derubricata a mera propaganda, la frase lascia però intuire come i due leader abbiano rotto gli argini e si stiano liberando dalla briglia che la superpotenza globale americana, e la pluricentenaria espansione europea, avevano imposto loro nell’ultimo mezzo secolo (nel caso della Cina per quasi un secolo, ma altrettanto per la Russia se consideriamo il Marxismo un “prodotto” della cultura europea). Il termine BRICS è ormai vecchio di 20 anni, coniato da un economista di Goldman Sachs per usarlo in un “paper” sulla crescita di quelli che sino ad allora erano “paesi in via di sviluppo“. Negli anni è salito alla ribalta ed oggi se ne parla come di un possibile blocco alternativo a quello occidentale, in competizione con esso e con la possibilità di divenire il principale attore mondiale in termini politici ed economici. Il meeting di Johannesburg del gruppo dello scorso Agosto è stato preceduto dalle voci circa l’imminenza della nascita di una “moneta dei BRICS“, la cui realizzazione è oggettivamente difficile se la si intende simile all’euro, ovvero creata eliminando le monete nazionali, forse un po’ meno se invece la si creasse per affiancare le monete dei singoli paesi. Le analisi apparse sui principali quotidiani occidentali, economici e non, tendono a sminuire la possibilità che questa operazione riesca o che addirittura il blocco BRICS possa arrivare a vedere la luce come un’entità reale (e non solo come alleanza temporanea in ottica revisionista rispetto al modello occidentale). Ciononostante, durante l’incontro in Sudafrica, il gruppo ha proposto un suo futuro allargamento invitando altre sei Nazioni: Egitto, Argentina, Arabia Saudita, Iran, Etiopia e Emirati Arabi Uniti, a partire dal 1 Gennaio 2024, nell’anno in cui a presiedere il gruppo è la Russia.

Tralasciando gli aspetti sopra descritti, soffermiamoci invece sulle implicazioni più ampie, primariamente di ordine culturale, che la riuscita di questo progetto porterebbe con sé. In quanto europei o loro discendenti (tale è la maggioranza degli abitanti di USA, Canada e Australia), siamo portati a pensare il mondo nei termini dell’Occidente Cristiano e ciò si manifesta in parecchi aspetti che diamo per scontati e fanno parte del nostro “senso comune“: le mappe geografiche a cui siamo abituati vedono sempre l’Europa o gli USA al centro, gli abiti utilizzati dai diplomatici e quelli che consideriamo eleganti (giacca e cravatta, per intenderci) sono derivati dalla sartoria inglese, la religione che consideriamo universale è il cristianesimo, i canoni di bellezza maschile e femminile derivano dall’immaginario greco classico e romano in prima istanza e dalle rappresentazioni nei quadri degli autori occidentali. Potremmo continuare dicendo che anche l’alfabeto che utilizziamo è prettamente occidentale (Latino, per essere precisi), la Storia e la sua interpretazione (così come la revisione storiografica) considerano l’Occidente come il suo motore, l’urbanistica e l’architettura che consideriamo bella e funzionale, i rapporti familiari (monogamici, più o meno patriarcali e patrilineari), la concezione del ruolo femminile nella società e quello della sessualità, la relazione con il passato ed i propri antenati o l’idea progressiva della Storia. Potremmo continuare ad elencare queste “banalità” per pagine e pagine, dandole per oggettive, ma così non è nel profondo delle culture che appartengono al “rest” (opposto al west, per Huntington), al mondo non occidentale.

L’occidente ha creato la maggior parte del senso che il mondo considera (o che noi pensiamo debba essere) comune e la sua “egemonia culturale” (per dirla con Gramsci) lo mantiene in voga: le istituzioni che lo regolano (l’ONU e le sue agenzie, il FMI, la Banca Mondiale, la Corte Penale Internazionale, tra le altre), il sistema finanziario, i diritti umani che attualmente consideriamo “universali”, l’industria dei Media. Un mondo governato da una maggioranza politica ed economica (e per estensione, militare) non occidentale non avrebbe le stesse caratteristiche e la condizione degli occidentali potrebbe tramutarsi, in un secolo o forse anche meno, radicalmente. Un mondo in cui la concezione induista o musulmana della società, dei rapporti tra i suoi componenti, del concetto religioso e dell’escatologia, della sessualità, della Storia o della finanza, sarebbe un mondo a noi sconosciuto che ci trasformerebbe concettualmente (se non praticamente) da oppressori ed egemoni ad oppressi e marginalizzati. Lo stesso senso religioso, attualmente fondato sul monoteismo di stampo giudeo-cristiano-musulmano, potrebbe dover essere rivisto, alla luce della presenza di paesi politeisti (come l’India), atei e materialisti (come la Cina) o eventualmente buddisti (come una buona parte dei paesi asiatici).

Facciamo alcuni esempi: l’India, sebbene venga definita la più grande democrazia del mondo, ha introdotto questo sistema di governo solo dopo la fine della colonizzazione inglese, ma il suo sostrato culturale è ancora dominato dal sistema delle caste che di democratico non ha nulla. Nel pensiero etico musulmano (ovvero conforme alla Sharia) il prestito ad interesse non è contemplato e gli investimenti devono essere socialmente responsabili , prevedere la compartecipazione al rischio ed essere Halal (ovvero leciti, quindi non interessare pratiche contrarie alla morale islamica come pornografia, droghe, alcool, armi e così via). Nella cultura tradizionale cinese, invero spazzata via dalla rivoluzione culturale di Mao, ma che rimane forte nella pratica del popolo non urbanizzato ( ma Pechino sta cercando di reintrodurre gradualmente il confucianesimo), il rispetto per gli anziani e gli antenati è molto sentito, così come la riprovazione sociale per chi non si sposa e non ha figli. Il senso comunitario russo è ancora forte nella cultura popolare, così come il senso di appartenenza alla patria. Il tribalismo resta una componente fondamentale nelle società africane, diverse delle quali hanno strutture sociali matrilineari e matriarcali.

Non è oggetto di questo articolo elencare in dettaglio le differenze culturali, sociali, religiose e semiologiche tra l’occidente e il resto del mondo e come conciliarle tra loro. Il punto è sottolineare come si potrebbe arrivare, un giorno, a dover “pensare l’impensabile” almeno secondo tre accezioni: immaginare qualcosa che non avevamo neanche immaginato che sarebbe potuto succedere (non tanto perché incapaci di pensarlo, quanto per negazione della possibilità stessa di poterlo pensare), abbandonare l’idea di essere il “primo mondo”, con tutto ciò che questo status comporta e rapportarsi pariteticamente con altre culture e civilizzazioni. Adottare concetti, pensieri, astrazioni e simboli che non sono propri della nostra cultura di base e quindi doverli includere nel “nostro” modo di pensare. La prima eventualità potrebbe presentarsi con l’affermazione di un gruppo BRICS++,ovvero non più di soli 5 paesi ma di 30 o più, nell’arco di un decennio o addirittura prima. La seconda ne sarebbe la conseguenza, che sia essa di relegarci al ruolo di “primus inter pares“, di “pari grado” o addirittura “sottomessi“. La terza potrebbe essere la scelta obbligata in un mondo non più plasmato a nostra immagine e somiglianza.

Che si auspichi tutto ciò o lo si tema vale la pena di iniziare ad abituare la mente a “pensare l’impensabile”, iniziando ad ascoltare chi questo “impensabile” lo sta già descrivendo, in barba alla definizione stigmatizzante che si vede affibbiare, sia essa quella di “complottista“, “visionario“, “anti-occidentale” o semplicemente “pazzo“. In definitiva, “Stay foolish” non vale solo per inventare un nuovo tipo di telefono.

 Fabrizio Bertolami 

 
Brodo per bolle PDF Stampa E-mail

2 Marzo 2024

 Da Rassegna di Arianna del 28-2-2024 (N.d.d.)

Gli Stati Uniti d'America o più esattamente l'impero del Dollaro di cui essi sono la piattaforma tecnologico militare, in quanto impero con forti costi di gestione, hanno bisogno di continuamente espandere il loro dominio, cioè l'area in cui e da cui possono finanziarsi imponendo il loro signoraggio monetario internazionale, ossia l'accettazione del dollaro e dei T.bonds, che essi generano a costo zero. La storia del dopoguerra è la storia dell’imposizione, dell’espansione, della difesa e dello sfruttamento del signoraggio del dollaro. Per questa ragione, l’impero del Dollaro si è espanso in vari modi e ambiti, in particolare attraverso la NATO, dapprima facilitando la disgregazione dell’URSS, indi avanzando in territorio europeo verso Est, annettendo molti stati, fino a premere direttamente sulla Russia e la Bielorussia piazzando i suoi missili a ridosso dei loro confini e accerchiandole anche da sud attraverso l'Afghanistan e gli stati dell'Asia centrale, dove va collocando le sue basi militari. L'invasione dell'Ucraina è stata una operazione di arresto di questa espansione, che tendeva dapprima a piegare la Federazione Russa, poi a frammentarla per ricavarne repubbliche piccole e facilmente dominabili col metterle l'una contro l'altra, al fine di sfruttare le loro risorse naturali. Già questo è stato fatto con l'Ucraina e attraverso anche l'emissione di bonds sullo sfruttamento delle sue terre agricole e delle sue aree minerarie nel Donbass, nonché sulla sua futuribile ricostruzione – perché nell’impero del Dollaro l’economia finanziarizzata va avanti creando bolle dopo bolle, che vanno alimentate mediante una continua e massiccia creazione monetaria da offrire alle banche di investimento (Quantitative Easing etc.), e ciò necessita il mantener viva la domanda di credito con qualsiasi mezzo.

La seconda necessità strutturale dell'impero del Dollaro è prevenire una integrazione economica, se non anche politica o strategica, tra l'industria e la tecnologia europee e le risorse minerarie e scientifiche della Russia, integrazione che porterebbe a un blocco continentale dominante nel mondo e sul mondo. E in questo i suoi strateghi sono stati abilissimi. Mediante il conflitto suscitato tra Ucraina e Russia (suscitato fomentando il regime change a Kiev, la persecuzione delle minoranze russe e proibendo prima il rispetto degli accordi di Minsk, indi la firma di quelli di Istanbul) e il coinvolgimento dell’Europa nell’attuale guerra accompagnato dalle massicce sanzioni economiche, ci sono riusciti alla grande. Non solo: costringendo l'Europa ad approvvigionarsi di gas non più dalla Russia a basso costo ma dagli Stati Uniti e da altre fonti ad altissimo costo, hanno fatto salire i costi di produzione in Europa rispetto ai loro, onde ora molti capitali, molte aziende e molti ‘cervelli’ stanno trasferendosi dall'Europa agli Stati Uniti, i quali in tal modo risolvono il problema della reindustrializzazione americana a spese della serva Europa. La condizione di vassallaggio dell'Europa verso gli USA si manifesta in come l'Europa e i suoi governanti entusiasticamente e zelantemente assecondano tale operazione che lascia l'Europa unica zona al mondo a pagare l'energia moltissimo e quindi condannata a un declino economico, alla perdita di quota di mercato internazionale e, in prospettiva, a subire il take over di capitali esterni.

 Ora però che la prospettiva di una pronta e tranquilla fruizione economico-finanziaria della neo-annessa Ucraina e del Donbass è sfumata, dato il fallimento della controffensiva di Zelensky, per mantenere viva la creazione di nuova ricchezza finanziaria attraverso l'emissione di nuove covate di bonds, si è dovuto trovare un rimpiazzo, un investimento alternativo – sempre a nostre spese. Così, attraverso la NATO, è stata comandata la preparazione generale dell'Occidente alla guerra con la Russia e magari anche con la Cina e con l'Iran, con tutti i necessari, titanici investimenti, per la gioia dell’industria degli armamenti americana, la quale rimuove il banale timore che tale preparazione aumenti il rischio di uno scontro nucleare. Tutto fa brodo per le bolle, anche i funghi atomici! Però il Cremlino e tutti i Russi hanno visto quali sono e dove sono i centri di potere responsabili delle prefate scelte, quindi sanno dove è giusto puntare i loro missili, per il worst case scenario. Amen.

Marco Della Luna

 
Una nuova cortina di ferro PDF Stampa E-mail

1 Marzo 2024

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 Da Comedonchisciotte del 29-2-2024 (N.d.d.)

Mentre si chiude il secondo anno di guerra in Ucraina, l’apparente stallo che caratterizza questo sfibrante conflitto di logoramento nasconde cambiamenti decisivi sul campo di battaglia e nel panorama internazionale. Mosca ha riorganizzato le proprie forze, mobilitato nuovi uomini e mezzi, e preme su diversi punti del fronte. Dopo un estenuante assedio, la cittadina di Avdeevka, nell’oblast di Donetsk, è caduta in mani russe. Gli ucraini, fiaccati dalla carenza di soldati e munizioni, sono ormai nettamente sulla difensiva. Nel frattempo, il fardello del sostegno economico e militare all’Ucraina è passato dagli Stati Uniti all’Europa. Tra aiuti finanziari e fornitura di armi, il contributo europeo è ormai il doppio di quello americano. Complessivamente, però, l’appoggio occidentale mostra evidenti crepe. Chiare divisioni sono emerse nell’establishment statunitense, ma anche fra i diversi stati europei, e nel governo di Kiev. Dopo mesi, il Congresso USA non ha ancora approvato il promesso pacchetto di 60 miliardi di dollari in aiuti militari. E in ogni caso l’industria occidentale della difesa non è in grado di tenere il passo con l’intensità dello scontro bellico in Ucraina. Da Washington giungono chiaramente pressioni, dirette e indirette, verso l’Europa affinché si assuma responsabilità ancora maggiori nella guerra, dando ossigeno finanziario a Kiev e aumentando le spese militari. La zavorra del conflitto, e della riconfigurazione degli scambi commerciali e delle fonti di approvvigionamento energetico, dovuta alla rottura dei rapporti con Mosca, ha tuttavia inciso pesantemente sulle economie europee, in evidente difficoltà. Ma negli ambienti transatlantici regna tuttora la convinzione che lo scontro con Mosca possa e debba essere vinto. Alcuni considerano il 2024 come un anno interlocutorio, in vista di una nuova controffensiva ucraina l’anno successivo. Soprattutto oltreoceano, domina la persuasione che si possa ancora rovesciare il tavolo, che le sanzioni prima o poi avranno effetto sull’economia russa, che Mosca cederà se l’Occidente mobiliterà le risorse necessarie.

Né Washington né Kiev sono intenzionate ad aprire un negoziato che comporterebbe concessioni dolorose. I paesi europei, uniformatisi a questa linea politica, dal canto loro continuano a consolidare la nuova cortina di ferro destinata a mantenere il continente diviso, dal Mar Nero al Baltico, fino alla regione artica. L’Europa si avvia così ad essere, per molti anni a venire, un nuovo teatro dello scontro per la ridefinizione degli equilibri mondiali, a detrimento di una prosperità europea che appare sempre più un ricordo del passato. Assieme ad essa, ad andare perduto è anche il bene inestimabile della pace continentale. La Conferenza di Monaco sulla Sicurezza (Munich Security Conference), che si è conclusa domenica scorsa in Germania, ha offerto uno sconfortante compendio della scena attuale. Svoltasi all’insegna dell’allarmismo e della drammatizzazione, essa è stata una caricaturale quanto inquietante chiamata europea alle armi contro la Russia. La rovinosa ritirata ucraina da Avdeevka, i timori europei suscitati dall’ennesima dichiarazione di Trump contro la NATO, l’allarmante  quanto probabilmente infondata “soffiata” dell’intelligence americana sull’imminente lancio in orbita di un’arma nucleare antisatellite da parte della Russia, l’improvvisa quanto misteriosa morte in carcere di Alexei Navalny, oppositore russo osannato in Occidente ma poco amato in patria, hanno fatto da sfondo alla conferenza. Il preludio dell’evento è stato invece caratterizzato dalle sinistre previsioni di diversi leader politici e militari europei su uno scontro armato con la Russia nei prossimi anni che, a loro dire, sarebbe quasi inevitabile. Il ministro della difesa danese, Troels Lund Poulsen, ha affermato che la Russia potrebbe mettere alla prova l’articolo 5 della NATO entro 3-5 anni. La presidente della Commissione difesa del Bundestag tedesco, Marie-Agnes Strack-Zimmermann, ha parlato di un probabile attacco russo a un paese NATO fra 5-8 anni. A gennaio, il capo di stato maggiore dell’esercito svedese aveva dichiarato che la popolazione avrebbe dovuto prepararsi a un’eventuale guerra. Gli aveva fatto eco il comandante dell’esercito britannico, il quale aveva ammonito i cittadini ad essere pronti a una guerra paragonabile ai grandi conflitti del XX secolo. Dal canto suo, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha detto che l’Occidente deve prepararsi a uno scontro con la Russia “che potrebbe durare decenni”. A Monaco, il ministro della difesa tedesco Boris Pistorius ha ripetuto lo stesso mantra: “Non so predire se e quando avverrà un attacco al territorio NATO, ma potrebbe accadere fra 5-8 anni”.

La frustrazione dei leader europei sarà verosimilmente profonda di fronte alla constatazione di quello che probabilmente essi considerano lo stato di “incoscienza” in cui vivono i loro popoli, delle cui aspirazioni peraltro tali leader non si curano affatto. Secondo il rapporto della conferenza, la Russia figura solo al 7° posto tra le principali preoccupazioni dei tedeschi, e addirittura al 12° fra quelle degli italiani. Allora, per spiegare l’allarmismo dei politici occidentali, il noto politologo statunitense John Mearsheimer ricorre al concetto di “inflazione della minaccia”: ingigantire il “pericolo russo” è necessario per serrare i ranghi dello sfilacciato fronte atlantico a sostegno dell’Ucraina, ma anche per mobilitare popolazioni svogliate.

Ecco allora decifrate le affermazioni di Stoltenberg secondo cui “se Putin vince in Ucraina, non vi è garanzia che l’aggressione russa non si estenda ad altri paesi”. Sotto questo profilo, il clima era certamente più ottimistico alla Conferenza di Monaco dello scorso anno, allorché diplomatici, strateghi e analisti dell’intelligence (davvero poco lungimiranti) ritenevano che Mosca si stesse avviando verso una cocente sconfitta in Ucraina, e contavano i mesi che separavano Kiev dalla riconquista di tutti i suoi territori. Ma l’attuale allarmismo è anche imprescindibile se deve concretizzarsi l’obiettivo americano di consolidare un’artificiale cortina di ferro nel cuore dell’Europa, che mantenga il continente diviso nei decenni a venire.

Per comprendere il progetto statunitense, è sufficiente leggere Graham Allison, decano dei politologi USA, professore ad Harvard, grande esperto di Russia e Cina. In un articolo eloquentemente intitolato “Ciò che gli americani devono all’Ucraina”, egli scrive: Immaginate che due anni fa – prima che Putin invadesse l’Ucraina – qualcuno fosse venuto negli Stati Uniti con una proposta credibile per impantanare la minaccia militare russa all’Europa per il decennio a venire, senza perdere un solo soldato statunitense. Quanto sarebbero stati disposti a investire in quell’iniziativa gli americani? Allison prosegue esponendo in dettaglio i vantaggi che l’ipotetica “proposta” avrebbe offerto agli USA:

– Risvegliare i nostri partner europei della NATO alla realtà di combattimenti sanguinosi e su vasta scala nel XXI secolo, motivandoli a investire centinaia di miliardi di dollari nella produzione delle loro capacità di difesa. – Convincere due delle nazioni europee militarmente più capaci – Finlandia e Svezia – ad aderire alla NATO aumentando quindi significativamente la forza deterrente dell’Alleanza. – Infliggere a Putin un’imponente sconfitta strategica, sventando in modo decisivo il suo tentativo di prendere Kiev e sostanzialmente di cancellare l’Ucraina dalle mappe. – Persuadere […] l’economia più importante d’Europa – la Germania – ad eliminare la sua dipendenza dall’energia a basso costo della Russia, e a cominciare a creare una propria forza militare. – Rivitalizzare l’alleanza transatlantica con una campagna coordinata e protratta per sconfiggere l’aggressione russa, armando e finanziando l’Ucraina e indebolendo la Russia attraverso l’imposizione del sistema di sanzioni economiche più completo della storia.

Allison conclude dicendo che “se ci avessero fatto una proposta del genere, ci sarebbe sembrata incredibile e l’avremmo probabilmente respinta perché troppo bella per essere vera”. Ma – chiude il politologo americano – “grazie al notevole coraggio e alla determinazione” degli ucraini, essa si è tradotta in realtà.

Il progetto esposto da Allison è abbastanza cristallino, e non necessita di particolari chiarimenti, al di là di un paio di precisazioni. Se le finalità del progetto sono evidenti – mobilitare gli alleati europei contro la Russia, risvegliandoli “alla realtà di combattimenti sanguinosi e su vasta scala”, come dice Allison, allo scopo di fare del continente l’immensa retrovia di un conflitto combattuto sulla terra e sulla pelle degli ucraini – la narrazione su cui esso poggia è tuttavia imperniata su un punto debole: l’ossessiva reiterazione di una menzogna, quella della cosiddetta “aggressione non provocata” da parte della Russia. Tale reiterazione è necessaria per mantenere in piedi la finzione secondo cui il conflitto non sarebbe stato causato dall’espansione della NATO, né dal golpe di Maidan del 2014, condotto con la complicità americana, né dal rifiuto di implementare gli accordi di Minsk. Bensì, esso è il risultato del revanscismo del presidente russo Putin, il cui obiettivo – come dice Strobe Talbott, ex vicesegretario di Stato e presidente della Brookings Institution – sarebbe quello di ricreare “l’impero russo con lui come zar”. Per consolidare la nuova cortina di ferro e scongiurare qualsiasi spiraglio negoziale, è poi necessario reiterare un’altra menzogna, quella secondo cui, quando Putin decise di invadere l’Ucraina, intendeva conquistarla interamente e cancellarla dalle mappe, come ha scritto Allison, o “annientarla”, come ha ripetuto più volte il presidente americano Joe Biden. Tale falsità è stata smascherata da diversi esperti militari, i quali hanno puntualizzato che la Russia non intendeva conquistare l’intera Ucraina, per il semplice fatto che non l’aveva invasa con forze sufficienti. Mosca puntava invece a “forzare” l’avvio di un processo negoziale che stava avendo successo nel marzo 2022, allorché fu boicottato dall’intervento di inglesi e americani, proprio allo scopo di realizzare il progetto candidamente esposto da Allison.

Per tenere in piedi la narrazione americana è poi necessario esprimere ottimismo sul futuro dell’Ucraina – come ha fatto il sottosegretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici, James O’Brien, affermando che “l’Ucraina sarà più forte alla fine del 2024” – malgrado la grave situazione economica in cui versa il paese, e le enormi perdite subite che, secondo l’ex procuratore generale ucraino Yuriy Lutsenko, ammontano ad almeno 500.000 morti. Allo stesso tempo, è necessario tenere viva la paura in Europa, riesumando la “Teoria del Domino” utilizzata dal presidente Lyndon Johnson in Vietnam, esemplificata dalla dichiarazione di Biden dello scorso 6 dicembre, secondo cui “se Putin prende l’Ucraina, non si fermerà […] Continuerà ad andare avanti”. E questo sebbene il leader del Cremlino abbia recentemente rinnovato i segnali di una disponibilità russa al negoziato.

Ecco dunque che gli strateghi americani continuano ad elaborare scenari di una guerra a lungo termine per Kiev, prevedendo la creazione di linee fortificate, la ricostituzione del decimato esercito ucraino, e la pianificazione di attacchi oltre la linea del fronte, per colpire obiettivi in profondità nel territorio russo. L’obiettivo è giungere a una situazione in cui l’Ucraina sia in grado di assorbire le offensive russe minimizzando le perdite, per eventualmente riguadagnare l’iniziativa in futuro, o comunque continuare a “dissanguare” la Russia. Ma la nuova “strategia difensiva” prospettata da Washington prende anche in considerazione la possibilità che l’Ucraina diventi uno Stato fallito. Fino a quando essa rimarrà un calderone di nazionalismo nel quale impantanare la Russia (eventualmente anche attraverso una resistenza armata), imprigionandola in una contrapposizione permanente con l’Occidente, l’obiettivo americano è raggiunto comunque. Nel frattempo, l’altro focus di Washington è quello di consolidare la nuova cortina di ferro europea dal Mar Nero al Baltico, attraverso il ritrovato ruolo di fedele e docile alleato da parte della Germania, per “persuadere” la quale a rinunciare all’energia russa a basso costo – come ha scritto Allison – giunse il provvidenziale sabotaggio dei gasdotti Nord Stream nel settembre 2022. Il ristabilito asse di Berlino con la Polonia, il rilancio del cosiddetto Triangolo di Weimar (Parigi-Berlino-Varsavia), la nuova “linea di difesa del Baltico” (promossa da Estonia, Lituania e Lettonia), e l’avanzamento di una “Schengen militare” per facilitare la movimentazione di materiale bellico entro i confini dell’Unione in direzione della Russia, forniranno la struttura portante della nuova cortina di ferro.

Il nuovo slancio impresso al processo di allargamento dell’UE, e di espansione della NATO, che potrà coinvolgere a vari livelli i Balcani occidentali, e paesi come Ucraina, Georgia e Moldova, completa il progetto di Washington. In particolare, l’ingresso di Finlandia e Svezia nell’Alleanza Atlantica servirà a estendere il conflitto all’estremo Nord del continente, e alla regione artica. E con gli alleati europei così mobilitati contro la Russia, gli Stati Uniti potranno dedicare le proprie attenzioni al Pacifico. Naturalmente, le incognite di questo progetto sono numerose. Il processo di allargamento di organismi mastodontici come NATO e UE, che già presentano seri problemi al loro interno, è destinato a incontrare numerosi ostacoli. La creazione di un’industria bellica europea è un’impresa che richiederà anni, mentre quella russa è a pieno regime. Tale impresa è poi tutt’altro che scontata, soprattutto alla luce delle difficoltà economiche e di approvvigionamento delle materie prime a cui stanno andando incontro i principali paesi dell’Unione. Gli eserciti di Gran Bretagna e Germania versano in condizioni disastrose, mentre entrambi i paesi sono entrati in recessione. L’economia tedesca, in particolare, sta andando incontro a un vero e proprio processo di deindustrializzazione. Washington ha le sue gatte da pelare in patria, con la sua grave paralisi politica interna, e un anno elettorale che si preannuncia pieno di tensioni e incertezze. Ma oltreoceano, la prospettiva di un’Europa teatro di una nuova guerra fredda con la Russia, sebbene al prezzo di diventare più insicura e impoverita, è quanto di meglio l’America si possa augurare – almeno secondo strateghi come Allison.

Roberto Iannuzzi

 

 
Legati a un paese che sta colando a picco PDF Stampa E-mail

28 Febbraio 2024

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 Da Rassegna di Arianna del 26-2-2024 (N.d.d.)

Giorgia Meloni a nome dello stato italiano ha firmato un accordo bilaterale di cooperazione per la Sicurezza con il presidente ucraino Zelensky. L'accordo ha validità decennale (10 anni). L'accordo impone all'Italia di intervenire in sostegno di Kiev entro 24 ore in caso di nuovo attacco di Mosca e di continuare a fornire aiuti economici e militari al governo ucraino. L'Italia si impegna inoltre a favorire l'ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea e nella Nato. Si prospetta poi la possibilità di addestrare l'esercito ucraino e di condurre esercitazioni da parte dell’esercito italiano anche in territorio ucraino.

In sostanza, non paga di aver bruciato ottimi rapporti pluridecennali con la Russia, di aver buttato un numero indefinito di miliardi (i numeri sono secretati) nel sostegno bellico all'Ucraina, di aver contribuito ad un'esplosione dei prezzi dell'energia che ha impoverito il paese e proseguito nell'attività di deindustrializzazione, ora Giorgia Meloni vuole lasciare il suo segno nella storia legando l'Italia sempre più strettamente ad un paese che sta colando a picco, militarmente ed economicamente, esponendola in maniera crescente sul piano bellico. Infatti un articolo come quello che impegna l'Italia ad un'immediata risposta di sostegno in caso di "nuovo attacco russo" o è una buffonata pour parler (e allora è una vergogna) o è un impegno che simula l'articolo 5 dell'Alleanza Atlantica, e allora è un suicidio. Inoltre l'idea di inviare "istruttori italiani" ad addestrare l'esercito ucraino sarebbe ridicolo (l'esperienza bellica degli ucraini oramai si mangia a colazione quella italiana), se non fosse un modo informale di inviare truppe operative. Ricordiamo che nella guerra del Vietnam per molti anni gli USA ufficialmente avevano sul territorio soltanto "istruttori e consiglieri militari" (decine di migliaia), con il compito ufficiale di addestrare le forze anticomuniste locali. Ed è tecnicamente impossibile distinguere tra un militare ordinario e un militare con compiti di "istruire e consigliare". L'idea poi di sostenere l'ingresso dell'Ucraina nella Nato, per quanto non nuova, riapre la ferita di ciò che sin dall'inizio è stato il casus belli con la Russia, che dopo aver visto una continua espansione a est della Nato aveva posto un veto reiterato al passo fatale dell'ingresso ucraino in un'alleanza militare ostile (l'Ucraina ha il più ampio e permeabile del confini, quello da cui nella storia sono venute le maggiori minacce all'esistenza dello stato russo).

Tutta l'operazione è condita dalla solita pioggia di denari pubblici a perdere, che rientreranno soltanto in parte in commesse all'industria bellica nazionale. In sostanza, una volta di più, Giorgia Meloni sta contribuendo (come molti prima di lei, va detto) ad un trasferimento diretto di risorse pubbliche da scuole e ospedali italiani, per cui la coperta è sempre cortissima, alla solita banda di oligarchi amici degli amici. E questo coinvolgendo tutti gli italiani in un ruolo di nemici di una grande potenza nucleare.

Ecco, scriviamo questo in attesa di vedere se la "lista di putiniani in Italia" che Zelensky ha promesso di dare alla premier italiana per sanzionarli sia già arrivata a destinazione. Già perché, per chi se lo fosse dimenticato, tutto questo sfacelo nazionale è fatto nel nome della libertà e della democrazia. Che ci facciamo insegnare da chi rivendica orgogliosamente il retaggio delle SS Galizien.

Andrea Zhok

 
Vietato sapere PDF Stampa E-mail

27 Febbraio 2024

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 Da Appelloalpopolo del 24-2-2024 (N.d.d.)

Come sempre accade, almeno nell’ultimo “ventennio” in Italia, le fregature vengono sempre presentate con un nome o con un acronimo inglese. In questo caso l’ultimo pacco, recapitato direttamente da Bruxelles, si chiama Digital Service Act, tradotto per chi proprio ha il rigetto verso la lingua del nemico: “legge sui servizi digitali”. La legge è stata votata nel mese di settembre da una maggioranza bipartisan al Parlamento Europeo ed è già in vigore in tutti gli stati aderenti all’UE. Con questa nuova norma, almeno nelle apparenze, il legislatore ha voluto disciplinare la diffusione dei contenuti digitali (audio, video, testi...), in modo chiaro perché in assenza di regole le reti sociali (social network) e le principali piattaforme li rilanciavano o censuravano in maniera del tutto arbitraria.

Apparentemente quindi, questa legge potrebbe colmare un vuoto normativo creatosi nel momento in cui la formazione della pubblica opinione, si è spostata in gran parte verso questo nuovo strumento comunicativo. Per anni infatti su internet, nella più totale anarchia, sono fiorite nuove forme di comunicazione che permettevano la diffusione di contenuti di ogni tipo, senza limiti o filtri; per questo motivo, perfino nelle piattaforme di condivisioni video generaliste, agli albori, si poteva trovare di tutto, senza alcuna censura, se non per la pornografia più spinta che ha sviluppato canali dedicati. Questa libertà imperfetta, criticabile e migliorabile, ha consentito l’apertura di una finestra cognitiva attraverso la quale una fetta di popolazione mondiale, principalmente occidentale, è potuta venire a contatto con la realtà dei fatti su moltissime questioni. È trascorso un ventennio grandioso di libertà che ha generato una crescita culturale e cognitiva senza precedenti nelle frazioni più evolute delle società, sono stati anni in cui Julian Assange (oggi in carcere in Inghilterra su mandato degli Stati Uniti), con WikiLeaks, senza timori, diffondeva documenti e video contenenti le peggiori atrocità commesse da tutti gli Stati, come ad esempio il massacro di civili e giornalisti inermi dell’agenzia Router, da parte di un elicottero da guerra statunitense in Iraq.

La crescita culturale e cognitiva dei popoli è progredita con ritmi esponenziali. Dal 2005 in poi, ogni appuntamento elettorale o referendario è stato divulgato in antitesi ai desiderata delle oligarchie occidentali che li proponevano, così sono naufragati tutti i tentativi autoritari delle oligarchie, passati per il vaglio popolare. Ricordiamo ad esempio, tutti i tentativi per istituire una costituzione europea in Francia e Paesi Bassi, la riforma costituzionale di Renzi nel 2014 in Italia, il referendum che ha bocciato il piano dei creditori nel 2015 in Grecia, ma il culmine si è raggiunto nel 2016 con le elezioni di Donald Trump negli Stati Uniti e la Brexit in Inghilterra. Da quel momento il potere, con tutte le sue ramificazioni, è rimasto scioccato e tramortito ed ha organizzato una reazione progressiva e feroce. A riprova di quanto sostengo, memorabile è stato lo sfogo della giornalista italiana Giovanna Botteri che in un collegamento, dopo le elezioni del presidente Trump disse: «Che cosa succederà a noi giornalisti?… Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta ed unita contro un candidato… Che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana? Le cose che sono state scritte, le cose che sono state dette evidentemente non hanno influito su questo risultato e sull’elettorato che ha creduto a Trump, piuttosto che alla stampa, a suo dire bugiarda» Consiglio la visione del video completo su: https://www.youtube.com/watch?v=3LX49OF5VGs

Da quel momento in poi, in tutto il blocco di influenza occidentale è stata creata la categoria delle menzogne, ai più nota come “fake news” che ha rappresentato il pretesto per silenziare il dissenso. Attraverso la creazione di un recinto lessicale sempre più colorito ed ampio che comprende l’omofobia, il no vax/green pass, il complottismo, il negazionismo, il negazionismo climatico, ecc. si è iniziato a frammentare e ghettizzare il dissenso, prendendolo di mira in ogni modo e con ogni mezzo possibile. Ai social network e motori di ricerca, ricattati finanziariamente e con scandali ad orologeria (Cambridge Analytica su tutti), è toccato il ruolo di censori che con varie tecniche hanno svolto diligentemente fino ad oggi, data in cui viene passato il testimone alla Digital Service Act (Legge Sui Servizi Digitali).

Molto interessanti sono state le tecniche alle basi delle censure che progressivamente hanno messo in campo dal 2016, alcune semplicissime, altre sofisticate: -Il Bandire Ombra (Shadow Ban), consente agli algoritmi delle piattaforme sociali di bandire, oscurandoli, i contenuti all’insaputa dell’utente, attraverso una diffusione minima o nulla rispetto al potenziale che potrebbe generare. -Il Bandire (Ban) attraverso la violazione delle regole della comunità, consente l’eliminazione dei contenuti, dietro segnalazione degli utenti. -La mancata compilazione automatica nei motori di ricerca che consente di deviare le ricerche degli utenti da alcuni contenuti ad altri che vengono suggeriti in fase di compilazione. -La riscrittura dei contenuti sensibili su Wikipedia, così da trasformare i fatti, secondo le esigenze del regime; la strage di Odessa ad esempio, commessa in modo raccapricciante da nazisti ucraini, dopo lo scoppio della guerra si è trasformata in un semplice “incendio della Casa dei sindacati”, i principali oligarchi criminali finanziari e speculatori occidentali sono diventati semplicemente filantropi ecc.

La chiave di volta di questa strategia censoria resta comunque l’introduzione della categoria delle bufale (fake news) da combattere in ogni modo e per farlo sono state create agenzie con lavoratori addetti alla censura, oggi non più anonimi segnalatori di post ma censori a norma di legge, chiamati sbufalatori (fact checker). Questa categoria formata principalmente da giornalisti, agenti dei Servizi Segreti, opinionisti ecc. accreditata istituzionalmente, è diventata la forza lavoro del Ministero della Verità. È evidente a tutte le persone di buon senso che le verità o le bugie non hanno bisogno di leggi o di patenti ministeriali e che siamo al cospetto di limitazioni arbitrarie di contenuti, funzionali al mantenimento del potere da parte di una oligarchia finanziaria che è completamente scollegata dalla umanità sottostante. Tutto questo ricorda molto da vicino il crollo di un regime totalitario che fino all’ultimo, tenta con ogni mezzo possibile di conservare il potere.

Ricordo ai lettori che la rete Internet è una infrastruttura militare, sfuggita totalmente dal controllo delle autorità. Questa tecnologia è diventata una parte centrale della vita sociale ed economica del pianeta, volerla bloccare o irreggimentare è una missione fallita in partenza, se non al costo di repressioni sanguinose, o limitazioni brutali della libertà di espressione; per questo motivo, il tentativo legislativo europeo ha più il sapore di una mossa disperata da parte di un regime che è sempre più impopolare e tirannico. All’orizzonte si stanno affacciando nuovi strumenti come l’euro digitale programmabile e il portafoglio digitale europeo, con una identità certificata che consentirà al regime di proibire da remoto con un algoritmo l’accesso a beni e servizi, pubblici e privati, se non si rispettano le direttive governative, così come accade da qualche anno in Cina con l’introduzione del Credito Sociale. Questo significa che non si deve discutere sul se certe agende totalitarie saranno portate avanti ma su quando e come saranno introdotte nelle nostre vite.

Io immagino questa stretta sulle libertà di espressione come un passaggio intermedio che troverà il suo completamento con ulteriori passaggi sovranazionali, come il Trattato Pandemico Internazionale, necessario per indorare con una cornice “pseudoscientifica” le prossime misure autoritarie, peggiori di quelle sperimentate nell’ultima pandemia.

In questo scenario, paradossalmente, tornano in campo alcune forme comunicative che si consideravano inutili o obsolete come la televisione e la carta stampata, questo perché non soggette alla Legge Sui Servizi Digitali o alle regole delle comunità virtuali ma alle agenzie regolatorie e alle Costituzioni nazionali europee. In molti, nel mondo del dissenso, questo aspetto lo hanno già valutato e accanto ai canali digitali come Telegram, YouTube, Facebook… stanno fondando riviste cartacee e stazioni televisive sul digitale terrestre come ad esempio Byoblu che già trasmette nel canale 262. […]

Gianfranco Costantini

 
Il complottismo è Storia PDF Stampa E-mail

24 Febbraio 2024

 Da Rassegna di Arianna del 21-2-2024 (N.d.d.)

Venerdì 16 nell’arco di pochi minuti "stranamente" all’unisono ministri primi ministri e presidenti dei vari paesi Nato denunciano brutalmente la responsabilità russa per la morte di Navalny, celebrato come eroe e combattente per la libertà. A poche ore dalla conquista da parte dell’esercito russo dell’importante snodo di Advivka, che sancisce la grande difficoltà dell’esercito Nato-ucraino. Interessante a tal proposito la sconsolata testimonianza, riportata sulla “Verità” di oggi, del comandante ucraino Nazar, il quale ammette il grave stato di difficoltà in cui versano le truppe. L’inviato sul campo – il giornalista Niccolò Celesti, che intervista il Nazar – non può fare a meno di scrivere che «da quando siamo rientrati in Ucraina, qualche giorno fa, abbiamo trovato per la prima volta segnali diffusi di malcontento fra i soldati. Una sensazione generale di insicurezza e paura». Dubbio complottista: serviva deviare l’attenzione dalla grave situazione in Ucraina, che gli stessi commentatori occidentali non possono ignorare?

Ma, tornando a Navalny, torna utile leggere l’articolo "La mano di Londra sulla morte di Navalny" del politologo statunitense ed esperto di Russia, Gilbert Doctorow. Doctorow è convinto che la morte di Navalny serve a distrarre l’attenzione, per esempio è un «antidoto» al «grande colpaccio» rappresentato dall’intervista di Carlson Tucker con Putin appena una settimana fa. Poi, dopo aver analizzato tutte le operazioni sotto falsa bandiera che sono state dirette dall’Occidente contro la Russia nell’ultimo decennio, Doctorow spiega perché il Regno Unito, fortemente impegnato in una guerra “non” così segreta contro la Russia (citando da una serie di fatti), sia il principale indiziato nell’assassino di Navalny. Chi voglia leggere l'articolo vada nella sezione commenti. Una serie di circostanze rende improbabile che sia stata la Russia a orchestrare l’uccisione di Navalny (per i distratti: alle dipendenze dei servizi americani). Ma più che altro, sorge spontanea la classica e semplice domanda “cui prodest?” (a chi giova?), cioè che tipo di beneficio avrebbe tratto Putin da questa eliminazione. I fatti dimostrano che della morte di Navalny sia il fronte Nato a trarne beneficio, almeno sul piano della propaganda.

Nel frattempo assistiamo invece al totale concertato silenzio sulla riunione dell’Alta Corte britannica per decidere sull’estradizione del fondatore di “Wikileaks” Julian Assange negli Usa, dove il giornalista australiano dovrebbe affrontare la grave accusa di spionaggio rischiando fino a 175 anni di carcere. Da ricordare che Assange è in regime di stretto e feroce isolamento dall’11 aprile 2019 presso la prigione di sua maestà Belmarsh, chiamata la “Guantanamo inglese”. I britannici detengono Julian Assange da cinque anni senza capo di imputazione, semplicemente perché lo vogliono gli americani, loro si giustificano dicendo che il giornalista australiano rivelando segreti di stato ha messo in pericolo – udite udite! – le operazioni delle democrazie occidentali.  Ma quali sono queste rivelazioni? Assange pubblicò il 25 luglio 2010 su “Wikileaks” gli “Afghan War Diary”, i diari di guerra afghani, poi in ottobre gli “Iraq War Logs”, enormi quantità di rapporti che documentavano i crimini di guerra in Afghanistan e Iraq. Ma la sua imperdonabile colpa è quella di aver svelato con i cablo tutta la corruzione dei governi, delle diplomazie, dei gruppi finanziari occidentali, e le mail private che mettono in luce la preparazione delle cosiddette primavere arabe, le rivolte in Siria e la distruzione della Libia (le mail della Clinton contengono le vere motivazioni per l’uccisione di Gheddafi: impedire la costruzione di una moneta africana per sganciarsi dal franco francese e dal dollaro). Assange ha in sostanza offerto le prove – come acutamente ha osservato Francesco Toscano – che quello che tutti chiamano complottismo è Storia.

Chiaro perché il “mondo libero”, che usa chiamare “umanitari” i suoi bombardamenti su popoli recalcitranti, non può perdonargliela a Julian Assange? Lunedì sera alla fiaccolata per Navalny nella piazza del Campidoglio a Roma c’erano: dal primo cittadino Roberto Gualtieri alla segretaria del Pd Elly Schlein, il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, Tommaso Foti e Lucio Malan di Fratelli d'Italia, una delegazione di Italia Viva guidata da Maria Elena Boschi, Carlo Calenda (il promotore) con il gruppo di Azione, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli per Alleanza Verdi-Sinistra, il leader della Cgil Maurizio Landini, quello della Cisl Luigi Sbarra, Pier Ferdinando Casini, i capigruppo in Camera e Senato del M5S Francesco Silvestri e Stefano Patuanelli, Paola Taverna e Virginia Raggi. E ancora Giuseppe Provenzano e Filippo Sensi sempre per il Pd.

Ricordiamoci questi nomi, a futura memoria. Uno per uno, anche i cosiddetti pacifisti. Patetici burattini della Nato, ci aizzano contro la Russia per difendere le “democrazie occidentali” che non si fanno scrupolo di commettere crimini nel mondo a difesa del privilegio di essere il “miliardo d’oro”. E se scopri le carte, come ha fatto Julian Assange, te la fanno pagare cara.

Antonio Catalano

 

 
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