28 Ottobre 2023 Da Rassegna di Arianna del 24-10-2023 (N.d.d.) Il progetto di un nuovo ordine mondiale a guida americana, teorizzato alla fine della “Guerra Fredda”, dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, appare miseramente fallito. Il modello di un villaggio globale, pacificato e senza frontiere, regolato dal mercato con i gendarmi USA a vigilare, si sta rivelando inapplicabile nella realtà. Le crisi si moltiplicano in varie zone del pianeta sfociando sempre più spesso in guerre che, inizialmente limitate ad alcuni attori, rischiano di espandersi con conseguenze che nessuno può prevedere. Sono tante le aree dove una scintilla può innescare incendi devastanti. Tuttavia, per le cancellerie occidentali, non tutte assumono la stessa rilevanza. Poca attenzione merita infatti la sanguinosa disputa tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh così come la drammatica situazione dell’Etiopia con oltre 600 mila civili morti e 2 milioni e mezzo di sfollati, che vive una calma solo apparente. Per il mancato rinnovo dell’accordo sul cessate il fuoco, sembra giunta al termine la fragile tregua nello Yemen, tra il governo ed i ribelli Huthi, in un conflitto che dura da 8 lunghi anni. Divampano, nel silenzio dei media, le violenze e gli scontri nella regione dei Grandi Laghi, nella parte orientale del Congo, tra i ribelli ruandesi che hanno assunto il controllo di numerose città e villaggi e le truppe regolari del Governo di Kinshasa. In Sudan da 5 mesi è scoppiata una guerra civile oscurata, con scontri tra le Forze armate sudanesi fedeli al capo di stato maggiore, generale al-Burhan, e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Fsr), guidati da Mohammed Dagaloche si contendono il potere con sempre maggiore violenza. Gli sfollati interni sono più di quattro milioni, ed oltre un milione e 130mila sono i profughi fuggiti nei paesi confinanti. C’è da segnalare poi la tragica condizione in cui versa il Sahel subsahariano, afflitto da una gravissima crisi alimentare che, grazie anche all’indifferenza dei paesi ricchi interessati soltanto alle enormi quantità delle pregiate materie prime presenti nel sottosuolo, ha contribuito a fare di quella regione l’epicentro mondiale di reclutamento del terrorismo jihadista. I predicatori islamici sfruttano la povertà della popolazione, la fragilità e la corruzione dei governi per ingrandire sempre più le loro schiere. Da Mali, Burkina Faso, Mozambico parte uno sciame sismico di violenze che, attraversando tutto il continente, si estende fino al Maghreb con ripercussioni sulla stabilità dei paesi dell’Africa mediterranea dalle cui sponde si dipanano i flussi migratori sempre più massicci ed incontrollati che rappresentano i maggiori pericoli per l’Europa, minacciata nella sua identità e sicurezza. I politici europei dimostrano di curarsi poco delle turbolenze che scuotono il Continente Nero e fanno male perché questi sommovimenti sono destinati a provocare lo spostamento di masse di milioni di uomini, pronti a riversarsi sulle nostre coste con un’invasione che solo inizialmente potrebbe sembrare pacifica. L’Occidente, viceversa, mostra di preoccuparsi solo ed esclusivamente di Ucraina e Medio Oriente. La guerra scoppiata al centro del Vecchio Continente, dopo un anno e otto mesi non sembra destinata a concludersi in tempi brevi. Zelensky continua a chiedere armi sempre più sofisticate per ottenere quella vittoria di cui ha enormemente bisogno ma la tanto pubblicizzata offensiva volta a riconquistare i territori perduti non sembra aver ottenuto i risultati sperati e l’inizio della stagione invernale rallenterà, se non azzererà del tutto, le operazioni militari. A questo punto se i due contendenti non accetteranno di avviare trattative diplomatiche rischiamo di ritrovarci, la prossima primavera, con la ripresa dei combattimenti di una guerra senza fine, costosissima in termini sia umani che economici. È auspicabile che il riaccendersi del conflitto israelo-palestinese possa almeno far scendere a più miti consigli l’intransigente presidente ucraino. Questa nuova situazione esplosiva nella delicatissima area mediorientale è destinata a distrarre inevitabilmente l’attenzione dei paesi suoi protettori aderenti alla NATO che, tra l’altro, già avevano cominciato a lanciare segnali di insofferenza per la sua chiusura verso ogni forma di trattativa oltreché per le continue e sempre più pressanti richieste di aiuti a fronte dei quali non si mostra mai pienamente soddisfatto. L’esplosione della guerra tra Hamas ed Israele ha colto tutti di sorpresa, rimettendo in discussione alleanze e strategie ed il Cremlino ha subito intuito come questo rinnovato scontro potesse rappresentare una grande fortuna. Oltre alle dirette conseguenze, in termini di riduzione di rifornimenti e di attenzione mediatica, nel conflitto con l’Ucraina, la Russia godrebbe di altri due importanti vantaggi: il primo un’impennata dei prezzi di petrolio e gas che porterebbero notevoli benefici alla sua economia, il secondo proprio quello di mandare all’aria i piani americani per il Medio Oriente. Hamas ha già servito gli interessi russi ed iraniani rinviando a tempo indeterminato il ventilato accordo di pace tra Israele e Arabia Saudita, per il quale l’America ha speso molto tempo e sforzi, ora, con questa azione, lo ha fatto definitivamente fallire. Malgrado gli ottimi rapporti personali tra Netanyahu e Putin – Netanyahu era solito chiamare Vladimir Putin “caro amico”- la Russia si è chiaramente schierata dalla parte dei palestinesi. Il decisivo aiuto concesso alla Siria del legittimo presidente Assad contro le milizie ribelli finanziate e foraggiate dall’esterno e le relazioni sempre più calde con l’Iran avevano già creato tensioni con Israele ora, naturalmente, i rapporti sono destinati a peggiorare. Finora la Cina si è limitata a esprimere preoccupazione per l’attuale escalation di tensioni e violenza tra Palestina e Israele, ma non dubitiamo che sarà ben felice di vedere l’America impantanata nella regione e la sua autorità messa in discussione. All’inizio di quest’anno, Pechino aveva contribuito a mediare per un riavvicinamento tra l’Iran e l’Arabia Saudita, coltivando la speranza di minare l’ordine mondiale guidato dagli americani. Forse non era a conoscenza dei piani di Hamas, ma è improbabile che sia dispiaciuta dello scompiglio che questo attacco ha provocato. Biden annaspa, apparentemente spiazzato dell’azione di Hamas che, ci dicono, inaspettata anche se appare poco credibile che i servizi di sicurezza israeliani e le diverse agenzie di intelligence USA non abbiano avuto il minimo sentore di quanto si stesse preparando. Sembra invece più probabile che abbiano sottovalutato la fondatezza delle informazioni giunte. Naturalmente non lo ammetterebbero mai in quanto aver saputo e non aver fatto nulla, risulterebbe ben più grave della semplice inettitudine. In astratto, poi, ci sarebbe anche una terza ipotesi: aver saputo e non aver “voluto” fare nulla… Tra i primi atti di Biden, dopo l’iniziale disorientamento, c’è stato l’appello, lanciato dallo Studio Ovale, agli americani ed al Congresso, affinché si continuasse nell’azione di sostegno nei confronti di Ucraina ed Israele battendo sul solito tasto: la pace è in pericolo e bisogna combattere con la massima determinazione tutti coloro che attentano all’ordine mondiale di cui gli Stati Uniti sono garanti. Il suo discorso è stato chiarissimo: sostenere Ucraina e Israele è nel nostro interesse, è vitale per la “nostra” sicurezza nazionale. Ha ripetuto il solito cliché di accuse a Putin e Hamas di rappresentare minacce diverse ma con un obiettivo in comune: annientare le democrazie che sono loro geograficamente vicine condito con l’accorato appello finale: non possiamo lasciarli vincere! Nei prossimi giorni, si appresta a chiedere al Congresso 100 miliardi di dollari per finanziare le necessità di sicurezza nazionale americana e sostenere Kiev e Tel Aviv. Intanto mostra i muscoli inviando due portaerei nella regione per mostrare a tutti che sono disposti, come sempre, a ricorrere all’uso della forza quando i loro interessi vengono minacciati. Malgrado questo sfoggio di potenza militare, l’influenza USA nel mondo sembra molto meno solida ed estesa rispetto al passato e la recente, disastrosa fuga dall’Afghanistan, non ha certamente contribuito a mantenere alto il prestigio statunitense. La Cina continua a farla da padrona in Africa e tiene costantemente sotto pressione Taiwan; i paesi che aderiscono al BRIC sono sempre più numerosi e molti di loro stanno crescendo sempre di più come potenze regionali sia in Asia che in Sud America e mostrano di tollerare sempre meno l’ingerenza di Washinton nei loro affari. Il progetto del nuovo ordine mondiale sembra essersi decisamente arenato, gli Stati Uniti hanno perso la loro funzione di garante e gendarme ‘planetario. Il caos sembra regnare sovrano. E non è detto sia un male! Mario Porrini
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L'Occidente è scomparso da un secolo |
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25 Ottobre 2023 Da Rassegna di Arianna del 24-10-2023 (N.d.d.) Il declino dell’Occidente è concetto del tutto superato, meglio, anacronistico, perché l’Occidente è scomparso da tre generazioni. Il perimetro dell’Occidente americano, si è esteso da “atlantico” a “Globale”. I BRICS non sono affatto un blocco, ma spazio d’interazione per convergenze d’interessi e collettivo strumento d’affermazione. I BRICS Plus sfidano gli USA su tre aree determinate: standard globali, rivalità geopolitiche, cooperazione regionale fra soggetti del Sud Globale. Il problema, è il “dasein”, lo “stare nel mondo” dei popoli europei, svanito con la loro anima avvelenata per generazioni dall’Occidente americano. Cos’è Occidente oggi? Ormai da generazioni si continua a parlare della crisi dell’Occidente, del suo tramonto; di come restaurare la sua centralità, il suo ruolo nel mondo e preservarne cultura e anima. Ma il fatto è che, con lo scorrere del tempo, è il concetto stesso di Occidente a essere radicalmente mutato e prima di continuare a dibattere su di esso necessita risposta alla domanda: cos’è Occidente? Anzi, cos’è Occidente oggi? Chi continua a parlarne dovrebbe aver chiaro che esso, Grossraum per come disegnato da Carl Schmitt e mondo valoriale inteso da Spengler, non esiste più da oltre tre generazioni. È stato concetto potente, evocativo, colmo di Storia, oltremodo ricco di cultura e valori. Insomma: brand di enorme successo. Ma già oltre cent’anni fa era in crisi manifesta, consumato da cancri quali l’avanzare del positivismo e delle dottrine liberali, la prassi capitalista, il nazionalismo più gretto, pervaso da un supponente senso di superiorità venato di razzismo che aveva giustificato il colonialismo. Era emanazione di un mondo che già all’inizio del Novecento s’avviava alla sua fase finale, all’auto-distruzione nel corso d’un ciclo di guerre fratricide che hanno consegnato lo scettro dell’egemonia mondiale ad altri esterni a esso. Cessione del brand alla potenza talassocratica da quel momento dominante; fine dello status di primo attore nella Storia, da quel momento oggetto di Storia altrui. Lo scippo del concetto d’Occidente da parte degli USA è stato suggello di dominio sulla provincia più importante del novello impero, mutazione essenziale quanto radicale: l’Europa è stata culla d’imperi tellurici, nati per ordinare gli spazi in funzione dei valori di cui erano portatori. Gli USA sono impero talassocratico, come prima di loro la Gran Bretagna da cui hanno rilevato il dominio dei mari. Entrambi appartenenti al Grossraum atlantico. Altra cosa, del tutto diversa, inconciliabile. Da quel momento e ormai per oltre tre generazioni l’antico Occidente (inteso come Grande Spazio identificato da Schmitt su terre europee) è stato sottomesso, sottoposto a dilavamento culturale, condizionamento virante in sudditanza politica, pedagogia sociale, indirizzo economico: gli è stata strappata l’anima consegnandolo alla post-storia. Esso non esiste più come soggetto autonomo, meno che mai dagli USA di cui condivide la deriva. Si parla d’Occidente ma s’intende tutt’altro, ovvero il frutto della mutazione imposta e ormai compiuta. […] In breve, piaccia o no, il declino dell’Occidente è concetto del tutto superato, meglio, anacronistico, perché l’Occidente – quello vero e non l’impostura di marca americana – è scomparso da tre generazioni. Ciò che è in crisi, al tramonto, è la finzione dell’Occidente americano, ovvero l’impero talassocratico a Stelle e Strisce, e, per ciò che è e rappresenta, è anche tempo che scompaia. […] Dev’esser chiaro: chi è sprofondato nella povertà, emarginato, spogliato dei vecchi miti pacchiani “Old America” cui era legato e bombardato dalle manifestazioni liberal sempre più estreme, non rinnega affatto l’“American Dream” – di cui si sente invece il vero interprete –ma accusa l’establishment di averglielo sottratto. Dall’esclusione scatta delusione e rabbia di tanti milioni di americani: essi imputano il proprio disagio a un sistema culturale e politico assai elitistico, gelosamente conservatore di se stesso e dei suoi riti, ovvero dei suoi privilegi. Si disegnano così due Americhe nettamente separate: quella delle élites e quella degli esclusi, due società incapaci di comunicare. Parafrasando la situazione israeliana, anche qui tribù con riti, interessi, linguaggi propri: una, la svantaggiata, non intende più sacrificarsi per un impero che non capisce, dai cui dividendi è esclusa pur pagandone lo scotto. L’altra, continua ad arroccarsi nella difesa – a qualsiasi costo – di un’egemonia ora contestata, da cui trae ricchezza e privilegi di cui gode. Frattura verticale, insanabile; annuncio di conflitto certo che s’apparecchia – anzi, già in corso – che non resta contenuto negli USA ma varca l’Atlantico, propagandosi nelle terre dell’antico Occidente oggi dimidiate a colonie. Perché – ripetiamo – piaccia o no, la mutazione è compiuta: l’Europa ha assimilato intimamente ascisse e coordinate del sistema americano, assai più di quanto alcuni suoi segmenti sociali vogliano ammettere o comunque abbiano consapevolezza. Tendenze, più e prima che importate, generate da temperie politiche, culturali, sociali ed economiche sempre più simili. Lo si riconosca o meno, le spaccature che emergono nei territori europei dell’impero USA sono conflitti interni al mondo liberale: anche qui conservatori che tentano di frenare la deriva liberal. Reazioni di chi vede poste in pericolo le proprie sicurezze e vuole ritrarsi da ciò che non comprende, tornando al passato che conosce e in cui identifica il proprio posto. Non rappresentano in alcun modo fermenti rivoluzionari né, tantomeno, ripulsa della cultura liberale e della logica liberista, ai cui (dis)valori di fondo (seppur d’altri tempi) queste manifestazioni di “dissenso” continuano a rimanere fermamente inscritte; sono, semmai, tipici riflessi piccolo-borghesi. È vero: in anni recenti, appena trascorsi, c’è stato un timido tentativo di smarcamento europeo da logiche e stretta dipendenza dagli interessi USA, ma esso aveva anima economica non politica, meno che mai culturale. In assenza di capacità di scelta e autonomo orientamento, per l’Egemone è stato facile ridurre a rapida obbedienza stati privi di vera sovranità compiuta, comunque ascritti ai suoi canoni. Il conflitto, tenacemente cercato con la Russia per interposta Ucraina, è stato ed è l’episodio più eclatante del confronto/scontro fra l’Egemone insidiato vs quel resto del mondo stanco di essere “ordinato” secondo interessi altrui. Irricevibile segnale d’affrancamento per chi si percepisce sovrano per diritto divino, Numero Uno o nulla. Da ciò la chiamata alle armi dei clientes europei. Qui non parliamo semplicemente dell’autolesionistica frattura fra Russia ed Europa (agli occhi americani leggi, soprattutto, Germania), ma del complessivo riorientamento dei rapporti del Continente con il resto del mondo in funzione dei desiderata d’oltre Atlantico. Rigida inscrizione – e autolimitazione – a un blocco, a prescindere dagli interessi nazionali, semplicemente ignorati, sistematicamente subordinati a quelli altrui. Di più: è stata posta in atto – e supinamente subita – una destrutturazione dei tradizionali equilibri dello spazio europeo che alla vecchia faglia economicista nord-sud ne ha sovrapposto una nuova – assai più incisiva e pesante – ovest-est. Con conseguente migrazione del baricentro verso Varsavia e il Baltico, cui l’Egemone ha assegnato la missione di contenimento – tentato esaurimento – di Mosca. […] In tempi di cambiamenti radicali – e i presenti lo sono – gli stati si dividono fra predatori e prede; in lessico politicamente corretto, fra tendenti a revisionismo dell’ordine precedente o a essere “revisionati”. Tertium non datur. Inutile – peggio, suicida – continuare ad appellarsi a un rules-basedorder in crisi manifesta come l’Egemone che lo ha imposto. Confusione massima per gli establishment dell’antico Occidente: entrati da generazioni nella post-Storia, cullati nella pratica economicista, per sudditanza adusi a delegare al padrone le scelte, sono incapaci di improvvisare, di seguire vie proprie. Esercizio impossibile per chi ha perduto l’anima. Sintetizzando al massimo: la Germania annaspa in un mondo che non capisce più, scoprendo che nelle temperie attuali l’economia non fa potenza ma la serve; la Gran Bretagna s’aggrappa agli USA nel tentativo di sopravvivere a se stessa, ma affonda con essi; la Francia ha velleità residua ma ha smarrito stazza e capacità d’azione autonoma; l’Italia, non pervenuta, prova a seguire l’antica prassi della sudditanza per abituale e rassicurante routine, ma non sa dove e come: l’Egemone è troppo impegnato per darle retta. Interloquisce, semmai, con chi si offre di ordinare spazi a convenienza USA, non con chi si limita a invocare protezione. La Nuova Europa – quella dell’Est con Varsavia in testa -pronta a sacrificare ogni cosa sogna fanatico revanscismo verso la Russia, facendosi scudiero di un impero in crisi manifesta. Washington ringrazia e approfitta come sempre. […] Il G20, già paternalistica estensione del G7 è oggi caos. […] L’ONU è relitto di passato remoto, la sua struttura, composizione, finalità ed equilibri sono stati partoriti ottant’anni fa, era jurassica in termini geopolitici. È carrozzone autoreferenziale, scollegato dalla realtà, ininfluente; nei fatti lo è sempre stato ma era sostenuto (quanto manipolato) dagli USA, massimamente nell’era unipolare. Ora Washington non ha più energie da spendere per uno strumento anacronistico e inceppato. Restano i BRICS, dall’1 gennaio 2024 BRICS Plus: recentemente sono stati versati fiumi d’inchiostro per descriverli novello blocco che contrasta gli USA. In verità, la categoria dei “blocchi” è peculiare all’impero europeo dell’America, inscrittavi da generazioni di Guerra Fredda e, successivamente, dai vincoli imposti dall’Egemonismo washingtoniano. Nel resto del mondo non v’è nulla di simile; come già accennato, neppure nei paesi “occidentali” del Pacifico. I BRICS non sono affatto un blocco, né sfera d’influenza appaltata a singola potenza, ma spazio d’interazione per convergenze d’interessi e collettivo strumento d’affermazione. Sono tipico consorzio multipolare costituito da soggetti portatori d’istanze differenziate, talvolta anche confliggenti (vedi India e Cina), che ambiscono a coltivare in autonomia. Per questo rifuggono da pretese egemoniche altrui. È il sogno rivisitato di quanto espresso nel 1955 alla Conferenza di Bandung dei Non Allineati, evoluti col tempo nel Gruppo dei 77+Cina (oggi arrivati a 134 malgrado mantengano l’antico nome). Allora riscosse una certa rilevanza non per peso specifico proprio ma quale soggetto conteso fra i due poli, e infatti la perse del tutto nel momento unipolare per riacquistarla progressivamente col manifestarsi del multipolarismo. Oggi riemerge attraverso i BRICS Plus, per stazza propria e quale rappresentante del Sud Globale che finalmente trova proprio ambito d’espressione al di là da sudditanze imposte. […] A Johannesburg, con gli ingressi ufficializzati al 15° Summit dei BRICS del 22 – 24 agosto, è nata un’area che, troncando gli indugi precedenti, s’è fatta locomotiva del Sud Globale, meglio, del mondo che verrà. Comprende il 47% della popolazione mondiale, il 37% del PIL (in rapida ascesa a differenza dell’Occidente americano), il 43% della produzione delle risorse energetiche (molte altre tramite l’OPEC+) e una straordinaria massa di commodities. Nei fatti, il gruppo s’è dimostrato centro d’attrazione con oltre 40 paesi che hanno mostrato l’interesse di entrarvi e 23 che hanno formulato domanda formale di adesione. Con l’ingresso dei sei nuovi membri avvenuto ad agosto, il Sud Globale ha trovato un’area comune e lancia all’Occidente un messaggio che ora ha forza (e credibilità) di gridare: i vostri problemi non sono i nostri. Non solo. I BRICS Plus chiedono la revisione del potere globale e dunque riforma dell’ONU e del Consiglio di Sicurezza (che non riflettono in alcun modo gli equilibri attuali) e delle Istituzioni finanziarie nate dopo Bretton Woods (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) su cui si fonda lo strapotere USA. Puro revisionismo dell’ordine attuale, anatema per l’Egemone a rischio d’essere “revisionato “che vede il proprio impero – prima padrone e modello globale – in ritirata, ridotto sulla difensiva e rifiutato da crescente parte di mondo. A parte il generale indirizzo multipolare di cui i BRICS sono espressione sempre più assertiva, a nostro avviso sono due i fenomeni (geo)politici più rilevanti e originali che in questi anni si sono imposti all’attenzione per persistenza ed efficacia: il modello cinese e la Rivoluzione Islamica. Il primo non è un sistema perfetto, anzi, presenta numerose criticità; tuttavia, esse non possono nascondere i risultati sorprendenti raggiunti nel volgere di pochi decenni. Su una cosa insistiamo: le peculiari caratteristiche della società e dell’economia cinesi; premesso che ci pare errato valutare un contesto socio-culturale così complesso – e con spessore storico tanto rilevante – con metro del tutto diverso come il nostro, non riteniamo il sistema cinese capitalista. In Cina lo stato non è al servizio dei capitalisti; è sì economia di mercato, ma sottoposta a controllo e indirizzo del potere politico che ne determina le strategie in funzione degli interessi del paese per come definiti – appunto – dalla politica. Né sfuggono a ciò le grandi imprese, tutt’altro, ritenute strumenti per conseguire gli obiettivi strategici della nazione. In altre parole, i capitalisti realizzano utili – eccome! – ma nell’ambito di un generale processo governato dalla politica. È questo che, a differenza dell’Occidente, permette a un dirigismo peculiare di concentrare l’intero sistema paese sugli interessi giudicati cruciali da una direzione che ha sinora dimostrato forza e visione chiara, costruendo un processo d’affermazione straordinario. Ciò ha consentito a Pechino di inserirsi con lucidità ed efficacia nelle dinamiche economiche e finanziarie mosse da Washington, volgendole a proprio vantaggio senza vendere anima e sovranità. Altro aspetto da tenere in conto è che la Cina, pur abbracciando la modernizzazione, non ha abbracciato con lo stesso entusiasmo la (pseudo)cultura liberale, rimanendo in vasta parte se stessa, rifiutando sia le esasperazioni della deriva liberal, sia l’esaltazione dell’individuo misura d’ogni cosa. Con ciò non esortiamo affatto di prenderla a modello, ma evidenziamo come l’attitudine a visione e azione collettive conferisca forza al suo sistema, capace di fare massa critica sugli obiettivi ritenuti rilevanti al di là da calcoli immediati. Per dirla col Segretario di Stato americano Blinken, essa sta acquisendo la potenza economica, diplomatica, militare e tecnologica per “revisionare” l’ordine internazionale di marca americana. È evidente che la crescente estroversione di un simile gigante provochi timori e reazioni fra i vicini, legati a lui da economia e commerci ma preoccupati dalla vicinanza. Tuttavia, è un fatto che l’intera ascesa della Cina sia avvenuta senza uno sparo. Differenza quanto meno stridente con l’ininterrotta sequenza di guerre, aggressioni d’ogni tipo, colpi di stato, al minimo pesanti ingerenze, che hanno caratterizzato storia e prassi dell’Egemone americano. Quanto alla Rivoluzione Islamica, è dottrina che il mainstream mediatico ha fatto di tutto per screditare. Il cuore del messaggio sta nell’affermazione che opporsi a sfruttamento, tirannia e oppressione non è solo lecito, ma obbligo per ogni credente, come pure lo è adoperarsi per il bene degli ultimi e sostenere che la dimensione del mondo non è e non dev’essere economica ma valoriale e spirituale. Anatema per l’Occidente, che vede in essa un nemico irriducibile da demonizzare. L’efficacia e la capacità di diffusione della dottrina è potenziata dal fatto che essa si rivolge ai valori profondi delle popolazioni introiettati per secoli attraverso l’Islam; d’altronde, i principi di giustizia politica e sociale propri della Rivoluzione Islamica non sono frutto di semplice elaborazione politica ma, per strano che possa apparire a chi non conosce il Corano, dettati dai precetti che vi sono espressi esplicitamente. La Dottrina della Resistenza, che della Rivoluzione Islamica è espressione, li ha posti insieme in maniera organica parlando ai valori condivisi dei popoli islamici. Doppia notazione: è un errore considerare la Rivoluzione Islamica un modello rigido; proprio perché è ai popoli che si rivolge – fermi restando principi e ispirazioni – essa si adatta ai contesti culturali, sociali, storici ed economici in cui si sviluppa. Inoltre, essa ha tempi lunghi perché non tende a sollevare le folle in una rivolta ma a far acquisire alle masse consapevolezza per puntare a una rivoluzione, ovvero a un radicale quanto strutturale mutamento degli assetti politici ed economici dei paesi. Tuttavia, oltre quarant’anni di Storia hanno dimostrato che, quando la Dottrina della Resistenza si radica, è impossibile estirparla malgrado aggressioni e repressioni d’ogni tipo. È una storia di successo dimostrata dalla sua continua proiezione a dispetto delle guerre scatenate per fermarla: in Iran, Iraq, Libano, Yemen, Palestina essa si è affermata, giungendo a mettere radici in Bahrain, Siria, Afghanistan e ora in Nigeria. Con ciò costituendo l’Asse della Resistenza, insieme di realtà statuali e non statuali, alleanza organica per il raggiungimento di comuni fini strategici: instaurare ed espandere Società della Resistenza negli stati in cui la Rivoluzione Islamica si sviluppa. In ogni caso, la progressione dell’Asse della Resistenza e la speculare contrapposizione di chi tenta di mantenere antichi assetti di dominio sull’area costituiscono le principali dinamiche del Medio Oriente. Entrambi i fenomeni politici esaminati sono esperienze di sperimentato successo; tuttavia, gli ambiti di ulteriore sviluppo non sono globali sebbene le ricadute dei loro processi siano tali da investire direttamente o indirettamente il mondo intero. Il modello cinese risulta difficilmente esportabile al di fuori del suo contesto peculiare, a differenza della Dottrina della Resistenza che esportabile lo è e lo ha ampiamente dimostrato, ma nell’ambito di un contesto islamico per approccio e contenuti. E attenzione: essa si rivolge a tutti gli oppressi, indipendentemente da religione o etnia – come evidenziato dall’adesione a essa, che nasce in humus sciita, di sunniti, cristiani, yazidi, etc. – ma necessita la presenza di date categorie mentali e spirituali nelle popolazioni per avere orizzontale diffusione fra di esse. Quelle – appunto – costruite nei secoli dall’Islam. […] Né sarebbe esportabile – parlando dell’Occidente – un “modello” russo che semplicemente non esiste e, se esistesse, sarebbe inapplicabile poiché frutto di altro Grossraum, altro Grande Spazio, come sottolineato con forza a suo tempo da Schmitt e da pensatori e politologi russi contemporanei che parlano invece di eurasismo. […] Concludendo questa lunga discussione, è fatto che siamo al tramonto dell’Occidente, ma non di quello ripetutamente vagheggiato – Grossraum europeo, già da un secolo scomparso – quanto dell’Occidente americano, traboccato nelle terre d’Europa rubandone l’anima, usurpandone l’idea per darsi spessore. […] D’altronde, d’interessi nazionali è impossibile parlare senza consapevolezza di sé, senza visione, senza un collante che tenga tutto insieme. Inattendibile quello nazionale– semmai esistito dietro retorica patriottarda – demolito dalla “morte della patria”. Improbabile quello religioso, ridotto a supposta appartenenza, nella sostanza svanito. Spezzato quello sociale con la fine delle comunità, con una realtà odierna polarizzata fra chi ha e a prescindere pretende sempre di più e chi non ha e ha prospettiva d’avere sempre meno. Smarrito quello culturale, ridotto a partizione fra il delirio supponente del politicamente corretto e il folklore – tendente al becero – di un cosiddetto nazional-popolarismo. Il problema, non solo per l’Italia, è il “dasein”, lo “stare nel mondo” dei popoli europei, svanito con la loro anima avvelenata per generazioni dall’Occidente americano. Ciò che è rimasto sono i cascami di un pensiero unico virato in liberal, avviati a una scomposta deriva auto-distruttiva; è un preteso populismo senza popolo – da tempo scaduto a plebe – che vellica le peggiori pulsioni; è un supposto sovranismo senza sovranità che guarda oltre Atlantico, che fa suoi prassi e miti dell’American Dream. Quadro deprimente e senza sbocco che s’avvita su se stesso in una conflittualità crescente fra chi corre verso la dissoluzione immediata e chi – atterrito – prova a frenare una deriva cui, piaccia o no, appartiene. È passato. Provare a immaginare come si apparecchierà il mondo è esercizio proibitivo, troppe le incognite, variabili e fattori in uno scenario che s’è messo tutto in movimento. Fatto è che l’Occidente americano non avrà più scettro, forzatamente scaduto a ruolo di comprimario, e l’Europa – antica signora già ridotta a serva – pagherà ancora un prezzo molto alto. Per quanto tempo impossibile dirlo, i cicli della Storia sono lunghi. Quali vie prenderanno i popoli del Grossraum già culla di civiltà e imperi? Ritorneranno agli antichi fasti? No. Il passato non torna, quando così appare è farsa, grottesca. Del resto, come saggezza insegna, è del tutto impossibile anticipare i modi in cui i valori a-temporali della Tradizione troveranno modo di inverarsi. Altri saranno dal passato, irrilevabili nel tempo attuale da chi è aduso a categorie che stanno svanendo. Salvo Ardizzone
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21 Ottobre 2023 Da Rassegna di Arianna del 19-10-2023 (N.d.d.) La solitudine del cittadino. Italiano, europeo, contemporaneo. Vorrei sbagliarmi ma siamo piombati nella fase più acuta della solitudine globale di massa. Lo dico avvertendo lo stato d’animo serpeggiante e forse prevalente dei nostri giorni; il clima civile, politico, esistenziale che si respira. E lo dico dopo quel che è successo negli ultimi tre anni. Tre disgrazie hanno funestato il mondo, modificando le nostre teste e arrivando ossessivamente nelle nostre case tramite i media: la pandemia, la guerra in Ucraina e, ora, i genocidi in Israele, più contorno di crisi climatica, crisi economica e flussi migratori. Il mondo esterno è percepito dalla gente come minaccia e terrore, e questo di più sospinge verso la solitudine domestica, ritirandosi dagli spazi pubblici. Da qui una nuova accezione di ius soli: il diritto di essere soli. Tre governi si sono succeduti in questi ultimi tre anni in Italia, in cui tutti sono stati al governo in tutte le formule possibili: sinistra, destra, centro, 5stelle, tecnici, antipolitica e politicanti, fino alla novità assoluta di una donna di destra-destra alla guida del governo. Mai abbiamo così nettamente cambiato scenari politici in così breve tempo ma allo stesso tempo non abbiamo mai cambiato prospettive, linee di fondo e programmi. Viviamo in una specie di mobilità immobile. Ruotiamo vorticosamente restando sempre nello stesso punto. Il disco è rotto, e si ripete all’infinito. E se accendi il video, danno sempre lo stesso film. O devi accontentarti di piccole sfumature. Così, al compiersi del giro di giostra, il risultato principale è che ci sentiamo in totale solitudine. Lontani, estranei, se non ostili al quadro generale e ai suoi punti cardinali. Nessuno sembra rappresentarci e dar voce al nostro pensiero e al nostro sconforto; non ci rispecchiamo, non ci ritroviamo e non ci riconosciamo in nessun riferimento alto, istituzionale, politico, sociale, spirituale; in nessun linguaggio e nessuna retorica mediatico-istituzionale. Non parlo naturalmente della totalità della popolazione, parlo però di una parte significativa, direi la maggioranza, almeno relativa, dei cittadini. Che non si riconoscono nelle figure istituzionali, a partire dalle prime due: questo Papa e questo Presidente della Repubblica, poi i grandi leader internazionali ed europei, quindi la classe politico-parlamentare, i pescecani del grande capitale, questa magistratura. È prematuro dirlo, ma la gente si sente abbandonata anche dal governo in carica, a cui pure ha dato fiducia, ma che appare loro allineato al mainstream e ai percorsi obbligati, a Biden e alla van Der Leyen, alle direttive eurocratiche ed atlantiche, al racconto di sempre e ai suoi feticci passati e presenti. Con realismo non potevamo aspettarci altrimenti, questa è la situazione, questo è il ferreo quadro entro ci muoversi, questi gli uomini. Troppi cittadini sono nauseati dal persistere delle narrazioni dominanti a senso unico che ci vengono propinate dai media pubblici e privati da almeno tre anni a questa parte, dal tempo della pandemia ad oggi, passando per guerre, orientamenti generali, celebrazioni di sempre e allineamenti senza possibilità di divergenza. Se sei contro l’Opinione Prefabbricata, sei bandito e insultato; ma vieni silenziato ed emarginato anche se hai un pensiero più articolato, non appiattito come una sogliola decerebrata sul menu fisso imposto dalla Ditta e nemmeno sul suo contrario. È facile appiattirsi come tappetini al mainstream, recepire tutto passivamente, come carte assorbenti; ma è semplicistico pure attribuire tutto al Grande Complotto, additare il Demiurgo Malvagio, e sbrigarsela dicendo che tutto il male ha una sola fonte. Alla fine la sensazione più diffusa per i cittadini è sentirsi esclusi, non rappresentati dai poteri in carica. Sentirsi largamente fuori dal perimetro del consenso e della legittimazione. Altro che società dell’inclusione. Ci sono ormai due mondi irreparabilmente incomunicanti, nonostante i massicci flussi informativi (a senso unico): un mondo di sopra e un mondo di sotto. Il primo ha linguaggi, rituali, celebrazioni e rappresentazioni che non si rispecchiano affatto nella vita, nelle opinioni, negli umori del mondo inferiore. E questo, fino a qualche tempo fa, dava luogo alla mobilitazione dello scontento, i dissensi s’incanalavano in una direzione, un movimento, una forza d’opposizione, un noi collettivo, un leader, un partito o una coalizione. Ora no, quella percezione di solitudine non trova sbocchi, non si coalizza, non si socializza e non si trasforma in pressione e orientamento. Ha perso fiducia ed energia, vaga inespressa, o resta allo stato latente. Vorrei sbagliarmi, ripeto, o vorrei attribuire questa sensazione a un personale senso di solitudine e scoramento, che spinge ogni giorno di più a chiamarsi fuori, a smettere di dire, lasciare gli spazi pubblici. Ma poi mi accorgo che questo stato d’animo non è personale e non riguarda solo le proprie motivazioni; ma s’intreccia e s’incontra con altre solitudini che compongono oggi la cittadinanza. Una specie di anarchia per necessità, di autarchia per carenza oggettiva di sinergie e aspettative; una specie di solitudine affettiva e percettiva che non trova adeguato riparo nei social e ancor meno nelle forme consuete di socialità. Eppure, anche nella solitudine si avverte un destino corale, diffuso, che riguarda tanti cittadini – italiani, europei, contemporanei. È una solitudine che si allarga per cerchi concentrici: rionale, urbana, metropolitana, nazionale, culturale, religiosa; una specie di migrazione interiore rispetto alla propria città, alla propria religione, alla propria patria, al comune linguaggio. E mentre il mondo di sopra si allontana sempre più, si avvicinano i nuovi barbari, di dentro e di fuori. Marcello Veneziani
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20 Ottobre 2023 Da Comedonchisciotte del 17-10-2023 (N.d.d.) 1. L’ignobile attacco del Sndmae, il cd “sindacato” dei diplomatici italiani, contro Elena Basile, diplomatica andata in pensione con il grado sub apicale di Ministro Plenipotenziario, impone uno sguardo sinottico sulle condizioni sempre più pietose in cui da molto tempo versano la Farnesina e la carriera diplomatica. Vanno premesse alcune precisazioni, per il grande pubblico: alla carriera diplomatica si accede attraverso un concorso pubblico annuale ritenuto più difficile ed ostico di quello per accedere alla magistratura. A tutti gli effetti, il superamento del concorso equivale di per sé ad una laurea in scienze politiche, che è infatti il titolo universitario più frequente tra i diplomatici italiani. Si entra quindi in una carriera simile a quella della magistratura, ma le similitudini iniziano e finiscono qui. 2. Sotto il profilo istituzionale, l’importanza del Ministero della Giustizia e del CSM resta centrale per il nostro Paese. Tutto il contrario per la Farnesina. Non c’è molto da dire: il 90% delle decisioni importanti per la politica estera del nostro Paese vengono ormai notoriamente assunte a Bruxelles, e la competenza per la politica comunitaria è ormai stata integralmente trasferita dalla Farnesina alla Presidenza del Consiglio. I nostri diplomatici hanno ben poco di che lamentarsi, visto che hanno attivamente contribuito allo svuotamento delle competenze del loro Ministero, ormai giustamente trattato da oltre un decennio come un Ministero di terza fascia. D’altronde, quando la nomina a Ministro degli Esteri di un soggetto come Di Maio non viene minimamente protestata, di cosa ci si lamenta, dopo? Hanno sghignazzato proprio tutti, in Europa e nel mondo!!!! 3. Chiunque interloquisca con i magistrati italiani, registrerà una notevole e generalizzata insoddisfazione per le condizioni materiali della funzione (in sintesi, eccessivi carichi di lavoro a fronte di dotazioni amministrative quanto mai carenti), ma non per i meccanismi di scorrimento di carriera ed attribuzione delle sedi. I magistrati, infatti, salvo gravi incidenti di percorso, hanno carriera, stipendio e attribuzione delle sedi automaticamente assicurati per anzianità di servizio. Chiunque parli con i diplomatici italiani (salvi i circa 25 Ambasciatori di grado, ed una ristretta quota di Ministri Plenipotenziari, più che soddisfatta), percepirà invece una enorme e generalizzata insoddisfazione sia per i meccanismi di scorrimento di carriera che di attribuzione delle sedi. Che sia l’una che l’altra siano collegate al merito professionale, è una affermazione trattata off the record da moltissimi diplomatici come una vera e propria barzelletta da avanspettacolo. Gli aneddoti di ogni tipo si sprecano, ed è solo per pietà cristiana che ci asteniamo dal riportarli. Le promozioni dei diplomatici e l’attribuzione delle sedi sono sempre state decise principalmente da sostegni politici; mediati, con la riforma della carriera e degli stipendi di alcuni decenni fa, da uno squallido, noto gruppetto di circa una quindicina di diplomatici che hanno occupato e si palleggiano tra loro le cariche di vertice dell’ amministrazione romana, e che trascorrono il 90% della loro carriera incistati a Roma. Il risultato di tale contesto, per il diplomatico medio, è sotto diversi profili triste e patetico. Nella prima parte della carriera, generalmente con due brevi permanenze a Roma e due periodi di non oltre 7 anni all’estero, il percorso è in definitiva sostenibile e soddisfacente: si gira per il mondo, e c’è una ampia scelta di sedi estere e funzioni. Ma arrivati ai 45-50 anni, la situazione muta radicalmente: primo, le esigenze familiari (in primis, la stabilità e l’educazione dei figli) limitano necessariamente la disponibilità personale per molte sedi estere, e secondo, il quanto mai arbitrario e profondo gap tra promossi e non promossi – l’ordine di precedenza nel sinistro bollettino – aumenta esponenzialmente. Si rischia di finire in una sede periferica difficile, pericolosa o non voluta; o nelle poche grandi Ambasciate, ma con funzioni sostanzialmente secondarie; o di restare a Roma, con competenze nella stragrande maggioranza dei casi derogatorie. Il risultato di tale contesto è un appiattimento ed un servilismo da far paura. Anche gli aneddoti sul folto gruppo di diplomatici che hanno avuto la carriera distrutta o azzoppata si sprecano. Di questi, meno di una decina negli ultimi decenni è stato beccata con le mani nel sacco, ossia condannata per malversazioni di fondi o violazioni di leggi e regolamenti. Il 90% ha invece avuto meri incidenti mediatici, originati da vicende professionali o personali dalle quali sono spesso poi usciti indenni o vincitori, o attacchi mediatici a sfondo politico-sindacale. Vedasi ad esempio il noto caso del diplomatico abbandonato per diversi mesi in un carcere filippino e poi assolto dall’infamante accusa di pedofilia; ma si potrebbero citare molti altri casi. O le decine di diplomatici che, come Consoli, negli ultimi decenni hanno avuto seri problemi con le comunità italiane all’estero, particolarmente in Germania, Svizzera, Francia e Belgio, specie attinenti alla dubbia regolarità della gestione dei fondi statali da parte delle associazioni italiane all’estero. La trama è sempre la stessa, da decenni: un comunicato ostile del Comites (il locale comitato “rappresentativo” degli Italiani all’estero, nonostante venga eletto da un miserrimo 8% medio di votanti tra i residenti all’estero) nei confronti del Console (e dei suoi controlli o provvedimenti), una interrogazione parlamentare politico-sindacale altrettanto ostile, un’ ispezione inviata dal Ministero, un rapporto ispettivo che pur non identificando alcuna irregolarità nella gestione del Console di turno, ne censura il comportamento ostile o conflittuale nei confronti della comunità. Risultato: carriera rovinata. Niente promozione, e sedi o funzioni derogatorie. In buona sostanza, il diplomatico italiano sa che se finisce mediaticamente esposto da una vicenda professionale o personale o da un mero attacco politico-sindacale, finirà con assoluta certezza primo, indifeso ed abbandonato dalla Farnesina, e secondo azzoppato nella carriera. Il risultato – repetita juvant – è un appiattimento e un servilismo da far paura. 4. Di quanto sopra, all’opinione pubblica italiana giustamente interessa molto poco. In fin dei conti, arbitrio e servilismo sono, più che variabili, costanti agevolmente visibili a chiunque in ogni settore della P.A. e della società italiana, e difficili da arginare. Ma il comunicato del Sndmae su Elena Basile riesce a collocarsi molto, ma molto al di sotto di questo livello. Vanno premesse alcune precisazioni: le Ambasciate e Rappresentanze Permanenti italiane nel mondo sono oltre 100. Tutte sono dirette da diplomatici che svolgono funzioni di Ambasciatori. Di questi oltre 100 diplomatici che svolgono funzioni di Ambasciatori, solo circa 25 sono Ambasciatori di grado, gli altri sono diplomatici di grado inferiore, ossia Ministri Plenipotenziari o anche Consiglieri di Ambasciata. La signora Elena Basile, con il grado di Ministro Plenipotenziario, risulta aver regolarmente svolto le funzioni di Ambasciatore in Belgio e in Svezia, per un regolare periodo di circa 4 anni in ognuna delle sedi, per un totale di circa 8 anni. Non ha raggiunto il grado formale di Ambasciatore, riservato appunto a solo circa 25 diplomatici, ma la sua carriera è stata regolare, e fortunatamente priva di incidenti. 5. Come noto, la signora Basile ha espresso opinioni critiche verso la politica della NATO, dell’ Ucraina e di Israele, com’è suo diritto di libera cittadina, ai sensi della Costituzione italiana. Non essendo più in servizio quale dipendente della Farnesina, può dire e scrivere esattamente tutto quello che vuole, e ci mancherebbe solo che così non fosse! Il Sndmae non aveva proprio nessun titolo ad intervenire, ma l’ha fatto, precisando con un comunicato ufficiale che la citata ha “svolto nel corso della sua carriera anche le funzioni pro tempore di Capo Missione in Svezia e Belgio e non è mai stata promossa al grado di Ambasciatrice”. Tale formulazione – incluso l’infame pro tempore – ha intenzionalmente indotto nell’opinione pubblica la quanto mai errata e diffamatoria impressione che la citata fosse una impostora che si è arrogata un titolo improprio. Ed infatti nei titoli e nei testi degli articoli dei giornali, da Repubblica a Il Giornale, Elena Basile, grazie al comunicato del Sndmae, è stata letteralmente linciata con espressioni derogatorie e, sostanzialmente, insulti, quali “presunta” o “pseudo Ambasciatore”, “Ambasciatrice che non lo era”, etc. Con tale vergognoso comunicato, il Sndmae – diretto, ma guarda un po’, da un mero Consigliere (ossia da un diplomatico che se non si comporta bene non verrà promosso Ministro) – non si è quindi semplicemente limitato, come al solito, ad abbandonare al suo destino un esponente della carriera diplomatica mediaticamente esposto, ma lo ha addirittura obiettivamente ed intenzionalmente screditato, inducendo nell’opinione pubblica l’errata impressione che si trattasse di un impostore!!!! Vivissimi complimenti! Felice “difesa della carriera”! 6. Ma non solo! E qui la questione ci concerne tutti: nel suo comunicato ufficiale, il Sndmae si è spinto fino al punto da “stigmatizzare dichiarazioni ed interventi pubblici che gettano un’ombra sulla fedeltà ai valori repubblicani dei membri della carriera stessa, come quelle pronunciate dalla collega, ormai a riposo, Elena Basile“. Sorvolando sul pessimo gusto dell’ “ormai a riposo”, espressione ovviamente mai utilizzata per altri noti diplomatici in pensione che commentano sui nostri media, c’è da non credere ai propri occhi! Esprimere opinioni critiche della Nato, dell’Ucraina e di Israele, per il sindacato rappresentativo della maggioranza dei diplomatici italiani, equivarrebbe a “gettare un’ombra sulla fedeltà ai valori repubblicani”? Ma neanche durante il fascismo!!!! Agli estensori del comunicato andrebbe consegnata una copia della Costituzione italiana, e nella mera versione semplificata per le scuole medie inferiori. E questa gente, secondo voi, dovrebbe difendere l’Italia, la sovranità italiana e gli interessi nazionali? Cosa c’è dietro? C’è – molto semplicemente – l’ormai avanzato processo di colonizzazione del nostro Paese, anche (ma non solo) via dittatura del pensiero unico. Pensate che tale processo sia per caso sfuggito ad almeno una minoranza dei nostri diplomatici? Per nulla, anche all’estero ormai da due decenni sono ormai ridotti ad eseguire gli ordini dei burocrati delle Rappresentanze estere dell’UE! Dal comunicato del Sndmae, sembra che i nostri diplomatici – bontà loro – si illudano di essere una categoria necessaria ad assicurare il definitivo successo della colonizzazione del nostro Paese. Ci tengono al loro privilegiato strapuntino, per quanto sempre meno comodo e sempre meno rilevante. Ma è proprio qui che si sbagliano, come se la crisi del ruolo della Farnesina e delle loro competenze reali non fosse già stata più che sufficiente: ne usciranno sempre più a pezzi anche loro, è solo ed esclusivamente una questione di tempo. È da parecchio che il cittadino dell’UE che paga le tasse se lo domanda: ma a cosa servono 27 Ministeri degli Esteri e 27 separate reti diplomatiche estere, quando la politica estera viene ormai quasi integralmente decisa a Bruxelles? A meno di niente: il servizio diplomatico europeo ormai bussa alle porte, ed è più che ovvio che sarebbe necessaria una drastica ed esponenziale riduzione degli ipertrofici, inutili organici attuali di 27 Ministeri degli Esteri e di 27 separate reti diplomatiche estere. Ma anche nell’ipotesi negativa, comunque le competenze reali dei Ministeri degli Esteri nazionali dell’UE appaiono destinate a subire un ulteriore e costante ridimensionamento, con stanziamenti finanziari sempre più ridotti. E se chi non concorda con tale processo, risulterebbe mettere in dubbio la “fedeltà ai valori repubblicani”, a maggior ragione proprio nessuno alzerà un dito… Non resta quindi che augurargli: buona fortuna!!! Y que Dios los ayude!!! Alice Talleri
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Sovranismo senza nazionalismo |
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18 Ottobre 2023 Da Comedonchisciotte del 15-10-2023 (N.d.d.) “Uno spettro s’aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro”. Così iniziava il Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels del 1848. Oggi, gli spettri che si aggirano per l’Europa sono diventati due: il sovranismo e il populismo. E, comunque, l’Europa è sempre impegnata nella sua santa battuta di caccia. Non è più l’Europa di “papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi”, come recitava il Manifesto, ma è l’Europa dei mercati, delle banche e del capitale, di Draghi, di Trichet, di Junker, della Lagarde, di Gentiloni, dei media compiacenti e degli intellettuali acquiescenti, dell’europeismo acritico e del neoliberismo imperante. Occorre rompere, non per polemica politica ma per onestà intellettuale, questa coltre di conformismo e porsi qualche interrogativo, farsi venire qualche dubbio, riflettere sulle parole che si usano e passare dal pensiero unico al pensiero critico, che poi è l’unica forma di pensare degna di questo nome. Un contributo importante per muoversi in questa direzione lo ha dato Gabriele Segre in un recentissimo articolo sul quotidiano Domani. Due premesse. Primo punto. Segre si occupa solo di sovranismo e dei suoi rapporti con il nazionalismo. Dell’altro spettro, quello del populismo, ce ne occuperemo in futuro. Secondo punto, è significativo che un articolo come quello di Segre venga pubblicato su un organo di stampa espressione dell’establishment e (molto) vicino al PD. Vuole dire che qualcosa si sta muovendo, sta a noi contribuire a questo confronto, animandolo e indirizzandolo nella direzione più opportuna. L’atteggiamento di schifio verso tutto ciò che non è ‘puro e incontaminato’ porta solo all’isolamento e alla autoreferenzialità. Il testo, che consigliamo comunque di leggere direttamente, si articola in quattro passaggi logici stringenti. Segre parte dalla vittoria di Robert Fico alle elezioni in Slovacchia del 1° ottobre 2023. Leader nazionalista, sovranista e critico (usiamo un eufemismo) su diritti civili, appoggio all’Ucraina e immigrazione. Insomma, un vero fascista direbbe Elly Schlein. Peccato che Fico non sia un fascista: è stato membro del Partito comunista, successivamente ha aderito al Partito della sinistra democratica per poi fondare un suo Partito socialdemocratico. Quindi è uomo di sinistra. Di sinistra e sovranista. Strano, ma vero. Questo scenario ci dice Segre “ci impone di separare i due termini (…) nazionalismo e sovranismo non rappresentano più sinonimi perfetti”. La ragione di questa “condizione di separazione” – così la definisce efficacemente – è dovuta al fatto che “sempre di più governi ‘patrioti’, eletti con la promessa di fare della propria nazione una ‘fortezza inespugnabile’ all’urto di epocali invasioni demografiche, economiche e militari si accorgono che erigere mura non serve a niente (…) La dimensione della nazione sembra oggi essere troppo ristretta per riuscire a proporre risposte efficaci a problemi che si proiettano su scala planetaria”. E qui Segre si avvicina al punto focale, tanto chiaro quanto discutibile, della sua argomentazione quando afferma “che lo Stato nazione sia una istituzione ‘superabile’ in un mondo globalizzato lo avevano già intuito i firmatari del Manifesto di Ventotene nel 1941”. Purtroppo, ci sono due piccoli particolari che non quadrano. Primo, molto semplicemente, nel 1941 il processo di globalizzazione come oggi noi lo conosciamo non esisteva. Anzi, tre anni dopo, nel 1944, le grandi potenze internazionali firmarono gli accordi di Bretton Woods che erano proprio finalizzati a contenere i flussi di capitali oltre i confini nazionali. Secondo, i firmatari del Manifesto di Ventotene, con tutto il rispetto per gli illustri antifascisti, non erano i Padri costituenti; ed è invece alla Carta costituzionale, la nostra legge fondamentale, che noi dobbiamo far riferimento. Qui Segre prende atto realisticamente che siamo ancor lontani – per fortuna diciamo noi – dall’utopia di una Europa federale e “forse ci troviamo più prossimi a riconoscere il bisogno di nuove dimensioni di sovranità, immaginate al di là delle frontiere tradizionali. Disgiungere nel nostro lessico il sovranismo dal nazionalismo può rappresentare una tappa di questo cammino”. Ecco l’interrogativo fondamentale, meritoriamente sollevato da Gabriele Segre: può esserci sovranismo senza nazionalismo? Può esserci una qualche forma di sovranità che prescinde dai confini e dalle identità nazionali? Andando al cuore del problema, siamo sicuri che una ferma rivendicazione della sovranità degli Stati nazionali non sia nei fatti l’unica risposta adeguata al disegno di federalismo coercitivo e quindi antidemocratico che, dalla crisi finanziaria in poi, l’Unione Europea sta perseguendo con sempre maggiore arroganza e determinazione? La risposta a questi interrogativi la dà Segre, con invidiabile chiarezza, nel successivo capoverso, che vi invito a leggere con grande attenzione perché dice cose importanti. “Abitiamo in un mondo dominato da un limitante sentimento di necessità, dalla logica inappellabile, del ‘non c’è alternativa’, da scelte che trascendono la politica nel definire alleanze vincolanti e coercizioni finanziarie”. Perfetto. Parole bellissime che io condivido totalmente e che portano a una logica conclusione: un sovranismo non nazionalista consiste, anzitutto, nel proporre ed attuare politiche che limitino drasticamente quella rete di vincoli e di interdipendenze che riducono l’indipendenza e l’autonomia degli Stati nazionali. In altri termini, va eliminato quel limitante senso di necessità – che il grande giurista Hans Kelsen chiamava la “forza normativa del fattuale” – che ha ridotto, se non annullato, lo spazio della decisione politica, intesa come scelta tra alternative. Per questo “la ‘questione sovranista’ va posta, con valide ragioni, al centro del dibattito sul futuro delle nostre società”. Questo invito va assolutamente accolto, soprattutto da chi crede, come il sottoscritto e a differenza di Gabriele Segre, che attualmente solo all’interno degli Stati nazionali possano esserci sia vera democrazia che adeguati contrappesi al neoliberismo. Per concludere, Gabriele Segre sdogana il sovranismo dall’ostracismo aprioristico ed ottuso a cui il dibattito politico corrente lo ha condannato. È un passo importante. Infatti, così facendo ci insegna che i cittadini, se lo vogliono, possono ridefinire il significato delle parole e diventare “sovrani del proprio avvenire anziché sudditi di un inevitabile destino”. E questa è democrazia. Luca Lanzalaco
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