5 Febbraio 2024 Da Rassegna di Arianna del 3-2-2024 (N.d.d.) Per chi non ne avesse mai sentito parlare, è d’obbligo una spiegazione. «Formiche» è una rivista mensile che tratta di questioni politiche, economiche e sociali con articoli piuttosto brevi affidati a una larga rosa di specialisti e personalità pubbliche di varia nazionalità ed è collegata a un sito che ospita commenti alle notizie di attualità e interviste. Chi scrive è stato più volte fra gli interpellati. I nomi dei collaboratori illustri non mancano. L’impostazione è dichiaratamente occidentalista, con un occhio di riguardo per la Nato e l’Unione Europea, una vigorosa linea antirussa e anticinese, un interesse acuto per le innovazioni tecnologiche e le loro ricadute – soprattutto geopolitiche. Di solito, i toni di chi interviene sulle sue colonne sono pacati e improntati a un umanismo che, a seconda delle firme, oscilla fra un cattolicesimo alla Comunione e liberazione d’antan e un approccio laico-moderato. I suoi animatori vengono dalla scuola politica del centrismo e, quel che più conta, hanno rapporti eccellenti con gli esponenti più in vista della galassia dei “poteri forti”; un articolo ben informato di una dozzina di anni fa ne enumerava alcuni – Ettore Gotti Tedeschi, Luigi Abete, Francesco Profumo, Corrado Passera –, ma nel frattempo la cerchia si è certamente allargata, a giudicare dalla copiosa messe di sigle importanti (Eni, Enel, Simest, Mundys, Open fiber, Gentili, Conai, Isybank, Tim, Sace) che rende le pagine del periodico «scoppiettanti di pubblicità». Dovrebbero bastare questi dati per rendersi conto che stiamo parlando di un organo di stampa che non ha il semplice obiettivo di raccogliere un certo numero di abbonati, ma è fra quelli che sono destinati a scopi più ambiziosi, sono letti dalla “gente che conta” e servono a far circolare opinioni destinate ad entrare nel mainstream, a dar corpo ad ipotesi, linee di lettura, suggerimenti che altri, insediati a vario titolo in ambiti decisionali, potrebbero trasformare in atti. Insomma, più che una rivista, il canale di espressione di un think tank, e non di quelli secondari. È per questo motivo che ci hanno destato un particolare interesse – e alcune preoccupazioni – il dossier che occupa la prima parte del numero di novembre 2023 del mensile in questione, dal significativo titolo L’orrore di Hamas oltre i confini di Israele, e soprattutto l’anonimo, e quindi redazionale, editoriale Si vis pacem para bellum. Due tasselli di un mosaico politico-ideologico-informativo che, con l’ausilio di molti altri soggetti rilevanti, comincia a disegnare con maggiore franchezza che in passato la direzione di rotta che la potenza planetaria egemone e i suoi alleati-vassalli hanno deciso di intraprendere in vista delle prossime puntate di quella “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” che ormai non è soltanto Papa Francesco a dare per iniziata. L’avvio della discussione affidato ad Antonio Tajani, a onor del vero, parrebbe dimostrare il contrario di quanto abbiamo appena asserito, con l’auspicio del ministro degli esteri che il G7 possa ispirare il proprio operato a «una ritessitura e verso migliori forme di dialogo e cooperazione tra contesti regionali diversi e plurali» e che l’Occidente abbia «capacità di ascolto verso i partner globali, rispettare le differenze e ricercare insieme soluzioni condivise, attraverso un dialogo strutturato e fattivo», perché «il metodo inclusivo del dialogo è l’unico che possa portare a risultati». Quando la messa è finita, però, il coro cambia musica, e i “partner globali” tornano ad essere semplici nemici. Se infatti in teoria l’attenzione dovrebbe concentrarsi su Hamas e il Medio Oriente, alla quasi totalità degli intervenienti interessa tutt’altro: proseguire nella demonizzazione della Russia e nella affabulazione della sua aggressività imperialista, nell’esaltazione della Nato (che, ci assicura un generale, «non deve gettare via il capitale di capacità e strutture faticosamente costruire in vent’anni di guerra globale contro il terrorismo [ah sì? Dove? In Iraq? In Libia? O…? n.d.r.] nel nome di un ritorno al convenzionale»), individuare il “pericolo giallo” cinese dietro ogni vicenda internazionale e di conseguenza allarmare sulla sua minaccia, esaltare la «marcia inarrestabile di avvicinamento strategico all’occidente» di un’India che accentui l’ostilità verso il Dragone Rosso (per fare il gioco dell’egemonia statunitense – ma questo l’ex sottosegretario Vernetti si guarda dal dichiararlo) e ribadire l’insidia di un “Sud globale” non allineato ai valori e agli interessi di Washington. Spicca, in questo quadro, il consueto oltranzismo mistificatore di Carlo Pelanda, capace di scrivere che «la Cina ha reagito sollecitando riservatamente l’Iran ad aizzare i suoi proxy Hamas e Hezbollah» [diamine! Che informatori formidabili deve avere l’«illuminista futurizzante» (autodefinizione) per essere al corrente di notizie a lui solo note] contro Israele affinché la reazione di questa impedisse all’Arabia di siglare un accordo con Israele stessa che definiva Haifa come terminale mediterraneo della via del cotone». Ma anche Carlo Jean ci mette del suo quando, prevedendo ciò che da settimane sta accadendo («un attacco terrestre che provocherà decine di migliaia di morti palestinesi» e sottoscrivendolo, scrive che «prioritario è il ripristino di un certo grado di dissuasione [ah, l’arte dell’eufemismo…, n.d.r.], anche ai fini del consenso di qualsiasi futuro governo israeliano. Israele, in particolare, non può essere limitato nella sua reazione dal ricatto degli ostaggi. […] Non può permettersi di perdere tempo anche perché il sostegno dell’opinione pubblica interna e internazionale è destinato inevitabilmente a diminuire. Non può cedere a ricatti». Stanti premesse di questo tenore, non c’è da sorprendersi – anche se indignarsene è lecito – che l’editoriale di un foglio che si fa portavoce di un così aggressivo occidentalismo esprima, in modo sintetico e con un finale pirotecnico, quella che non è banalmente la linea di un gruppo editoriale ma la direttrice di marcia di un conglomerato politico-economico che si è ormai convinto di non poter perseguire fino infondo i suoi scopi senza ricorrere (di nuovo) allo strumento bellico. Leggiamo quindi che «l’attacco terroristico di Hamas contro Israele non è stato e non è la riapertura del conflitto Israelo-palestinese. È, ahinoi, un altro pezzo della terza guerra mondiale denunciata da Papa Francesco. Vi è un blocco di potenze – Cina, Russia e Iran – che ha scelto di sfidare l’ordine globale determinato dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale [ sic: che dai tempi delle conferenze di Yalta e Potsdam ci sia stato qualche elemento di variazione di quell’«ordine mondiale» deve essere sfuggito all’attenzione dell’anonimo scrivano]. E di seguito, continuando nella mistificazione della realtà ad usum Occidentis: «La posta in gioco, ancora una volta, sono i valori della libertà e della democrazia. Per troppo tempo ci siamo illusi che la vittoria della Seconda guerra mondiale prima, e della Guerra fredda poi, avessero consegnato un mondo sostanzialmente stabile, dominato dall’interesse economico della globalizzazione. Non poteva essere commesso errore più grande. Adesso, si vede con chiarezza quel tragico filo rosso che lega i regimi totalitari e che li porta a destabilizzare aree geografiche peraltro tutte attorno all’Europa. I Balcani potrebbero essere la prossima regione a subire l’influenza di Putin. In Serbia il fuoco sembra covare sotto la cenere. Non è un caso. La coalizione dei cattivi [questa ci mancava, dai tempi dell’Asse del Male. Un aggiornamento lessicale ci voleva]» ha colto la debolezza dell’occidente e ne sta approfittando». Sin qui, siamo alla solita retorica fondata su una falsa e vittimistica rappresentazione degli eventi che tutti i media mainstream ci stanno somministrando da decenni, e con un particolare vigore dal giorno dell’attacco russo all’Ucraina, spacciato per la prima mossa di un fantasmagorico piano putiniano di ricostruzione dell’Impero sovietico e/o zarista invece che come la reazione ad un accerchiamento militare che aveva negli Usa il mandante e nel governo di Kiev la testa di ponte più avanzata. Ma è la chiusa del pezzo a regalarci qualcosa di più. Dopo aver deplorato che gli Stati Uniti non siano già scesi in campo militarmente contro la Russia nel 2014 per la vicenda della Crimea, l’editorialista ci ricorda che «il concetto di deterrenza si basa sulle capacità militari disponibili e sulla volontà (e credibilità) di utilizzarle. È attraverso la deterrenza che l’occidente ha vinto la Guerra fredda ed è la sconfitta della deterrenza (per mancanza di volontà, non di mezzi) che ha favorito l’inizio della terza guerra mondiale a pezzi che oggi si dispiega sotto i nostri occhi. Siamo disposti a morire per difendere la nostra libertà, che è poi la stessa libertà degli ucraini e degli israeliani? Se la risposta sono le sanzioni economiche e l’invio di armi, c’è da temere che il fronte del male si allarghi ancora». Avete capito bene. Siamo arrivati all’invocazione della guerra aperta. Non bastano più le infusioni di denaro e di armi, il sostegno satellitare e strategico, la condanna al massacro di popolazioni ed eserciti altrui usati come carne da cannone per conflitti sostenuti per procura. Non basta neanche il martellamento mediatico che a suon di propaganda, omissioni e falsificazioni sta sforzandosi di lavare i cervelli di centinaia di milioni di persone ormai, salvo casi rarissimi, assoggettati ad una macchina del consenso che non ha nulla da invidiare – ed anzi gode di una formidabile superiorità tecnologica al loro confronto – ai regimi totalitari. Non basta la cancellazione di ogni limite di indecenza etica che porta politici, intellettuali, giornalisti volontariamente asserviti alla potenza oggi egemone a giustificare lo sterminio (“impersonale”, è arrivato a sostenere qualcuno) di decine di migliaia di civili innocenti compiuto dall’esercito israeliano come una “legittima” reazione alla strage compiuta da Hamas, tacciando ipocritamente di antisemitismo chi lo condanna. No, non è sufficiente. Ora è alle viste una vera e propria campagna interventista. Morire per Kiev. Morire per Tel Aviv. Morire, soprattutto, per Washington. Si dirà che non bisogna dare troppo credito a questi Stranamore in sedicesimo. Che sono, appunto, formiche. Insetti, presenze trascurabili. Magari fosse così. Sarebbe invece errato sottovalutarli. Non sono altro che avanguardie mandate in avanscoperta per sondare il grado di reazione dell’opinione pubblica al progetto che in luoghi assai più temibili si sta coltivando, ma dietro di loro a prepararsi è il grosso delle truppe, non solo metaforiche. Da tempo, ormai – soprattutto da quando, nel 2017, l’ascesa della potenza del gigante asiatico ha portato l’amministrazione Usa, allora guidata da Trump, a dichiarare la Cina «nemico sistemico» – la Terza guerra mondiale, quella vera e intera, è in incubazione. E può contare, in Europa, sul sostegno di un fronte ampio e composito, che sul piano politico coinvolge governi e partiti di destra, di sinistra, di centro. Può dispiacere a qualche inguaribile romantico constatare che, su quel versante, si siano schierati persino i pronipoti di chi in un’altra epoca proclamava la «guerra del sangue contro l’oro», ma non c’è di che stupirsene. Occorre, invece, battersi contro questa follia. Cercare di infilare nell’ingranaggio belligeno dell’occidentalismo anche il fatidico minuscolo granello di sabbia. È l’unica via di uscita che ci rimane. Altre non ne esistono. Marco Tarchi
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La locomotiva tedesca è deragliata |
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4 Febbraio 2024 Da Rassegna di Arianna del 21-1-2024 (N.d.d.) […] Il crollo della potenza tedesca è stato causato dal venir meno dei fattori che ne hanno consentito l’ascesa: la fine delle importazioni di gas russo a basso costo, il drastico ridimensionamento dell’export verso la Cina, il declino della sua leadership nella UE che, attraverso l’adozione dell’euro (rivelatosi un marco svalutato), ha reso l’economia tedesca competitiva nel mondo, la devoluzione della propria sicurezza alla Nato, che ha consentito alla Germania di essere esentata dalle spese relative alla difesa. Il modello Merkel, basato sulla potenza economica della Germania, non dotata però di soggettività nell’ambito geopolitico, si è dissolto. Kissinger definiva la Germania “un prodotto interno lordo in cerca di strategia”. Ed è proprio questa deriva post – storica della Germania, perpetuatasi dal ’45 in poi, la causa della sua stessa disfatta economica. Gli USA infatti non hanno mai tollerato l’emergere di una potenza concorrente nel contesto occidentale. Il modello Merkel concepiva la Germania come un paese artificiale, quale soggetto terminale delle catene di valore della produzione delocalizzata nell’est europeo e nel mondo, con la devoluzione alla manodopera immigrata a basso costo delle mansioni lavorative meno specializzate, con una leadership nella UE conseguita mediante il cambio fisso determinatosi con l’unificazione monetaria e con l’imposizione di politiche di austerity ai paesi europei più deboli, secondo quanto previsto dal patto di stabilità. La Germania ha trasformato l’Europa in un modello di ingegneria sociale e finanziaria privo di strategia e avulso dalla geopolitica mondiale. Il modello Merkel avrebbe reso i tedeschi un popolo di rentier finanziari, delegando la produzione (anche quella ad alto livello tecnologico), ai paesi subalterni: una grande Svizzera senza alcuna identità culturale, sradicata dalla sua storia e con la devoluzione della sua sovranità politica alla Nato nel contesto internazionale. Assai rilevanti furono gli errori commessi dai governi della Grosse Koalition nel settore dell’approvvigionamento energetico. Dopo la rinuncia al nucleare, si è largamente accentuata la dipendenza della Germania dal gas naturale russo. Con la distruzione dei gasdotti Nord Stream 1 e 2, la Germania è ormai dipendente dalle forniture di gas liquefatto dagli USA, con costi di gran lunga superiori rispetto al gas russo. La Germania inoltre, così come tutta l’Europa, oltre ad essere afflitta da una grave crisi di competitività a causa dei rincari energetici, subisce l’aggressività della politica protezionista degli USA che, mediante gli incentivi e gli sconti fiscali previsti dall’Inflation Reduction Act del 2022 (IRA), hanno generato un processo di delocalizzazione industriale progressivo dalla UE agli USA. Colossi industriali quali la Basf, la Bayer, la Volkswagen, la BMV e la Mercedes – Benz, hanno programmato investimenti negli USA (oltre che in Cina), incentivati dai ridotti costi energetici, dai sussidi pubblici e dagli sconti fiscali. La subalternità tedesca ed europea agli USA è evidente. Afferma Giacomo Gabellini in un articolo dal titolo “Il crepuscolo economico della Germania (e dell’Europa)” pubblicato il 14/07/2023 su “l’Anti Diplomatico”: “Agli occhi degli studiosi dell’Iw, la situazione appare talmente critica da indurli a parlare di «inizio della deindustrializzazione» della Germania e dell’Unione Europea nel suo complesso. Per la quale il crollo dell’export si combina all’incremento delle spese per il pagamento degli onerosissimi approvvigionamenti energetici statunitensi, il sovvenzionamento dell’energia ad imprese e famiglie e la ricostituzione dei depositi di armi svuotati dalle consegne a fondo perduto all’Ucraina, da realizzare in larghissima parte mediante l’acquisto di sistemi d’arma fabbricati dal “complesso militar-industriale” Usa. I quali, come contropartita, sembrano orientati a concedere alla società tedesca Rheinmetall il placet per la produzione di componenti degli F-35 presso un nuovo stabilimento da oltre 400 dipendenti che dovrebbe sorgere nelle vicinanze dell’aeroporto di Weeze, nel distretto di Kleve. Un esempio lampante dei tanti “scambi ineguali” di respiro transatlantico a cui nel corso degli ultimi tempi l’Unione Europea va piegandosi sempre più spesso. Al punto da indurre un think-tank “insospettabile” come l’European Council on Foreign Relations a parlare di “arte (europea) del vassallaggio” e di “americanizzazione dell’Europa”, chiamata da Washington non sono a recidere la vitale arteria energetica con la Russia, ma anche a «sostenere la politica industriale degli Stati Uniti e contribuire a garantire il dominio tecnologico americano nei confronti della Cina […] circoscrivendo le relazioni economiche con la Repubblica Popolare Cinese in base alle limitazioni imposte dagli Usa»”. La potenza tedesca, oltre che una nullità geopolitica, si è rivelata un bluff anche nell’economia. I governi tedeschi hanno occultato per oltre 20 anni il reale debito pubblico ed il deficit di bilancio federale. Come dichiarato dalla Corte dei conti, i governi hanno istituito ben 29 fondi speciali extra bilancio per un ammontare complessivo di 870 miliardi di euro. Al di là dello scalpore mediatico suscitato dalla istanza giudiziaria della Bundesrechnungshof, gli artifici contabili cui hanno fatto ricorso periodicamente i governi tedeschi erano ben noti. Si pensi alla erogazione di fondi stanziati fuori bilancio per oltre 400 miliardi per il salvataggio del settore bancario all’indomani della crisi del 2008, con la complicità servile della UE (che consentì l’adozione di tale misura, consistente in quegli aiuti di stato che sono stati puntualmente sanzionati dalla Germania nei confronti dell’Italia e altri paesi), all’azione svolta dalla Kreditanstalt für Wiederaufbau (KFW – l’equivalente della Cassa Depositi e Prestiti in Germania), per il sostegno delle imprese nella fase post pandemica per 200 miliardi (operazione di gigantesco dumping industriale e finanziario ai danni degli altri paesi membri della UE), e allo stesso programma di riarmo della Germania per 100 miliardi, imputato ad un fondo speciale extra bilancio. Lo stesso boom dell’export tedesco è stato realizzato in aperta violazione delle normative europee riguardanti i limiti prescritti per i surplus commerciali interni alla UE. Ma, come è noto, il modello economico – finanziario della UE, impostato sull’export e sul rigore finanziario, si è rivelato un gioco a somma zero: allo sviluppo di alcuni paesi ha corrisposto la recessione degli altri. Il settore bancario tedesco versa in una crisi strutturale resasi nel tempo insolubile. Le banche tedesche (in particolare la Deutsche Bank), sin dalla crisi del 2008 detengono in portafoglio miliardi di titoli – spazzatura. Gli organismi di controllo europei preposti alla vigilanza della solidità patrimoniale del sistema bancario dei paesi della UE, hanno tuttavia assunto nei confronti delle banche tedesche un atteggiamento di colpevole ignavia, adottando invece un atteggiamento di rigore tutto teutonico nella revisione dei bilanci delle banche italiane. Riguardo alla Bundesbank le prospettive sono addirittura tragiche. La Bundesbank, che dispone in portafoglio di miliardi di titoli emessi a seguito del QE a rendimenti zero, deve oggi praticare elevati tassi di interesse per la raccolta dei mezzi finanziari, riportando rilevanti perdite nel conto economico. Le perdite dovute alle minusvalenze generate dalla svalutazione dei titoli in portafoglio tuttavia non figurano in bilancio. […] E che dire del rigore morale sul debito degli stati vantato dalla Merkel e dal suo non compianto ministro dell’economia Schäubler , che hanno imposto nella UE una immagine virtuosa della Germania quale leader europeo dei “paesi frugali”, contrapposti a quelli mediterranei, esposti al pubblico dispregio quali paesi di genetici fancazzisti e irredimibili parassiti dediti alla prodigalità sfrenata? In realtà la Germania ha imposto in Europa un moralismo laico di stampo razzista – finanziario basato su di una doppia morale, consistente in pubbliche virtù di immagine e vizi privati inconfessabili. I governi tedeschi, oltre ad essere responsabili di falso in bilancio nei conti pubblici, si sono resi complici occulti di grandi scandali: 1) il caso Siemens, il colosso tedesco che avrebbe pagato tangenti milionarie ai politici ellenici, per l’acquisto di armi e carri armati. 2) lo scandalo delle emissioni della Volkswagen USA, una frode, volta a far approvare l’immissione sul mercato di auto le cui emissioni nocive erano di gran lunga superiori a quelle consentite per legge. 3) quelli della Deutsche Bank resasi responsabile di una serie di scandali negli USA, iniziata nel 2015 con il caso della manipolazione fraudolenta del Libor (il tasso di riferimento sui mutui immobiliari), proseguita poi con il riciclaggio di denaro sporco proveniente dalla Russia e la violazione degli embarghi degli Stati Uniti nei confronti di Iraq, Siria e altri “stati canaglia”. È dunque giunta l’ora della finis Germania? È del tutto probabile. Per quanto riguarda la UE è invece insensato intonare il De Profundis. Non si possono infatti celebrare le esequie in suffragio di qualcuno che non è mai esistito. La locomotiva tedesca è deragliata trascinando con sé tutta l’Europa. La crisi economica tedesca è strutturale e le tensioni sociali non potranno che accentuarsi. Sono del tutto evidenti le conseguenze fallimentari sul piano sociale del modello economico – finanziario europeo, in termini di diseguaglianze, distruzione del welfare, denatalità in crescita esponenziale e mancanza di prospettive per il futuro delle giovani generazioni, con la progressiva scomparsa del ceto medio e della piccola e media impresa. Le istituzioni democratiche evidenziano un allarmante deficit di consenso e di rappresentatività popolare. La crisi tedesca potrebbe incidere, oltre che sulla tenuta degli equilibri sociali, anche sulla sussistenza della unità nazionale, già erosa dalla frattura mai sanata tra l’ovest (ex BDR) e l’est (ex DDR) e soprattutto dal regionalismo sempre più aggressivo degli egoismi locali a danno delle istituzioni federali. La stessa struttura gerarchica piramidale tra Nord e Sud consolidatasi nella UE, si è riprodotta all’interno della Germania, tra i länder economicamente opulenti dell’ovest e i länder più arretrati dell’est. Tale crisi rappresenta l’esito conclusivo del ciclo di sviluppo del sistema neoliberista anglosassone (con la variante ordoliberista tedesca), che ha condotto fatalmente alla dissoluzione degli stati, dei popoli e delle culture identitarie. La post – modernità poi sta generando la scomparsa dell’individuo stesso, già archetipo dell’ideologia liberale, attraverso i suoi progetti transumanisti. La fine della post – modernità capitalista è ormai prossima, con la decomposizione progressiva del capitalismo stesso. Luigi Tedeschi
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L'arte incomprensibile della modernità terminale |
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1 Febbraio 2024 Da Rassegna di Arianna del 28-1-2024 (N.d.d.) Dopo anni di assenza, il vostro scrivano ha trascorso qualche ora nella città di Prato, culla della famiglia paterna. Abbiamo rivisto l’imponente scultura in marmo che caratterizza la piazza San Marco della città toscana, ricordando le battute, le prese in giro rivolte alla grande struttura, il cui nome è Forma squadrata con taglio, che la gente, con arguzia toscana, chiama “il Buco”. E un buco sembra, in effetti, realizzato dall’artista inglese Henry Moore. Si dice – parola di Wikipedia, il vangelo online – che i pratesi l’abbiano voluta ( è lì dal 1974) per simboleggiare, in contrasto con la vicina Firenze, l’identità cittadina, orientata alla modernità e al progresso. Da allora purtroppo la vocazione tessile di Prato si è alquanto affievolita, ma il Buco è ancora al suo posto. Stando alle interpretazioni correnti, esso potrebbe rappresentare la vertebra di un gigantesco animale preistorico, forata al centro, o la porta di accesso alla modernità, in sostituzione dell’antica Porta San Marco, abbattuta un secolo fa per fare posto alla tranvia. Fatto sta che nessuno è in grado di decifrare il vero significato dell’opera, se ne ha uno. Senza scomodare il David di Michelangelo di Firenze, detto il gigante nella città del giglio, il cui significato e incanto senza tempo sono chiarissimi a tutti, nella stessa Prato vi è un’altra scultura famosa, benché non solo per motivi artistici. È la statua di Francesco Datini, mercante del secolo XIV, considerato l’inventore della cambiale. Tiene in mano un cartiglio che secondo i concittadini è appunto una cambiale. L’opera, voluta dai maggiorenti della Prato di fine Ottocento, pionieri dell’industria laniera, mostra la vocazione innovativa della città, mercantile e produttiva. Insomma, si fa capire, a differenza del Buco del pur celebrato Moore . L’episodio, al di là dell’ imperizia di chi scrive, è la prova dell’incomprensibilità di buona parte dell’arte contemporanea. La scultura ( o meglio, le “installazioni” che spesso ne prendono il nome) e la pittura, compresi veri e propri scarabocchi su tela, sono le arti più colpite da questa sorta di esoterico mistero, per quanto non ne siano esenti la musica e perfino la letteratura. Ne è prova la lirica di un altro toscano, Aldo Palazzeschi, E lasciatemi divertire (1910), scritta per prendersi gioco della letteratura paludata del suo tempo. “Tri, tri tri. Fru fru fru,uhi uhi uhi, ihu ihu, ihu. Il poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente. Non lo state a insolentire, lasciatelo divertire poveretto, queste piccole corbellerie sono il suo diletto. Cucù rurù, rurù cucù, cuccuccurucù! Cosa sono queste indecenze? Queste strofe bisbetiche? Licenze, licenze, licenze poetiche.” L’arte, secondo Benedetto Croce, è intuizione lirica compiutamente espressa. Dunque, un linguaggio in grado di arrivare immediatamente al pubblico e di essere compreso. Non è così per gran parte di ciò che i sapienti oggi chiamano arte. Talvolta, si oltrepassa l’idiozia e l’inganno ai danni del pubblico. Nel bellissimo Gli schiavi felici della libertà ( Passaggio al Bosco, 2023) lo spagnolo Javier Rùiz Portella racconta di un comico episodio a margine di un’importante mostra di arte contemporanea tenuta a Madrid. Una giornalista riuscì ad esporre in mezzo gli altri un “dipinto” imbrattato per gioco da bambini di tre anni. Tra i commenti da lei raccolti, uno percepiva “angoscia e tristezza”, un altro sottolineava “le molteplici sottigliezze e correnti” del quadro. Un terzo lo ha descritto come “un dipinto complesso, con molta meditazione dietro, l’opera di un pittore con molta esperienza”. I commentatori più profondi apportarono la loro dotta opinione: chi percepiva “la disperazione di cercare una nuova strada”, chi affermava che si trattava di “un’opera di un uomo di una certa età con una grandissima carica erotica repressa”. Basta questa esperienza per dimostrare che l’arte astratta è molto spesso spazzatura utile solo a mostrare le altissime vette di idiozia a cui può ascendere l’Homo sapiens nonché quanto sia facile prendersi gioco di lui. Più egli si considera colto, più è facile. […] Nel 1910 lo scrittore Roland Dorgelès, nemico della nascente arte astratta, ebbe l’idea di legare un pennello alla coda di Lolo, un somarello, per vedere cosa poteva fare l’animale con una tela, stimolando la sua ispirazione con le carote, il tutto davanti a un notaio. Presentato il “dipinto”, Tramonto sull’Adriatico, firmato da un inesistente Boronali (anagramma di Aliboron, nome poetico dell’asino) insieme ad un “Manifesto dell’eccessivismo”, i critici scrissero pensosi articoli sull’opera del ciuchino, sulla sua filosofia trasgressiva, la tecnica raffinata, il suo messaggio nascosto, il suo brillante autore. Quando Dorgelès rivelò la burla, qualcuno ebbe il coraggio di mettere in dubbio la legittimità delle risate. Il mondo artistico è una fonte inesauribile di saccenteria e sciocchezze. Le opere d’arte gettate nella spazzatura perché considerate tali dal malcapitato personale di servizio rallegrano di tanto in tanto i giornali. Un caso divertente è stato quello di Dove balliamo stasera? una raccolta di bottiglie, carte e altri rifiuti installate dalle artiste d’avanguardia Sara Goldschmied ed Eleonora Chiari in un museo milanese, deposti nell’immondizia dall’addetta alle pulizie. Quando le artiste si lamentarono scandalizzate, Vittorio Sgarbi difese la lavoratrice affermando che “se aveva pensato che fosse spazzatura, ciò dimostrava che lo era. L’arte dovrebbe essere compresa da chiunque, comprese le donne delle pulizie. Il fatto che il museo possa raccogliere i pezzi dalla spazzatura e rimetterli insieme significa che non si tratta di arte di alto livello.” Da segnalare l’opera Comedian di Maurizio Cattelan, una banana attaccata al muro con nastro adesivo. Un amante dell’”arte” pagò centoventimila dollari, comprensivi di un manuale di istruzioni per installare l’oggetto all’angolazione e all’altezza corrette: trentasette gradi, sessantotto pollici da terra. L’artista David Datuna, durante una mostra alla Galérie Perrotin di Parigi, ha mangiato la banana davanti ai presenti stupefatti. Lungi dall’essere un iconoclasta ( o un disvelatore di inganni), Datuna è un ammiratore di Cattelan e definisce il suo comportamento una “performance artistica” poiché “ciò che percepiamo come materialismo non è altro che un condizionamento sociale. Qualsiasi interazione significativa con un oggetto può diventare arte. Sono un artista affamato e ho fame di nuove interazioni. “ A ogni buon conto, la galleria Perrotin si è precipitata ad acquistare un’altra banana, chiarendo che il valore del pezzo non era il frutto, ma l’idea. […] Incredibile ( in tempi normali) il caso di Salvatore Garau, che è riuscito a vendere per diciottomila dollari una scultura invisibile. L’ acquirente di Io sono – così si chiama l’ opera virtuale – si è impegnato a ospitare la statua inesistente in una stanza ampia e priva di mobili. “Il buon risultato dell’asta attesta un fatto inconfutabile. Il vuoto non è altro che uno spazio pieno di energie. Anche se lo svuotiamo e non rimane nulla, secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg, il nulla ha peso”. Applausi al genio di Garau. Disse secoli fa il cardinal Carafa: il popolo vuole essere ingannato, quindi va ingannato. Qualcosa di simile accadde a Ralph Vaughan Williams. Nel 1935 la sua Quarta Sinfonia dal tono cupo e violento venne interpretata come il riflesso della crescente tensione internazionale dovuta all’ascesa al potere di Hitler e Mussolini. L’ influente critico musicale Frank Howes la ribattezzò Sinfonia fascista nonostante il compositore avesse chiarito che si trattava di musica priva di qualsiasi riferimento politico. Allorché presentò la Sesta Sinfonia, nel 1948, all’inizio della Guerra Fredda, il “pianissimo” con cui si conclude la partitura fu interpretato come la descrizione della devastazione nucleare del mondo. La risposta del compositore fu: “a nessuno viene in mente che un uomo voglia semplicemente scrivere un pezzo musicale”. […] Al di là dell’aneddotica, resta il merito, ovvero l’incomprensibilità dell’ arte contemporanea e prima ancora la confusione sul concetto e la categoria di arte. Un segno evidente della sterilità della nostra epoca, incapace di produrre pensiero, ridotta a considerare arte ogni bizzarria, stranezza o novità. Un clero secolare di aiutanti di campo – critici, intellettuali, mercanti – si incarica di completare l’inganno manipolando il pubblico, soprattutto le classi abbienti semicolte, le più sollecite ad abboccare all’amo per vanità, narcisismo, adesione ai luoghi comuni del momento. Manca al tempo nostro – non solo nel campo dell’arte – il bambino della fiaba di Andersen, l’unico a gridare con schiettezza che il tronfio re, ingannato da un sarto imbroglione che gli aveva venduto a caro prezzo un abito invisibile, era nudo. Nudo come la verità fuggita dall’arte e dal discorso pubblico. Roberto Pecchioli
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31 Gennaio 2024 Da Rassegna di Arianna del 28-1-2024 (N.d.d.) Ieri i TG hanno passato la notizia che a Mosca, presso la statua del milite ignoto, una ventina di donne hanno deposto un fiore e chiesto che Putin ritiri l’esercito dall’Ucraina. La notizia è stata “vestita” con abiti foschi e fatta passare come riprova di un grande dissenso nei confronti dell’autocrate del Cremlino Contemporaneamente, attraverso agenzie di stampa americana, i canali extra mainstream ci fanno sapere che in USA è scaduto l'ultimatum di Biden allo Stato del Texas con il quale viene intimata la rimozione del filo spinato al confine con il Mexico. La risposta del governatore Abott è stata: “Vieni tu a toglierlo…” affermando che il suo Stato è pronto a un conflitto con le forze federaliste e non si tirerà indietro. Oltre 25 governatori repubblicani e i loro Stati si impegnano a sostenere il diritto del Texas a difendere il proprio territorio a dispetto del governo federale e 10 di loro si impegnano ad inviare in Texas la propria guardia nazionale. In pratica viene dichiarata la disponibilità ad un conflitto armato nel caso Biden invii in Texas le truppe federali per imporre la risoluzione della Corte Suprema USA ispirata da Biden. Insomma, si potrebbe legittimamente pensare al prodomo di una guerra civile dentro i confini dell’Impero del Male. Qualcuno di voi ha visto rilanciare dai media italici questa notizia che a tutti gli effetti è una “notiziona”? No, passa quella di 20 contestatrici moscovite che tra l’altro più che contestare, invocavano un ritorno a casa dei loro uomini. Non sto neppure qui a raccontarvi su chi sta “manipolando” e strumentalizzando il sentimento di queste donne. Diamo il tutto per genuino. Resta il fatto dell’evidente diversità di peso tra quanto sta accadendo in Texas e quanto a Mosca, e resta in tutta evidenza la palese dimostrazione del servilismo mediatico. Sempre ieri scoppia il caso dei 12 funzionari ONU che secondo Israele avrebbero preso parte attiva all’operazione del 7 ottobre condotta da Hamas. Senza alcuna verifica e vaglio dell’accusa, gli USA subito sospendono i contributi a sostegno dei profughi palestinesi subito imitati dal Canada e a poi da altri Stati del cortile imperiale USA. L’Italia, sfoderando la ruota del pavone, fa sapere che già li aveva già sospesi il 7 ottobre. L’orgoglio del “Italiani prima”. Chiunque abbia un minimo di buon senso, capisce bene che, se anche fosse vero che 12 funzionari ONU palestinesi abbiano partecipato all’operazione del 7 ottobre, penalizzare e sabotare l’intera organizzazione ONU è vile e pretestuoso. Sarebbe come se beccati 12 carabinieri a partecipare ad un’operazione mafiosa venissero sospesi i fondi a favore dell’Arma. Ma tant’è. Ah, sì, poi c’è anche la “Giornata della Memoria”, talmente sacra da poter interdire qualsiasi altra manifestazione non a tono (e non quindi per motivi di ordine pubblico) manifestazioni che magari si potrebbero svolgere anche a Natale o Pasqua ma non il 27 gennaio. Giornata impegnata da politici, imbonitori e sedicenti storici a strologare su antisemitismo, antisionismo, “nazifascismo” (sic!!!), revisionismo e quant’altro, omettendo accuratamente, per esempio, di segnalare il fatto storico che il 27 gennaio è il giorno in cui le truppe russe facevano ingresso al campo di concentramento di Auschwitz. Innestandosi sulla lezione del film “La vita è bella” di Benigni vorrai mica citare i russi come liberatori eh? Qui è meglio che mi taccio. Sì, è stata proprio una giornata particolare quella del 27 gennaio, una giornata nel corso della quale mentre gli oligarchi mediatici e politici si impegnavano nella loro paciosa narrazione, le masse si impegnavano indifferenti nel loro abituale shopping del sabato attestando ancora una volta lo scollamento tra i mezzadri del potere e i loro fondamentali interessi consumistici. Insomma, mentre il Titanic affonda, l’orchestra continua a suonare… P.S: Dimenticavo: a Lucca, sempre ieri, è stata interdetta la conferenza organizzata da "Il Vento dell'Est" sul Donbass. Con metodi mafiosi sono state fatte pressioni sull'albergatore che aveva messo a disposizione la sala conferenze affinché l'autorizzazione la ritirasse: "Diversamente troveremo il modo di farti chiudere l'attività". Complimenti! Maurizio Murelli
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29 Gennaio 2024 Da Rassegna di Arianna del 22-1-2024 (N.d.d.) Se sfogliate i manuali di psicologia politica, vi sembrerà che la politica si concentri nelle strategie comunicative per vincere le votazioni democratiche. Non so se tale impostazione sia più ridicola o più patetica. Nelle votazioni “democratiche” viene posta in gioco una quota marginale del potere decisionale. Sono sostanzialmente apparenza. E l'economia e la politica occidentali vivono ormai sulla moltiplicazione di bolle finanziarie costruite su previsioni azzardate di profitti futuribili. La scienza e la politica, assieme ai mass media e alle strategie comunicative, sono pagate e finanziate per sostenere tali previsioni, sono giocoforza al loro servizio, devono fare il loro gioco, altrimenti il sistema salta per aria. Quindi sono inattendibili: la scienza non può essere libera di ricercare la verità, ma si deve impegnare nel crearne una di comodo; e la politica non può rappresentare la collettività, perché deve servire equilibri finanziari. Questa prospettiva ci apre una visione unificata e organica di come funzionano business, scienza e politica. Dalla fine del secolo scorso, dalla bolla del digitale, l'economia mondiale va avanti in modo attuariale, ossia costruendo, una dopo l’altra, grandi bolle finanziarie sulla base di perizie, ovviamente per lo più arbitrarie, attestanti profitti attesi su progetti di investimento. Attraverso la perizia, il valore nominale dell’azione viene moltiplicato per cinquanta, poi l’azione viene usata come garanzia per un prestito di leva venti, e così dal valore uno si arriva al valore mille. Quando le azioni crollano, il mille si sgonfia, diciamo, a venti, e una ricchezza di 980 sparisce. L’ha mangiata l’orso, dicono i giornali e credono i merli. Prendete anche il PNRR a livello europeo: stanzia grandi somme, moneta creata dal nulla, per finanziare determinati progetti. Questi finanziamenti vengono tradotti in bonds, i quali a loro volta vengono moltiplicati molte volte, probabilmente 20, con una leva finanziaria. Oggi siamo arrivati a un valore nominale complessivo stimato di 300.000 miliardi di dollari di derivati - quadratici, cubici e via discorrendo. Una gigantesca massa di ricchezza nominale e irrealistica, che aspetta di implodere. Le bolle implodono quando i tassi salgono. Le continue iniezioni di denaro da parte delle banche centrali servono a rinviare l’exitus tenendo bassi i tassi e permettendo intanto ulteriori profitti. Come abbiamo ampiamente dimostrato nel saggio Operazione Corona, la pandemia è servita a iniettare nuova liquidità e a rinviare un'implosione ormai imminente - minaccia che si è rifatta viva, tuttavia, di recente. L'economia attuale è insomma un'economia che lavora sull'anticipazione forzata di valori reali futuri e sulla loro moltiplicazione, cioè sulle bolle. Se quei valori non si realizzano o si afferma l'aspettativa che non si realizzeranno, la bolla scoppia; e, se è abbastanza grande, i mercati vanno in crisi, e poi va in crisi l’economia reale, produttiva. Perciò la finanza assolda i media, la politica e l'economia affinché sostengano la bolla e le aspettative, cioè la fede nella veridicità delle perizie di stima previsionali e nelle teorie "scientifiche" su cui esse si basano. Chi progetta le bolle non si cura granché della fondatezza scientifica dei loro presupposti "scientifici" e della realizzabilità pratica dei progetti in cui esse si proiettano, perché è motivato dalla facilità dell’enorme guadagno che può realizzare nel breve termine e non si cura delle conseguenze del medio termine, che ricadranno su altri – di solito, sui risparmiatori. Le perizie di stima sono un pro forma per giustificare l'emissione di liquidità. I media, la scienza e la politica sono poco liberi e poco credibili. La scienza in particolare si è fatta dogmatica. Una scolastica. Una bolla è stata recentemente costruita in tal modo sugli investimenti nella Green Transition. Ricordo diversi anni fa un dibattito televisivo tra un sostenitore della teoria mainstream del cambiamento climatico causato dall'emissione di anidride carbonica e un critico di tale teoria, che sosteneva che le variazioni di anidride carbonica erano irrilevanti, non dovute all'uomo, e che i cambiamenti climatici sono una costante della storia della terra. A un certo punto Il critico sfoderò un argomento scientifico e fattuale fortissimo. Sembrava che avesse vinto il dibattito, ma il sostenitore della Green Transition gli fece semplicemente presente che era inutile che si affannasse per confutare la teoria in questione, dato che oramai quella teoria era stata sposata a livello politico mondiale, ONU, ed era stata tradotta in un gigantesco piano di investimenti; pertanto, non la si poteva più mettere in discussione. Era canonizzata. Era dogma. Sono passati diversi anni e in effetti, sebbene vi siano voci critiche, la teoria scientifica sottostante alla Green Transition viene mantenuta dal mainstream e dalla politica, e tradotta in investimenti e in misure legislative. Ha generato un’enorme mole di bonds e titoli derivati, di aspettative di profitto. Però queste misure legislative si vengono rivelando in buona parte irrealizzabili per motivi pratici: l'automobile elettrica sta perdendo colpi per varie ragioni, i pannelli fotovoltaici si rivelano problematici e poco redditizi, la campagna di coibentazione termica delle case risulta impraticabile per mancanza di aziende sufficienti per realizzarla e per il distacco e rapido deterioramento dei cappotti. Inoltre, la teoria dell’anidride carbonica è sempre più screditata. Si sta perciò concretando il rischio di uno scoppio della bolla dei titoli green. Sono falliti anche altri investimenti green, dei quali poco o niente si dice all'opinione pubblica, come la costruzione di una fascia verde alberata attraverso il Nord Africa. Le bolle finanziarie vengono costruite anche sui farmaci, potendo contare su sul fatto che i farmaci spesso producono effetti indesiderati, o desiderati secondo il punto di vista, che a loro volta creano una domanda di ulteriori farmaci. Grazie a ciò, le bolle in ambito farmaceutico sono più forti delle altre. Una bolla finanziaria è stata certamente costruita anche sulla campagna pandemico vaccinale, e sui consumi farmaceutici indotti dagli effetti avversi dei vaccini. Infatti le azioni di Big Pharma sono schizzate in alto, ma i profitti maggiori vengono realizzati sui farmaci per curare gli effetti dei vaccini. La scienza e insieme la politica sono arruolate e finanziate per sostenere la costruzione di queste bolle e per difenderle, nascondendo i dati scomodi, fintanto che è possibile, e assicurando la somministrazione massiccia dei farmaci patogeni. Il nuovo statuto con i nuovi poteri dell’OMS è funzionale alle bolle farmaceutiche. Del resto, l’OMS è finanziata principalmente dalle industrie private beneficiaria delle bolle medesime. Pure la campagna di Ucraina si presta alla costruzione di una grande bolla sui profitti attesi dalla riconquista del Donbass, ricco di risorse minerarie, e dall'acquisizione dei vastissimi terreni agricoli della povera Ucraina, la quale li ha dovuti cedere per ricevere armamenti e sostegni finanziari. Ecco perché la guerra va avanti ad oltranza, fino all'ultimo ucraino: anche se verrà persa, ogni giorno che essa dura è un giorno in più di profitti per la bolla. Marco Della Luna
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28 Gennaio 2024 Da Comedonchisciotte del 26-1-2024 (N.d.d.) La notizia che mi ha segnalato ieri l’attivista dell’italiano Marco Zomer riguarda la “svolta” di una scuola secondaria di Torino, l’Istituto Avogadro, che ha deciso di introdurre nella sua offerta formativa i corsi in lingua inglese invece che in italiano. I percorsi di studio sono due: il liceo scientifico dove la biologia, la chimica, la fisica e l’informatica verranno insegnate in inglese; e l’indirizzo tecnico dove l’inglese sarà la lingua di apprendimento “solo” di informatica e fisica. Come se non bastasse, l’insegnamento dell’inglese già previsto e obbligatorio verrà aumentato di due ore. Il modo in cui l’articolo della Stampa riporta la notizia è il solito, si esaltano queste decisioni in modo acritico per propagandarle, invece di analizzarle, con la volontà di giustificare e diffondere la visione anglomane che la nostra intellighenzia ha fatto sua. E così leggiamo che la scuola “guarda al futuro” (cioè, il futuro coloniale dell’Italia), perché dal prossimo anno includerà “i programmi Cambridge”. A dire il vero questi programmi servono per imparare l’inglese, non per insegnare le materie scientifiche, e andrebbe almeno specificato. Ma il pezzo, il cui incipit è un solenne “Torino chiama Cambridge” punta a mostrare che in questo modo la scuola torinese si eleva al prestigio di quella inglese, e sottolinea la grande innovazione per l’indirizzo tecnico, perché avrebbe solo quattro precedenti in tutta Italia, mentre al liceo scientifico è forse una prassi meno rara. Le argomentazioni didattiche o pedagogiche sottostanti hanno lo spessore di una televendita di cinture dimagranti eccezionali perché vengono dall’America, a partire dai virgolettati della professoressa Elena Vietti che spiega come la “metodologia Cambridge” favorisca lo sviluppo delle tecniche di problem solving “oltre ovviamente un potenziamento della lingua stessa”. E qui infila la prima evidente castroneria, perché se vogliamo imitare il modello di formazione anglosassone dobbiamo appunto capire una cosa molto semplice: lì potenziano la propria lingua, non quella degli altri. Se Torino chiama Cambridge, va detto che Cambridge non chiama né Torino, né Parigi, né Madrid, né Berlino né alcun altro. A Cambridge non si studiano le materie in francese, tedesco o italiano – forse alla prof sfugge questo piccolo trascurabile particolare – e nei sistemi scolastici angloamericani le lingue straniere non sono contemplate, o comunque non sono obbligatorie, e quando sono previste hanno un ruolo marginale. Ma nel processo di alienazione linguistica in atto – l’abbandono dell’italiano per passare all’inglese – non si racconta che, mentre tutta l’Europa spende una fortuna per insegnare l’inglese (lingua di fatto extracomunitaria) e formare le nuove generazioni bilingui a base inglese sin dalle elementari, gli inglesi e gli americani non hanno questi costi, visto che preferiscono che tutto il mondo impari e usi la loro lingua naturale. Ora, per chiamare le cose con il loro nome, tutto ciò avviene all’insegna del colonialismo linguistico. Non stupisce che gli anglofoni, maestri del colonialismo e anche di quello che un tempo si chiamava imperialismo, spingano in questa direzione che comporta interessi economici e strategici per loro spropositati. Quello che stupisce è che in Italia non lo si capisca o si faccia finta di non capirlo. Colpisce il servilismo con cui ci zerbiniamo davanti alla “lingua dei padroni” e alla dittatura dell’inglese in un’alienazione culturale che distrugge la nostra lingua e cultura. Dal punto di vista didattico, la citata professoressa spiega l’intento di voler conciliare l’approccio all’istruzione anglosassone di taglio molto pragmatico con la tradizione italiana più “teorica”, ma bisogna specificare che dietro la nostra “teoria” c’è – o forse c’era – un ben diverso criterio che tende a considerare le cose da un punto di vista storico e anche critico, che è molto distante da quello per esempio tipicamente americano che in nome di questo scellerato “problem solving”, già introdotto a forza nelle scuole come criterio di valutazione degli studenti, si limita il più delle volte a fornire nozioni non sottoposte ad analisi critiche né storicizzate. E in questo passaggio a un sistema “misto” (dove però c’è solo la lingua inglese) l’inglese farà da “link” alle materie: collegamento è parola della veterolingua che si vuole cancellare, ma si potrebbe dire forse anche hub, invece di snodo o raccordo (l’itanglese nella sua ricchezza ci sta fornendo sempre più sinonimi). Come se senza questo link, le materie fossero percepire come disgiunte, e come se questo collegamento non si possa fare nella nostra lingua nativa! Il livello di queste dichiarazioni è sconcertante, e ancora più sconcertante è come i giornali lo ripetano facendolo passare come normale. Questo conciliare i due metodi in modo appunto astratto e teorico ricorda certe caricature con cui si dice di voler essere ecologici ma senza rinunciare al suv, o di volere incentivare prodotti locali a chilometro zero ma anche la Coca Cola. Nella realtà, dietro le proposte di anglificazione della scuola l’obiettivo è solo uno: l’imposizione dell’inglese che diventa LA materia più importante e il cardine attorno al quale si vuol far ruotare l’istruzione. Lo si vede dal bocconcino più goloso dell’operazione che include appunto l’ottenere la certificazione Igcse, la ciliegina che è il vero obiettivo dell’offerta. Ma l’italiano dov’è? Che ruolo e che peso ha in questo percorso? Come mai le nuove scuole-aziende americanizzate o cambridgizzate e il nuovo sistema scolastico che viene smantellato sfornano studenti con sempre più problemi di analfabetismo di ritorno o funzionale? Sembra che sul piatto della formazione la pietanza forte sia solo l’inglese, come se tutto il resto forse un contorno di cui si può fare anche a meno. E colpisce l’affermazione di un’altra professoressa che con orgoglio spiega che la nuova offerta anglomane non ha richiesto nuovi docenti, perché quelli in carica sono già patentati del livello C1 e C2 di inglese. Dietro questo fiorellino da mettere all’occhiello non si mette in luce la preparazione, la competenza o la bravura dell’organico, ma solo la sua conoscenza della lingua superiore. Come se fosse questo il requisito da propagandare negli immancabili “Open day” che servono a reclutare gli studenti. La dirigente scolastica dell’Istituto, nello spiegare che si tratta di una sperimentazione solo avviata, anticipa che per il momento ci si aspetta un numero di studenti e classi contenuto, e dalle adesioni dipenderà il futuro allargamento della proposta ad altri indirizzi e classi. La mia speranza è che iniziative di questo tipo falliscano miseramente, e che non si raggiunga il “numero di Avogadro” necessario per continuarli. Più realisticamente so bene che non andrà a questo modo, perché l’anglificazione della scuola nel nuovo millennio si sta allargando in maniera preoccupante. Uno dei primi segnali è partito proprio da Torino, quando il Politecnico ha deciso di incentivare i corsi in inglese nell’anno accademico 2007-2008 attraverso l’iscrizione gratuita per il primo anno, discriminando di fatto i corsi in italiano che invece si pagavano. Pochi anni dopo, nel 2012, il Politecnico di Milano si è spinto ben oltre decidendo di estromettere la nostra lingua dalla formazione universitaria per erogare corsi solo in inglese. Anche in questo caso ci sono state vicende giudiziarie infinite, ma benché sulla carta sia stata riconosciuta una teorica “primazia dell’italiano”, di fatto l’ateneo continua a erogare corsi quasi solo in inglese. E così mentre questo modello si allarga, e recentemente anche la Bocconi di Milano ha preso la medesima direzione, oggi si abbassa l’asticella includendo anche le scuole secondarie, che sono il prossimo terreno di conquista. Nei Paesi scandinavi, dove l’anglificazione è stata da tempo introdotta e sperimentata, si assiste a una marcia indietro perché si è visto che insegnare in inglese si trasforma in un processo sottrattivo, non aggiuntivo. Insegnare in un’altra lingua comporta la perdita e la riduzione della terminologia nella lingua nativa, induce alla semplificazione dei concetti e dei ragionamenti perché si esprimono con più difficoltà, spinge a pensare in inglese, che invece di aggiungersi alla lingua di partenza finisce per fagocitarla. Noi, al contrario stiamo andando in questa direzione suicida in modo becero, acritico e coloniale. Le nefaste conseguenze di questi approcci sono state denunciate da autori africani come Ngugi wa Thiong’o che le hanno subite: lì, le scuole coloniali in lingua inglese hanno non solo contribuito all’abbandono delle lingue indigene, ma hanno soprattutto creato barriere culturali: chi non sapeva l’inglese non poteva accedere alle scuole che imponevano quella lingua e in quella lingua insegnavano. L’inglese ha creato una diglossia tra lingua della cultura e lingua del popolo che da noi apparteneva al Medioevo, quando il latino era la lingua appunto della scuola e della scrittura e il volgare delle massi analfabete. E noi, oggi, in nome di un supposto “internazionalismo” che viene fatto coincidere in modo surrettizio con il parlare in inglese, stiamo costruendoci da soli analoghe scuole coloniali per formare le future generazioni. Così, mentre l’itanglese diviene la lingua modello del linguaggio della scuola e del Ministero dell’Istruzione, l’inglese puro diviene la lingua della nuova cultura, in una svolta linguicista che discrimina la nostra storia e cultura. Ma a raccontare queste cose, o per lo meno a mostrare l’altra faccia della medaglia dell’anglificazione, affinché ognuno possa fare le sue scelte in modo consapevole, non sono i giornali, né i politici, né gli intellettuali (a parte sparute eccezioni di qualche “dissidente”), sono più spesso i lettori. E Marco Zomer, agguerrito attivista dell’italiano, è riuscito a fare arrivare la sua voce al giornale, seppur in un trafiletto in cui le sue riflessioni sono state riassunte e semplificate. L’anglificazione della scuola è il nuovo terreno di conquista che nei prossimi anni emergerà e si allargherà, ma invece di produrre riflessioni serie e dibattiti, viene dato per scontato come “il futuro” ineluttabile, un futuro dove l’italiano finirà per diventare un dialetto. Antonio Zoppetti
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