3 Gennaio 2023 
Da Rassegna di Arianna dell’1-1-2023 (N.d.d.) In questo scritto espongo alcune riflessioni sulla situazione dello “spirito del tempo”. Il punto di partenza è la convinzione che la società attuale sia indirizzata verso un rovinoso crollo di civiltà, che sarà causato dal concorrere di una serie di crisi concomitanti, fra le quali la più significativa in questo momento è la crisi climatica. Ho argomentato tale mia convinzione in interventi passati e non mi soffermerò su di essa in questo scritto, che è piuttosto dedicato ad esaminare le conseguenze di questa situazione sul piano della cultura e delle ideologie. Il punto di partenza è una considerazione del tutto generale (e piuttosto banale): in ogni società umana che presenti un gruppo sociale dominante e uno o più gruppi sociali subalterni, esiste una qualche forma di “patto sociale”, non sempre chiaramente esplicitato, per il quale i ceti subalterni accettano il dominio dei ceti dominanti. Nessun dominio stabile può basarsi esclusivamente sulla forza bruta, ma deve prevedere un momento nel quale le istanze dei ceti subalterni sono considerate e almeno parzialmente soddisfatte; ovviamente questo avviene entro limiti ben precisi, compatibilmente cioè con la perpetuazione del potere e dei privilegi dei ceti dominanti. Naturalmente, niente garantisce che il patto sociale funzioni: può succedere che i ceti dominanti falliscano nel tener fede al patto, per incapacità propria o per cause di forza maggiore (disastri naturali, sconfitte militari). Ma in tal caso il loro dominio è messo seriamente in pericolo, e se non viene ripristinato e reso storicamente efficace un patto sociale soddisfacente, i ceti dominanti vengono abbattuti e sostituiti da altri ceti dominanti. Questo scritto è dedicato ad una riflessione su quale sia oggi la natura del patto sociale fra ceti dominanti e ceti subalterni. Per comprendere meglio il problema, possiamo iniziare tracciando una distinzione, anch’essa molto generale, fra le caratteristiche che le ideologie egemoniche assumono nelle società premoderne e quelle tipiche della modernità. Nelle società premoderne il patto sociale fra dominanti e dominati è di tipo conservatore: il sovrano si impegna a conservare la stabilità dell’ordine sociale, in maniera che i ceti subalterni abbiano la garanzia di poter vivere una vita pacifica all’interno della rete comunitaria nella quale sono vissuti i loro antenati, e nella quale vivranno in pace i loro discendenti. Questo patto sociale è comunemente espresso in termini religiosi, in maniera da ricevere una legittimazione che lo radica nell’ordine complessivo del mondo. Naturalmente sono molteplici le forme specifiche di espressione del patto sociale, dall’alleanza di Dio col popolo eletto nell’Antico Testamento alla teoria del “mandato celeste” del pensiero cinese tradizionale. L’aspetto fondamentale del patto sociale tradizionale sta nel fatto che esso è rivolto alla conservazione sia degli aspetti materiali sia di quelli simbolici: è ovviamente necessario che i ceti subalterni possano vivere una vita materialmente sufficiente e priva per quanto possibile di violenze arbitrarie, ma oltre a questo è necessaria anche la conservazione delle loro comunità, che sono depositarie dei fondamenti simbolici necessari ad una vita sensata. La modernità introduce in questo quadro un elemento nuovo e dirompente: la nozione di progresso. Il patto sociale nella modernità non è più basato sulla conservazione ma appunto sul progresso. I ceti dominanti non promettono più la continuazione pacifica della vita tradizionale, ma al contrario il suo incessante sovvertimento. I figli non faranno la vita dei padri, ma una vita migliore. La base del patto sociale della modernità è innanzitutto, ovviamente, il progresso materiale, cioè lo sviluppo delle forze produttive, che permette il superamento delle condizioni di scarsità tipiche delle società premoderne. Ma il progresso nella modernità significa anche la dissoluzione delle comunità tradizionali, che davano senso alla vita ma al tempo stesso rinchiudevano gli individui entro confini, più o meno stretti a seconda delle situazioni, ai quali gli individui erano forzati a adattarsi. La promessa della modernità è dunque quella della liberazione dell’individuo sia dal timore della penuria materiale, sia dai vincoli delle comunità tradizionali. Naturalmente, nel caso delle società moderne come in quello delle società tradizionali, il patto sociale di cui parliamo è un tipo ideale, rispetto al quale le concrete vicende storiche potevano rappresentare momenti di vicinanza o di forte distacco. È abbastanza evidente che, per le società occidentali, i trent’anni seguiti alla Seconda Guerra Mondiale, gli anni del “compromesso socialdemocratico”, hanno rappresentato un momento di tendenziale avvicinamento all’ideale “patto sociale della modernità”. Lo sviluppo materiale (riassunto nel concetto di “grande accelerazione”) si diffuse fra i ceti subalterni, mentre si disgregavano le barriere morali alle scelte individuali, tipiche delle fasi precedenti. In questo modo si creavano per larghe fasce di popolazione effettive possibilità di liberazione e di sviluppo personale. A partire dalla fine degli anni ‘70 il “compromesso socialdemocratico” viene attaccato ed eroso dall’azione dei ceti dirigenti, per ragioni indagate da una letteratura ormai amplissima, che in questa sede non discutiamo. Ovviamente le classi dirigenti, nel rifiutare il precedente patto sociale, hanno elaborato una costruzione ideologica che lo potesse sostituire. Tale costruzione è ciò che usualmente chiamiamo “neoliberismo”. Senza ripercorrere la complessa storia di questa formazione ideologica, mi limito a quanto è rilevante nel contesto di questo articolo, cioè la natura del nuovo patto sociale proposto dai ceti dirigenti. Tale patto si basava sulla tesi che lo smantellamento del Welfare State “socialdemocratico” avrebbe liberato le energie del capitalismo, e questo avrebbe portato ad un forte sviluppo economico che si sarebbe risolto in maggior benessere per tutti. Ora, a distanza di qualche decennio dal primo instaurarsi di pratiche e ideologie neoliberiste fra i ceti dominanti, appare abbastanza evidente che i risultati non sembrano così brillanti, per i ceti subalterni, anche se le situazioni possono essere diverse da paese a paese. Il punto che intendo qui sottolineare è però un altro. Come ho scritto all’inizio, è mia convinzione che l’attuale società capitalista, ormai estesa all’intero pianeta, si sia avviata lungo una spirale di autodistruzione. Per uscire da questa spirale occorrerebbero drastici mutamenti dell’intera organizzazione economica e sociale, dei quali oggi non si scorge neppure l’ombra. La radice ultima di questa dinamica mortifera sta nel carattere “illimitato” della logica capitalistica, nel fatto che il modo di produzione capitalistico implica una crescita continua, senza fine, e senza altri fini che non siano i profitti. Il passaggio di fase del capitalismo, dal “compromesso socialdemocratico” al neoliberismo, ha accentuato questi aspetti, che certo erano presenti anche nelle fasi precedenti, in quanto radicati nella logica del modo capitalistico di produzione. Alla luce del collasso prossimo venturo dell’attuale società, il patto sociale neoliberista assume un aspetto diverso, e più sinistro, rispetto a quanto poteva apparire decenni fa. All’epoca della sua instaurazione, fra gli anni Settanta e gli Ottanta del Novecento, il patto sociale neoliberista, che i ceti dominanti hanno proposto o imposto ai ceti subalterni, poteva suonare come “dovete rinunciare ai diritti e ai redditi del Welfare State, e in cambio avrete uno sviluppo economico che porterà maggior benessere a tutti”. Alla luce del prossimo collasso, esso diventa “dovete rinunciare ai diritti e ai redditi del Welfare State, e in cambio avrete una catastrofe quale mai si è vista nella storia umana. Ma vi lasciamo giocare con lo smartphone”. Appare chiaro che, su queste basi, se chiaramente esplicitate in tutti i loro aspetti e soprattutto nelle loro conseguenze, è impossibile costruire consenso ed egemonia. D’altra parte, come abbiamo detto all’inizio, senza qualche forma di egemonia da parte delle classi dominanti e di consenso da parte delle classi subalterne, nessuna società divisa in classi può sostenersi. I ceti dominanti attuali si trovano quindi di fronte a un problema serio. La risposta ideologica a tale problema, da parte dei ceti dominanti, segna in profondità la situazione spirituale contemporanea. Nei paesi occidentali (ai quali limito qui la mia analisi), i fondamenti di tale azione ideologica dei ceti dominanti mi sembrano tre: in primo luogo, distrazione di massa; in secondo luogo, restrizioni alla libertà di pensiero e di parola; in terzo luogo, rilegittimazione dei ceti dominanti come alfieri di qualche tipo di valori. L’insieme di questa operazione ideologica si può riassumere come creazione di una “bolla onirica” dentro alla quale i ceti subalterni perdono il contatto con la realtà. In tutte le tre forme sopra indicate, appare centrale il ruolo del sistema mediatico. Per quanto riguarda il primo punto, la distrazione di massa consiste soprattutto nell’alimentare i simulacri spettacolari della lotta fra destra e sinistra, fra fascismo e antifascismo, fra progressisti e conservatori. Si tratta di contrapposizioni del tutto avulse dalla realtà: nella realtà, tutte le correnti politiche che hanno accesso alla scena mediatica accettano senza discussioni di sottostare alla logica capitalistica e al comando imperiale statunitense, e solo dopo questa accettazione hanno il permesso di accedere alla scena mediatica e di giocare a fare la parte della destra o della sinistra, del fascismo o dell’antifascismo, del populismo o del progressismo. Questa scena mediatica crea una bolla onirica nella quale si perde ogni contatto con la realtà sociale, segnata dalla perdita di diritti del lavoro, della lenta distruzione del Welfare State, dell’impoverimento progressivo. E se tale schermo onirico impedisce di vedere la realtà sociale attualmente esistente, a maggior ragione impedisce di vedere il collasso sociale ed ecologico in arrivo. In secondo luogo, mi sembra possibile affermare che sia in atto da tempo, nei paesi occidentali, un processo di restrizione della libertà di parola. Esso si manifesta come tendenza all’ampliamento dello spettro di opinioni configurate come reato, e soprattutto alla definizione sempre più generica delle opinioni proibite o a rischio di esserlo: basti pensare alla vaghezza di nozioni come quella di “hate speech”. In ogni caso, una volta che si è raggiunto un certo consenso sociale sulla possibilità di configurare come reato le opinioni sgradite, è chiaro che si apre la strada ad ogni arbitrio del potere politico, specie se quest’ultimo, disponendo dell’appoggio dei media, può suscitare le emozioni del pubblico contro una particolare opinione sgradita. Tale tendenza sembra riguardare l’intero spettro delle forze politiche ufficiali dei paesi occidentali: a tutte fa comodo la prospettiva di poter limitare l’espressione delle idee sgradite, che sono sempre quelle esterne all’ufficialità mediatico-politica. In terzo luogo, le forze politiche ufficiali cercano di rilegittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica: per questo fanno leva sulle opposizioni oniriche viste al primo punto (destra e sinistra, fascismo e antifascismo). La divisione artificiosa dell’attuale ceto politico, sostanzialmente unitario nelle sue scelte di fondo, permette a ciascuna delle due “ali” di presentare l’altra come un pericolo per la civiltà, e di legittimarsi contro il pericolo così evocato: la sinistra presenta la destra come fascista e autoritaria, e se stessa come argine dei diritti e delle libertà, la destra presenta la sinistra come artefice di dinamiche incontrollate e distruttive (immigrazione, distruzione della famiglia tradizionale, controlli invasivi statali). Le strategie egemoniche messe in campo dai ceti dirigenti, sopra discusse, sembrano piuttosto efficaci. La grande maggioranza della popolazione accetta acriticamente lo spettacolo onirico proposto incessantemente dai media, ma la cosa più significativa è che neppure le piccole minoranze che vorrebbero essere critiche verso l’esistente riescono a sottrarsi ad esso. Tali piccole minoranze pensano la realtà attraverso gli schemi di destra/sinistra o fascismo/antifascismo o progresso/conservazione, e in questo modo risultano totalmente incapaci di capire la realtà contemporanea, e a maggior ragione di agire su di essa. Si potrebbe pensare che, anche in assenza di una comprensione adeguata della realtà, il peggioramento delle condizioni materiali dell’esistenza porterà presto o tardi ad una rivolta popolare, ma una simile illusione, comune nei ristretti ambienti anticapitalistici o marxisti, è purtroppo smentita dalla realtà storica: se fosse vero che le persone sottoposte a condizioni inumane si ribellano, avremmo avuto rivolte continue nei lager nazisti e nel gulag staliniano, e tali strutture non avrebbero nemmeno potuto esistere. È probabile che nella sostanziale e diffusa accettazione della sfera onirica prodotta dal sistema mediatico abbia un ruolo decisivo una “volontà di non sapere”, un rifiuto di confrontarsi con le scelte, dure e necessarie, che la realtà oggi ci impone. E la “volontà di non sapere” è a sua volta basata sulla “volontà di non cambiare”. In definitiva, la stragrande maggioranza dell’umanità contemporanea, dominanti e subalterni, appare unita nella volontà di non cambiare, di non rinunciare a nulla di ciò che la società capitalistica offre loro: i dominanti non vogliono rinunciare a ricchezze e potere, i subalterni non vogliono rinunciare all’auto, o al cellulare, o ai viaggi aerei. E le popolazioni che ancora non sono arrivate ai livelli occidentali di consumi, non aspirano ad altro che ad arrivarci. Mi sembra allora che siamo di fronte ad un sostanziale accordo fra ceti dominanti e ceti dominati: nessuno vuole i profondi cambiamenti necessari alla sopravvivenza della civiltà umana. Poiché la coscienza chiara della situazione renderebbe difficile far finta di nulla, una buona parte dell’umanità ha scelto di non sapere, o di sapere il meno possibile. Per questo motivo i ceti subalterni accettano passivamente di vivere nella sfera onirica che i ceti dominanti sono ben lieti di fornire. Se le cose stanno così, possiamo affermare che questo sia il patto sociale contemporaneo, e quindi il fondamento ultimo dell’egemonia degli attuali ceti dominanti. Si tratta ovviamente di un patto suicida. L’egemonia su di esso basata è destinata a collassare assieme alla società attuale. Purtroppo, non si può evitare di pensare che nell’immediato l’evoluzione sociale proseguirà secondo lo schema attuale, finché la devastazione di società e natura, prodotta da un capitalismo ormai impazzito, non renderà impossibile la riproduzione della società stessa, generando un collasso sociale su scala planetaria. Durante il processo del collasso ovviamente crolleranno tutte le illusioni, e i pochi sopravvissuti ricostruiranno una società e una cultura rispetto alle quali oggi non è possibile nemmeno formulare ipotesi. Marino Badiale
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2 Gennaio 2023 Da Appelloalpopolo del 29-12-2022 (N.d.d.) Lo stato di eccezione eccede l’ordinamento e lo sospende, lo pone in una condizione di indeterminatezza, ovvero il suo contenuto rimane incerto. L’identico fenomeno opera a causa della ragion di stato, che eccede l’ordinamento e lo sospende, si pensi ad esempio all’istituto del segreto di stato, che impedisce l’azione dell’ordinamento nei confronti del fatto secretato, che rimane incerto. Questa condizione di eccedenza può rimanere marginale solo ove operi il controllo e la garanzia delle norme e delle corti costituzionali. La ragion di stato “europea” introduce una “regolamentazione” eccezionale, che nasce da norme estranee ad ogni ordinamento nazionale, questa ha, infatti, ecceduto ogni singolo ordinamento sospendendolo, ma in questo caso non opera né la regola costituzionale (non esiste una Costituzione europea), né una corte che ne certifichi il rispetto (non esiste una Corte costituzionale europea). Il controllo su questo stato di eccezione permanente di fatto non esiste, anzi è proprio la mancanza di controllo, che ha consentito allo stato di eccezione europeo di agire indisturbato, rendendo indeterminato ogni ordinamento. Siamo perfettamente dentro un dispositivo anomico, un’anarchia completa, che si fonda sulla concorrenza e il libero scorrimento dei fattori di produzione: la regola è “non c’è regola”. Siamo di fronte a una condizione aberrante poiché apriori del tutto a-giuridica. Opera la governamentalità permanente, che attribuisce poteri eccezionali alla Commissione Europea e alla Banca Centrale Europea, poteri che eccedono ogni ordinamento interno e li distruggono. Le corti interne e la dottrina prima, il Parlamento, la Presidenza della Repubblica, i Governi e tutti gli apparati di sicurezza poi si sono assunti una responsabilità politica enorme e del tutto eccedente rispetto al nostro ordinamento di diritto, hanno agito e agiscono in un permanente stato di eccezione, che può essere classificato come un golpe permanente. Un golpe proprio ad opera di coloro che avrebbero dovuto proteggere l’ordinamento dal golpe stesso. In altri termini, in assenza di una Costituzione europea e di una Corte costituzionale europea, la cui realizzazione è storicamente impossibile, siamo catturati dentro un dispositivo eccezionale che ha cancellato duemila anni di tradizione giuridica. Il diritto, del resto, è la fonte di ogni civiltà ed in assenza di diritto la civiltà viene cancellata, se questo non è inaccettabile ditemi voi cosa sia inaccettabile. Ed è proprio l’espansione di questo dispositivo in sé eccedente che ha provocato la guerra, catturando al suo interno aree geografiche, paesi e popoli, che a loro volta vengono precipitati nell’indeterminatezza, scatenando prima il conflitto interno e poi esterno. Concettualmente e concretamente ogni fenomeno eccedente è aberrante e deve essere regolato, misurato e controllato, pena la distruzione. Andrea D’Agosto
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Transumanza nel metaverso |
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31 Dicembre 2022 
Da Rassegna di Arianna del 29-12-2022 (N.d.d.) Il “Piano Scuola 4.0” è la tabella di marcia che segna le progressive tappe da spuntare, da qui al 2025, nel processo di digitalizzazione della didattica e della organizzazione scolastica italiana – dagli asili nido alle università – secondo le linee di investimento previste da PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Si suddivide in quattro sezioni, denominate rispettivamente: la prima “Background”; la seconda e la terza “Framework”; la quarta “Roadmap”. Uno poco avvezzo alle produzioni letterarie dei nostri apparati burocratici si potrebbe chiedere se davvero si parli di scuola italiana: ebbene sì, siamo in Italia, e lo scempio linguistico rientra nell’ordinario sfoggio di compiuta colonizzazione “culturale” di cui troppi vanno fieri come fosse una medaglia al valore. Il documento offre la puntuale descrizione della palingenesi tecnologica che deve investire in modo assorbente le nuove generazioni attraverso la formazione scolastica; e che implica, com’è ovvio, il previo addestramento dei docenti chiamati ad assisterle in questa incalzante fase di transizione – in attesa della sostituzione del personale umano con una adeguata dotazione di più efficienti e resistenti robot. In base alle proprie “competenze digitali”, i docenti sono suddivisi in sei livelli: A1 Novizio, A2 Esploratore, B1 Sperimentatore, B2 Esperto, C1 Leader, C2 Pioniere. Proprio così. Una classifica da far invidia alle Giovani Marmotte e che, insieme a tutto il degradante malloppo nel quale si trova inscritta, dovrebbe quantomeno accendere nella categoria interessata una scintilla di orgoglio e suscitare un moto di ribellione. In chi poi abbia presente l’epilogo della operazione – che poggia sul presupposto della fungibilità della manovalanza umana – dovrebbe muovere pure il più elementare istinto di sopravvivenza. Ma chissà. In prima battuta, la lettura del prontuario può produrre nel lettore ignaro un effetto esilarante, perché la veste formale e lessicale del testo – l’italiano, questo sconosciuto – si spinge oltre la parodia, arriva dritta all’insulto del senso estetico e del senso comune, ammesso che, in barlume, esistano ancora. Ma si tratta di una reazione effimera, che non può non tramutarsi ben presto in sdegno, incredulità, preoccupazione. Vero è, infatti, che tutto quanto vi si legge si trovava già scritto in agenda, da tempo. Tuttavia, dentro queste trentanove cartelle si tocca con mano lo iato che passa tra l’esposizione di un generico programma politico-ideologico e la sua reale applicazione forzata secondo una scansione temporale precisa quanto stringente. Il ricatto economico – il cappio brandito da Bruxelles – funge da garanzia dell’adempimento, del quale si percepisce tutta l’incombente prossimità. Ed è una sensazione raccapricciante. A partire dalle pagine introduttive, è spiegato come il primo fondamentale passaggio sulla strada della innovazione integrale della scuola riguardi l’ambiente dell’apprendimento. Si legge che, mentre «fin dalla nascita della scuola, lo spazio di apprendimento tradizionale è stato configurato secondo il rigido modello di un’aula di forma quadrata o rettangolare, con le file di banchi disposti di fronte alla cattedra del docente», oggi questo modello va urgentemente smantellato. Infatti, «la ricerca nazionale e internazionale» (!!!) avrebbe mostrato come esso, tuttora prevalente, «non sia più in linea con le esigenze didattiche e formative delle studentesse e degli studenti rispetto alle sfide poste dai cambiamenti culturali, sociali, economici, scientifici e tecnologici del mondo contemporaneo». Ecco quindi che – secondo le menti del Piano – è necessario ridisegnare gli «ecosistemi di apprendimento» con «arredi e tecnologie a un livello più avanzato rispetto a quelli oggi in uso, al fine di rendere sostenibile il processo di transizione digitale». Vale qui la pena di riportare testualmente qualche altro pezzo del Piano, per farsi un’idea di dove andremo a parare. Tipo: «Gli ambienti fisici di apprendimento non possono essere oggi progettati senza tener conto anche degli ambienti digitali (ambiention line tramite piattaforme cloud di e-learning e ambienti immersivi in realtà virtuale) per configurare nuove dimensioni di apprendimento ibrido. L’utilizzo del metaverso in ambito educativo costituisce un recente campo di esplorazione, l’eduverso, che offre la possibilità di ottenere nuovi “spazi” di comunicazione sociale, maggiore libertà di creare e condividere, offerta di nuove esperienze didattiche immersive attraverso la virtualizzazione, creando un continuum educativo e scolastico fra lo spazio fisico e lo spazio virtuale per l’apprendimento, ovvero un ambiente di apprendimento onlife». Sottolineiamo l’orwelliana novità del lemma onlife, evidente calco di online, assurto quest’ultimo a entità primaria da cui derivare il resto della esperienza umana. La cosa bella è che, subito dopo l’esibizione di tanto estremismo cibernetico, funzionale allo straniamento e alla alienazione assoluti, si precisa come, beninteso, debbano essere garantiti «i requisiti comuni di sicurezza, di benessere, di privacy…anche con la previsione di specifiche azioni didattiche circa i rischi connessi all’utilizzo improprio delle tecnologie». Al che, davvero, non si sa se ridere o se piangere: a questi scolari mettono in testa un casco che li estrania dalla realtà, li “immergono” e annegano nel nulla, nel frattempo fanno finta di munirli di un boccaglio di gomma per prendere un refolo d’aria che non c’è. Nella bisca delle parole truccate, vale tutto. In concreto, l’obiettivo dell’azione “Next Generation Classrooms”è quello di trasformare, grazie ai finanziamenti del PNRR, almeno 100.000 aule delle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado. Deve avvenire insomma una totale metamorfosi delle aule: fondamentale, come abbiamo visto sopra, che esse non siano più uno spazio quadrato o rettangolare (quindi? rotondo? ovale? ottagonale?) e non abbiano più sedie, banchi e cattedra, tutti attrezzi pedagogicamente obsoleti (il pavimento può starci? e il soffitto?). Sicché, «sulla base di un format comune reso disponibile dall’Unità di missione del PNRR», ciascuna istituzione scolastica dovrà adottare un documento chiamato “Strategia Scuola 4.0” dove vengano declinati «il programma e i processi che la scuola seguirà per tutto il periodo di attuazione del PNRR con la trasformazione degli spazi fisici e virtuali di apprendimento, le dotazioni digitali, la innovazioni della didattica, i traguardi di competenza in coerenza con il quadro di riferimento DigComp 2.2, l’aggiornamento del curricolo e del piano dell’offerta formativa, gli obiettivi e le azioni di educazione civica digitale, la definizione dei ruoli guida interni alla scuola per la gestione della transizione digitale, le misure di accompagnamento dei docenti e la formazione del personale». Dovrà farlo ciascuna istituzione scolastica. Affinché l’imperativo categorico sia chiaro, si ribadisce: «È necessario che la progettazione didattica, disciplinare e interdisciplinare, adotti il cambiamento progressivo del processo di insegnamento e declini la pluralità delle pedagogie innovative (ad esempio, apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamification, etc.)». E ancora. «Le nuove classi, oltre ad avere uno schermo digitale, dispositivi per la fruizione delle lezioni anche in videoconferenza e dispositivi digitali individuali o di gruppo (notebook, tablet, etc.), dovranno avere a disposizione, anche in rete tra più aule, dispositivi per la comunicazione digitale, per la promozione della scrittura e della lettura con le tecnologie digitali, per lo studio delle STEM, per la creatività digitale, per l’apprendimento del pensiero computazionale, dell’intelligenza artificiale e della robotica, per la fruizione dei contenuti attraverso la realtà virtuale e aumentata». Eccetera eccetera. Benvenuti dunque nel mondo che non c’è, ma in cui i nostri figli dovranno evaporare, fluttuare, intrupparsi e rimbambirsi, per volere delle istituzioni. Sarà tutto bellissimo perché modernissimo e bisogna scrollarsi di dosso qualsiasi residua remora gretta e senile. A beneficio dell’”utenza”, chiamata a salutare festante l’avvento della propria schiavitù, della propria sostituzione e del proprio annientamento programmato, gli apparati di cui sopra hanno pure la delicatezza di fornire una pezza giustificativa alla operazione – così, per tacitare qualche resto di coscienza – e mettono lì un elenco di parole a caso, usate all’incontrario (tanto, si sa, basta il suono). Gioite dunque, o genti, delle magnifiche sorti vostre e dei vostri figli, poiché: «Le Next Gen Classrooms favoriscono l’apprendimento attivo di studentesse e studenti con una pluralità di percorsi e di approcci, l’apprendimento collaborativo, l’interazione sociale fra studenti e docenti, la motivazione ad apprendere e il benessere emotivo, il peer learning, il problem solving, la co-progettazione, l’inclusione e la personalizzazione della didattica, il prendersi cura dello spazio della propria classe. Contribuiscono a consolidare le abilità cognitive e metacognitive (pensiero critico, pensiero creativo, imparare a imparare e autoregolazione), le abilità sociali ed emotive (empatia, autoefficacia, responsabilità e collaborazione), le abilità pratiche e fisiche (uso di nuove informazioni e dispositivi di comunicazione digitale)». Straordinario. Straordinario tutto, ma in particolare laddove si dice che il vuoto pneumatico, lo spazio ormai totalmente sterilizzato, smaterializzato e devitalizzato, favorirebbe «l’interazione sociale tra studenti e docenti». Capolavoro di bipensiero. Quanto ai Next Generation Labs, da istituire con urgenza presso gli istituti superiori, essi mirano «allo svolgimento di attività autentiche e di effettiva simulazione dei contesti, degli strumenti e dei processi legati alle professioni digitali, di esperienze di job shadowing,… di azioni secondo l’approccio work based learning, e possono consistere in un unico grande spazio aperto, articolato in zone e strutturato per fasi di lavoro, oppure in spazi comunicanti e integrati, che valorizzano il lavoro di gruppo all’interno del ciclo di vita del progetto (project based learning)… Essi si caratterizzano per essere coperti da una connettività diffusa in banda ultra larga, e sono aperti alla sperimentazione della tecnologia 5G». Praticamente, occorre allestire delle basi spaziali. E non pensi, qualche preside antiquato di qualche scuola antiquata, di poterla fare franca, perché «la Roadmap del Piano Scuola 4.0 prevede una procedura di assegnazione delle risorse sulla base di un piano di riparto nazionale dei fondi a tutte le istituzioni scolastiche italiane e di un sistema informativo di monitoraggio e di rendicontazione online. Le scuole gestiranno le azioni di progettazione, allestimento e utilizzo dei nuovi ambienti e dei laboratori secondo un cronoprogramma nazionale». Ripetiamo: un cronoprogramma nazionale. Da lustri ci martellano in testa la cosiddetta autonomia scolastica, strumento effettivamente servito per polverizzare e deprimere il sistema italiano di istruzione; ma, quando si tratta di applicare l’agenda, l’autonomia puf, si azzera, per cedere il passo al controllo più penetrante e più invasivo che c’è. A margine, sorge spontanea una constatazione: in questo fantasmagorico panorama, è evidente che il liceo classico è un morto che cammina, una dead school walking. Si blatera solo di STEM (acronimo per: Science, Technology, Engineering and Mathematics). Per lorsignori, la formazione umanistica è una spina nel fianco, una piccola brace ancora viva da soffocare definitivamente, inghiottendola nel silenzio senza nemmeno nominarla, perché capace di emettere qua e là qualche segnale di fumo. Fine della constatazione. Ora, i virgolettati qui sopra sono solo dei piccoli stralci, presi a campione, per capire qual è la musica. Lo spartito è lungo 39 cartelle e verrà suonato nelle scuole italiane a partire da oggi. Anzi, da ieri. Perché nel documento si dice espressamente che questi lavori di demolizione di tutto ciò che di reale, umano, materiale e insieme spirituale (ché le due cose viaggiano inseparate) resiste nella scuola – quel che insomma ne costituisce l’essenza, e il perché – hanno subito un significativo impulso grazie alla pandemia. «La pandemia – ci informa infatti il nostro documento – ha avuto un rilevante impatto nell’accelerazione dell’utilizzo di tecnologie basate sulla intelligenza artificiale, la robotica, l’automazione, e-commerce e blockchain, la realtà virtuale e aumentata, la stampa 3D/4D, cloud computing, internet delle cose, etc.». Acquisire competenze digitali specialistiche – secondo gli innovatori – è il prerequisito inderogabile per «ottenere posti di lavoro di qualità e intraprendere percorsi professionali gratificanti». Lo hanno deciso loro. Studiosi, contemplativi, poeti, artisti, artigiani, contadini, manovali, si attacchino: sono per definizione una manica di falliti. Del resto, a chi non si fosse ancora convinto della strumentalità della “emergenza” ai fini di un cambio epocale di paradigma, andrebbe una volta di più ricordato che si era ancora agli albori dell’era pandemica – primavera del 2020 – quando l’UNESCO annunciava in gran pompa l’avvio dell’«esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione»; ovvero, un esperimento nell’esperimento, pensato ad hoc per il luogo privilegiato in cui si forgiano le generazioni future. Ed eccoci qui. Esperimento riuscitissimo. Dopo aver disintegrato i più giovani, nel fisico e nella psiche; dopo averli portati a forza al condizionamento interiorizzato; dopo aver depresso il grado di istruzione fino all’analfabetismo manifesto; dopo avere inibito sul nascere ogni potenzialità logica e creativa; insomma, dopo questo trattamento d’urto inflitto a coronamento di un lungo logorio pregresso, era maturo il tempo di organizzare finalmente la transumanza nel metaverso: vale a dire l’immersione in apnea in un universo onirico funzionale al controllo totale sui corpi e sulle menti. La Scuola 4.0 è la metascuola. Il 4 non si sa bene da dove venga, ma evoca la cifra ricorrente della rivoluzione progettata da noti consessi filantropici, tipo per esempio quello del signor Schwab e dei suoi compagni di merende, coronati e no. L’edizione italiana del manuale di istruzioni scritto da Schwab per il bene dell’umanità è casualmente prefato da John Elkann. Sempre casualmente, la Fondazione Agnelli, col suo osservatorio Eduscopio e tutti i satelliti intorno, da decenni ospita la cabina di regia del sistema scolastico italiano. Come si legge nel suo sito, la fondazione «ha concentrato attività e risorse sull’education (scuola, università, apprendimento permanente) come fattore decisivo per il progresso economico e l’innovazione…» eccetera eccetera. Il titolo del nuovo manifesto rivoluzionario sulla nostra scuola parrebbe quindi, ma potremmo sbagliarci, un omaggio allo Schwab e al suo illuminato programma di Quarta Rivoluzione Industriale. Un salto quantico verso la coltivazione differenziata della popolazione: da una parte i piani alti, che si istruiscono alla maniera di sempre (probabilmente persino in aule quadrate o rettangolari); dall’altra le masse subalterne, piazzate davanti agli schermi a galleggiare nella fiction, a premere tastini ed emettere suoni disarticolati, come tante scimmie ammaestrate, preda di automatismi indotti da stimoli diramati dalla centrale, sottratte all’esperienza, al contatto con le cose, alla vista, all’udito, al gusto, al tatto e all’olfatto. Destinate alla atrofia cerebrale. Sguardi, suoni, movimento, tutta quella fisicità e sensorialità che è parte integrante del processo di apprendimento, e che lo nutre, lo sostanzia e lo vivifica, nel disegno dei manovratori devono sparire. Deve sparire il “corpo a corpo” della lezione, deve sparire la palestra di vita che ogni classe rappresenta, e ha rappresentato per ognuno di noi. Deve sparire la penna, così come la carta, il libro e tutte le operazioni, a partire dalla calligrafia che, si sa, non si esauriscono nell’esercizio della manualità fine, che è già parecchio, ma sono collegate allo sviluppo di una serie infinita di attitudini superiori. Soprattutto, deve sparire l’umanità, fatta di carne e spirito, di pensiero e di creatività. Gli adulti sedotti dall’avanguardia digitale non ne comprendono appieno il grado di distruttività, perché nella loro esistenza hanno beneficiato del confronto con la realtà vera, nel suo bene e nel suo male, anche se ne sono dimentichi. In qualche modo, nella loro inconsapevole memoria immunitaria, possiedono ancora gli ultimi strumenti per padroneggiare i meccanismi della macchina. Non sarà così per quei figli che si vorrebbero far crescere nella landa gelida e desolata del nulla. A chiunque senta il rumore dell’onda di piena che sta travolgendo tutto quel patrimonio di bellezza e di senso che ci fa ancora da sfondo lontano, spetta il compito non procrastinabile di mettere in salvo il seme. Elisabetta Frezza
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30 Dicembre 2022 
La destra di oggi ha perso il legame con lo spirito della vita. Quella di ieri ha avuto il torto di realizzare politiche impiegando l’autoreferenziale diritto alla forza. Entrambe nulla hanno e hanno avuto a che vedere con il cosiddetto pensiero di destra. Cosiddetto, in quanto da sempre abbinato a politiche conservatrici e prevaricatrici. Se c’è un abbinamento da fare o quantomeno da prediligere è quello con lo spirito della vita. Quello che non ha a che vedere con la narrazione progressista. In un recente articolo, Marcello Veneziani scrive: “[…] molti autori della grande cultura di destra sono intraducibili in politica: autori come Julius Evola, Ernst Junger o Yukio Mishima non offrono sbocchi politici ma solitudini eroiche, passaggi al bosco, rifiuto della società di massa e del realismo politico”. Tutto vero, ma ad una condizione. Che l’attuale stato delle cose, la cultura del momento, squisitamente a sfondo materialista e meccanicista, venga data – o peggio, concepita – come definitivamente inamovibile. Una specie di Tina in campo culturale, o meglio esistenziale. Capisco che non è piacevole sentirselo dire. Spero, e chiedo in merito, una lettura fenomenologica della mia affermazione. Ma il punto non è per niente questa nota critica a Marcello Veneziani, uomo di spessore verso il quale non c’è in me alcun intento competitivo. Come potrebbe? Il punto è che la concezione materialista e meccanicista, nonché scientista della storia, è suntzuanamente certamente da legittimare al fine di riconoscerne logica e ragioni. Ma non è la sola come pretende di essere. Peggio, come la vulgata, salvo eccezioni, intellighenzia inclusa, crede sia. L’alternativa vedrebbe la presenza fattiva (“realismo politico”) anche dei tre intellettuali citati da Veneziani: Julius Evola, Ernst Junger, Yukio Mishima. Quantomeno del significato profondo del loro pensiero sull’uomo, la società e la vita. La modalità meccanicista che domina i nostri pensieri, le nostre scelte e le politiche ha ragione d’essere in un tentativo razionale di organizzazione sociale. È una modalità eccellente in contesto amministrativo, ovvero per quelle situazioni nelle quali tutti sanno tutto, dalle regole, ai ruoli, alla semantica, allo scopo, alla verità. Campi chiusi insomma. Estendere questa modalità logico-amministrativa al contesto relazionale aperto, ovvero intendere meccanicisticamente l’uomo, è all’origine di tutti gli equivoci, nonché di tutti gli attriti, malesseri, malattie, conflitti. In ambito relazionale, come settorialmente diverse scuole psicoterapiche, didattiche, semantiche hanno già implicitamente riconosciuto, la realtà oggettiva – a sua volta figlia del dominio dell’immaginario da parte della logica e del materialismo – diviene un dannoso, inconsapevole dogma. Secondo la formula che siamo universi diversi, in ogni persona ne vortica uno dal quale si estrae il necessario per definire la realtà. Definizione che rispetterà sempre la biografia che la elabora. A causa dell’incantesimo meccanicista, saranno tutte definizioni con tale matrice. Emanciparsi da questo DNA culturale, vederne i limiti, riconoscerne l’inopportunità se applicato in ambito relazionale, permette di riappropriarsi della vita, il cui ordine non è esauribile su un piano cartesiano, la cui infinità non può essere compressa in poche, seppure erudite, scatole logico-razionali. Ed è qui che i tre autori e tutta la concezione sottile dell’uomo ha ragione d’essere presa in considerazione. Quando, quanto e come sia possibile la decantazione di una concezione altra della realtà rispetto all’attuale – che accetta di buon grado di ridurre l’uomo a consumatore, a produttore, a merce, a elettore, a fenomeno economico, a replicante ideologico, pena la criminalizzazione e ghettizzazione, ad alienato, e ultimamente a futile, nonché neppure più sovrano del suo corpo, comunque sempre allineato e coperto in adunata sotto la bandiera del dirittismo e del politicamente corretto, meglio se individualista, edonista e votato all’opulenza – non è per nulla importante. Quest’uomo omologato, ormai virtuale come un videogioco, non sa cosa sia essere creativo, né che identità non corrisponde a una scelta, ma a una radice. Non sa che la sua formazione è destinata a essere funzionale a un sistema di valori che neppure sospetta possano essergli fatali. Non lo sa, ma il nichilismo con la sua carica mortificante incombe, così è contento perché va a sciare. Che fare? Nulla che pretenda il risultato, sarebbe una modalità a sfondo produttivistico. È solo necessario essere sul pezzo. Operare per promuovere una cultura evolutiva nelle occasioni che la vita offre significa alzare al massimo il rischio di successo di una concezione umanistica della cultura, della politica, della vita. La sola idonea a superare l’obbrobrio del pil come indice del benessere di una comunità. Come il terrazzamento di un intero versante, che avrebbe richiesto l’opera continuativa di più generazioni, non intimoriva il primo uomo che ne aveva avuto visione nonostante la fitta vegetazione, e non intimoriva neppure tutti coloro che lo avrebbero nel tempo realizzato, così, stando sul pezzo lo avevano portato a termine e la comunità ne avrebbe goduto. Allo stesso modo, con pari dedizione e continuità, sarebbe da intendere il lavoro in corso per un cambiamento evolutivo di paradigma. Se i montanari dissodavano senza interruzione, noi lanceremo messaggi di deliberata bellezza nella bottiglia. Tra le onde, faremo semplicemente ciò che ogni naufrago dell’attuale mortifera burrasca politico-culturale non esiterebbe a fare, unendovi tutta l’energia che la sua visione di cambiamento richiede. Proprio come i montanari. Tempestoso mare immondo, le cui paurose onde non sono che l’inerzia della vulgata non solo popolare, perché ora fanno corpo anche gli intellettuali. In cima ai marosi, spumeggianti di vuota vanità, troviamo le vaporizzate istituzioni, definitivamente separate da ciò di cui dovrebbero occuparsi. Per quanto riguarda la cosa pubblica, va riconosciuto all’arguto selettore capitalistico il nefasto merito di aver prodotto la sua razza capolavoro, non a caso ora sua cagna da guardia, chiamata Politica. Viviamo così entro un catino di forzati guerrieri in lotta individual-civile. A pieno diritto, ci diamo da fare non nel rispetto dei vizi capitali, ma in quello del business is business che, all’opposto, li rinnega tutti. In suo nome, in nome di quel dio, possiamo arrivare a fare di tutto per la conquista della rampa che conduce al piano di sopra. La dedizione per ascendere al palazzo di Babele può durare una vita. Non sospettiamo l’elevato rischio di finire con sorpresa dritti ad affacciarci infine al vuoto della perdizione esistenziale, sempre disponibile al di là dei cristalli. Appena le opportunità ci offriranno la consapevolezza di aver dedicato anima e corpo – in senso stretto – ai valori effimeri, di un mondo che neanche Truman Burbank era stato bastato a dimostrarci che era fittizio, nel nero staremo precipitando. Che altro sono le crescenti psicopatologie, bulimie e neoplasie, nonché i vari mitra scaricati a scuola, se non sintomi di quel precipitare nel vuoto di questa cultura? Diversamente da quanto afferma Veneziani: “[…] solitudini eroiche, passaggi al bosco, rifiuto della società di massa e del realismo politico”, quei tre e molti altri, non certo ultimi né il Cristo né il Buddha, avrebbero motivo e ragione di non far parte della congrega socio-politica, per la realizzazione di un altro realismo politico. Oggi, da chi ne ha coscienza, perdentemente lasciato a nutrire l’utopia. Se possiamo chiamare uomo compiuto la persona con le consapevolezze idonee alla sua emancipazione dalle ideologie, dai luoghi comuni, dall’attribuzione di responsabilità, dal vittimismo, dalla personalizzazione dei fenomeni, e così via, questo ha ragione di scaturire da una cultura che abbia incarnato in sé, e perciò mantenuto, il legame con il volume dal quale tutta la storia diviene. Platone lo chiamava iperuranio. In esso vi è già tutto. Soltanto l’uomo inconsapevole pensa perciò che la sua competenza logico-analitico-scientista possa portare alla verità, come la formula “in cerca della più piccola parte della materia” ben rappresenta. Quell’uomo è inetto a vedere nel suo fare il limitato campo in cui può sostenerlo e l’implicazione blasfema che comporta quando, come sempre accade, assurge a verità definitiva. Per spiegazioni, chiedere a Julius, Ernst e Yukio. E già che siamo in tema di domande, chiediamoci anche quale tipo di politiche e di società metterebbe in essere l’uomo compiuto. Il terrazzamento non è un’utopia e se lo fosse la boscaglia sarebbe rimasta al suo posto. Lorenzo Merlo
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29 Dicembre 2022 
Da Rassegna di Arianna del 27-12-2022 (N.d.d.) L’argomento principale di Immanuel Kant a proposito della necessità morale di non mentire era che la menzogna non era una pratica sostenibile, mentire non era una massima universalizzabile, in quanto un mondo in cui tutti mentissero era un mondo in cui la parola, il pensiero e la legge avrebbero perduto ogni valore. Oggi siamo piombati nel mondo prefigurato da quella riflessione kantiana. Oggi sui grandi media, sui veicoli della visione del mondo che tutti siamo tenuti ad avere in comune, imperversano i fabifazi e le michelemurgie, le concite e i parenzi, un'intera ubertosa selva di ripetitori con variazioni-dillo-con-parole-tue di ciò che è gradito ai detentori del potere. Non bisogna pensar male e ritenere che questa sterminata accolita di ripetitori con variazioni siano volgarmente stipendiati a cottimo per ciascuna menzogna. Niente affatto. Si tratta di soggetti il cui solo talento umano consiste nell’innamorarsi perdutamente delle idee di chi può pagarle. Ma così, per caso, spontaneamente, una seconda natura. E quanto alle libere praterie della rete, per capirne il funzionamento odierno basta dare un’occhiata ai Twitter Files che un imprevisto cambio di padrone in un social ha fatto trapelare. Catene di comando dirette che portano dalle agenzie di sicurezza americane alle operazioni di oscuramento e selezione manipolativa sui social. I grandi social sono una tonnara, dove dapprima si sono fatti entrare gratuitamente centinaia di milioni di utenti, come nel paese dei balocchi, con l’illusione di dare corpo ad una nuova forma di democrazia reale, solo per poi chiudere le reti e condurre i tonni alle scatolette di destinazione. (Con il plauso degli imbecilli terminali che “sono-privati-possono-fare-quello-che-gli pare”). Ma a prescindere dagli intercambiabili e dimenticabili protagonisti di questa stakanovista produzione di menzogne, ciò che bisogna affrontare è il risultato sistemico, che è esattamente quello prefigurato sopra: viviamo tutti in una bolla, un mondo irreale e derealizzato, che è l’unico mondo che io e il mio vicino abbiamo davvero in comune, e che si divide tra semplicemente inaffidabile e intenzionalmente manipolato. Cosa “si” sa? Di cosa possiamo parlare in comune, su cosa possiamo accapigliarci e dibattere politicamente con gli altri cittadini, se non su questo mondo fittizio, modellato da catene di filtri a monte, che ci arriva confezionato in casa su qualche schermo? Certo, esiste la possibilità di una lotta di minoranza che si affatica a trovare le incongruenze, a sfruttare gli occasionali errori e le imperfezioni di un sistema che, come tutti i sistemi di potere quasi onnipotenti, tende a diventare sciatto. Però la semplice verità è che questo tipo di lotta richiede energia, intelligenza, coraggio, capacità di resistere all’isolamento e alle frustrazioni, tutte qualità che sono e saranno sempre patrimonio di esigue minoranze. Il maggior risultato di questa costruzione di un edificio costante di menzogne non è tanto la ferrea persuasione ideologica dei più, ma la caduta in discredito della realtà (di quella che viene fatta passare per tale). Tolta la minoranza dei combattenti, grosso modo la popolazione sottoposta a questa “cura Ludovico” king-size si divide in due grandi gruppi. Da una parte ci sono i conformisti arrabbiati, i nuovi bigotti del politicamente corretto, i progressisti fobici, i benpensanti militanti che, forse perché percepiscono la fragilità del loro mondo di credenze ufficiali, vi si aggrappano in modo virulento e cercano di obliterare e screditare e azzannare chiunque vi si opponga anche marginalmente. Per rifarsi ad una vecchia categorizzazione di Umberto Eco, questi sono al tempo stesso apocalittici e integrati: sono completamente integrati nel sistema e lo sostengono con la ferocia apocalittica dei millenaristi. Sono gente che sembra aver già inserito nella propria corteccia il microchip dell’indignazione morale permanente, e che la applica rigorosamente al solo catalogo approvato dai datori di lavoro. Questi “Guardiani dell’Illusione” probabilmente avvertono ad un qualche livello che la finzione è tale, ma è proprio solo la finzione a dargli conforto, calore, intrattenimento, denaro e come per la zecca il mondo si conclude dove essa può annidarsi e succhiare sangue, così questi si attestano nella loro nicchia ecologica che gli consente di passare dalla culla alla tomba senza troppi grattacapi. Dall’altra parte esiste una grande massa scettica, che ha capito abbastanza da non credere a ciò che passa il sistema, o a crederci con mezzo cervello, ma che non ha l’energia, o la preparazione o il coraggio per cercar di ottenere un diverso accesso alla realtà. Questi rappresentano la più grande vittoria del sistema, che facendone degli scettici disillusi senza speranza ne disinnesca ogni potenziale pericolosità. Nelle nuove generazioni questa vittoria tende ad essere totale: rinchiusi in piccoli mondi prêt-à-porter, brandizzati, la parte più sveglia della gioventù riesce solo a credere fermamente che non si possa credere a niente, e in nulla (quella meno sveglia sogna unicorni fluidi ecosostenibili). Stiamo nuotando in una boccia di pesci rossi, con i vetri dipinti di colori sgargianti, in caduta libera, contando sul fatto che il pavimento non arrivi mai. Ma la realtà non cessa di esistere per il fatto di essere rimossa. Semplicemente come sempre avvenuto nella storia, quando ci si allontana troppo e troppo a lungo da essa, farà sentire la sua voce spezzando la schiena al nostro mondo di filtri e schermi, di millenaristi a gettone, di solipsisti enervati. Non illudiamoci però, nessuna Rivelazione, nessuna confortevole Illuminazione ci aspetta. Ci sono rare epoche in cui la verità prova a filtrare come un messaggio (la “buona novella”), ma di solito essa si fa spazio nella sua forma originaria e primitiva, come schietta catastrofe. (E peraltro anche la buona novella dovette attendere il collasso di un impero per diffondersi). Andrea Zhok
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