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Sfiatatoi del disagio PDF Stampa E-mail

7 Marzo 2015

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Da Il Ribelle, quotidiano on line, del 5-3-2015 (N.d.d.)

Venticinquemila o sessantamila? Poco conta. Ci si chiede se oramai la forza delle idee – meglio, della pancia - abbia corrispondenza nei numeri che si registrano nelle piazze. Grillo ne aveva portati molti, ma molti di più di Salvini. Eppure vediamo oggi quanto peso politico hanno i 5 Stelle sia in Parlamento che fuori: annichiliti nelle stanze dei palazzi, incompresi fuori.

Si è aperto nuovamente uno spazio, insomma, tra gli arrabbiati e i delusi: ed è naturale che un giovane dalla buona parlantina e dal piglio deciso che fa leva sugli istinti più che sulle ragioni, un seguito fisiologico riesca ad averlo. È il gioco delle valvole di sicurezza connaturate alle democrazie occidentali di questi tempi: sfiatatoi del disagio. Così, spariti nel tritacarne mediatico e digeriti gli oramai “vecchi” vaffanculo grillini, sono arrivati quelli di Salvini. Oggi l’opposizione al sistema politico-istituzionale in Italia è questa: l’invito a fare usi alternativi del fondoschiena. A nord, centro e sud, isole comprese. Certo, a voler ricordare gli epiteti con cui Salvini etichettava gli italiani residenti più a sud del Po, il tentativo del leader leghista di trovare consensi nel resto d’Italia sembra essere andato più che bene: almeno tra le fila di chi oggi si mette in coda nella speranza di salire su un Carroccio in crescita. Le alleanze meridionali di Salvini si possono spiegare così, nella necessità di essere presenti su territori una volta sconosciuti (e schifati).

Ad uso e consumo del potenziale elettorato Salvini ha confezionato il pacchetto: un guazzabuglio di slogan securitari, appoggio incondizionato a pistoleri di ogni risma – in divisa e no - appelli anti-islamici e dove una volta si gridava “prima il nord” si è esteso il concetto a tutti gli italiani. Perché se allora il nemico era il terún, oggi è l’immigrato. E lo è anche per gli ex odiati meridionali, anche loro, oggi, terrorizzati da una crisi che li costringe a trovare a loro volta un nemico che viene da luoghi ancora più a sud delle loro terre. Che poi il “terrone medio” decida di mettere un voto nell’urna e una pietra sopra agli antichi insulti è tutto da vedere. La ripresa leghista resta al nord e non è detto che estendere al centro-sud le parole d’ordine che tanto piacciono all’elettore del Carroccio possa avere lo stesso effetto altrove.

Non esiste, in tutto questo bailamme di meccanismi pavloviani, nessuna critica alle ragioni vere del terrore, della crisi, di quella che viene definita un’invasione. Un accenno al reale scopo dell’immissione nel mercato del lavoro di masse di diseredati in fuga da disastri a firma occidentale.

Le ragioni non portano voti. Non c’è critica al modello economico attuale, perché questo modello, in cui tutto è e deve essere monetizzabile, in cui il brand ha più valore degli oggetti stessi, in cui tutto questo deve e vuole essere consumato, è il modello che permea la platea di elettori che costituisce le basi stesse della Lega. E che è nato e si è radicato nel profondo nord delle fabbrichette, degli imprenditori con villa e servitù, dove è questo il modello economico scelto e voluto. Erano i perfetti interpreti del modello occidentale globalizzato, resi tali da un ex benessere diffuso fino al confine invalicabile del Po. Erano loro gli elettori del Carroccio, quelli che al nord si facevano un fondoschiena così per arrivare, per sperare e sognare la villa, la macchina nuova, il Rolex, la settimana bianca. Lo spaccato vanziniano, per nulla lontano dalla realtà, che per anni ha dato lo spunto a film natalizi più reali della fiction buona a far cassetta. Chi aveva e chi aspirava ad avere, magari drogato dalla “democrazie delle finanziarie” che garantivano il benessere a rate. Ciechi e incoscienti.

E non solo al nord. Leghisti vecchi e nuovi non hanno capito le ragioni profonde del tracollo, rivogliono solo il potere d’acquisto di una volta, il potere di sognare che faceva da sfondo a quegli anni. Di quando l’immigrato (extracomunitario o terrone pari erano) andava bene, pagato in nero in fabbrica o a fare le pulizie in casa. Di quando i “nuovi arrivi” erano oggettivamente di meno e non concorrevano a dividersi con gli indigeni il poco rimasto da spartire. Ma erano altri tempi, baby: la crisi economica non mordeva e le grandi masse di disgraziati in fuga ancora non si andavano ad assiepare su gommoni o a nascondere nel doppio fondo dei camion per attraversare le frontiere.

Non è facile collegare i fatti, non per tutti esiste un legame tra i grandi flussi di persone e i sistemi finanziari che hanno ridotto al fallimento interi stati, che hanno nascosto la predazione di risorse nei paesi meno sviluppati e il furto dei diritti acquisiti in quelli più avanzati.

Sarebbe il ruolo di chi si candida a difendere e guidare i popoli spiegare tutto questo. Nessuno lo fa. C’è chi racconta panzane, chi promette la luna, chi finge di voler cambiare tutto e continua a fare gli interessi di pochi. E dall’altra parte chi invece gli urla contro, facendo perno su concetti semplici, immediati, sul qui e ora. Non c’è una scelta fra i due nei nostri sistemi democratici, a turno diventano intercambiabili. Ora è il turno dei leghisti alzare la voce. Loro rivogliono il loro stile di vita, il loro piccolo mondo in cui l’Africa al massimo è Malindi e i suoi resort all inclusive. E per questo sono disposti ad allearsi con chiunque.

Chi glielo spiega, ai nuovi leghisti del sud, che a tornare terroni ci si mette un attimo?

 

Alessia Lai 

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