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Anticapitalismo di destra e conservatorismo di sinistra PDF Stampa E-mail

30 Giugno 2023

 Da Comedonchisciotte del 28-6-2023 (N.d.d.)

La postmodernità è l’epoca nella quale il superamento delle barriere filosofiche e politiche, già annunciato nel XX secolo, potrebbe avere sviluppi inaspettati attraverso la rimodulazione delle assialità portanti del discorso politico. Tutto ci dice che le nuove assialità non avranno più a che fare con le vecchie categorie destra-sinistra – a dire il vero anch’esse, nelle vicende della modernità, dimostratesi molto più dinamiche che immobili o paradigmatiche – ma con nuove categorie quali quelle liberal/comunitari, identitari/globalisti, organicisti/individualisti. In un tale contesto sta emergendo a sinistra uno sforzo inteso al recupero del pensiero conservatore in funzione anti-liberale ovvero un cambiamento culturale per recuperare l’organicismo comunitario, nelle sue varie formulazioni e riformulazioni da quella reazionario-tradizionalista ottocentesca a quella rivoluzionario-conservatrice novecentesca, contro l’individualismo contrattualista sul quale è fondata la modernità. A dire il vero questo recupero appare, guardandolo da destra, piuttosto come una ammissione a sinistra delle ragioni degli anti-moderni. […] Del resto, che una “tentazione” antimoderna fosse presente nello stesso marxismo apparve chiaro sin da subito. Perché se è vero che Marx, nel Manifesto del 1848, fa l’elogio progressista della funzione rivoluzionaria della borghesia – la quale, con il suo freddo calcolo economistico, disincanta il mondo, raffredda gli slanci mistici, dissolve i variopinti legami comunitari che nell’età premoderna legavano l’uomo all’uomo, nega l’aulica ispirazione di poeti ed artisti – è altrettanto vero che tra le righe del suo pensiero trapelano, talvolta, elementi profondamente antimoderni, che si sarebbero fatti strada nella cultura di sinistra sino a caratterizzare opere importanti quale “La Grande Trasformazione” di Karl Polanyi. Un esempio dell’antimodernismo di Marx possiamo trovarlo nel primo capitolo di “Miseria della Filosofia” laddove il pensatore di Treviri, critico delle trasformazioni antropologiche intervenute nel passaggio dal premoderno al moderno, scrive: «Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. É il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale o fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto prezzo”. Questa vena di antimodernismo presente in Marx è molto interessante perché da destra si dovrebbe insistere molto su questo filone antimoderno interno alla sinistra. Nuove inedite sintesi potrebbero ricavarsene. In tal senso il saggio di Sarah Wagenknecht “Contro la sinistra neoliberale” (Fazi Editore, Roma, 2022), nel quale da sinistra è recuperato il pensiero conservatore anticapitalista, è un buon inizio. Sarah Wagenknecht è stata leader della sinistra radicale tedesca. Nel saggio in questione, l’autrice elabora una forte critica alla deriva neoliberale e neoliberista della sinistra occidentale ma fonda tale critica non tanto sul pensiero di sinistra quanto invece sul recupero del pensiero organicista, conservatore e tradizionalista della destra. La Wagenknecht si è in sostanza accorta che il pensiero di destra – checché ne dicano e ne pensino taluni poco informati – è molto più radicalmente antiliberista di quello della sinistra culturalmente figlia del razionalismo dal quale è nato il capitalismo. Emerge dunque che tra “conservatorismo” o “tradizionalismo” e “socialismo” di tipo non liberale, quindi non marxista (Marx, in quanto antipolitico ed antistatalista, era un grande liberale), sussistono forti e reciproche connessioni tali da farli potenzialmente convergere, nella comune avversione al liberalismo e all’individualismo, in una inedita proposta politica e culturale. La domanda, pertanto, è se, al di là dei labili e fragili concetti di “destra” e “sinistra”, non possa enuclearsi un “socialismo conservatore” ovvero un “conservatorismo socialista” definiti dalla comune lettura comunitaria della vita, richiamando sulla scena storica le radici tradizionali quali presupposti per la realizzazione dell’equità sociale nella redistribuzione della ricchezza prodotta dalla comunità nazionale. […] Ora, se la coesione sociale ha bisogno di radicamenti tradizionali, la Patria non è più il luogo del nazionalismo colonialista e non è più un concetto borghese ma si rivela realtà comunitaria intrisa di socialità, unico solido fondamento per un socialismo che non sia astrattamente cosmopolita. Che soltanto in un quadro patriottico fosse possibile realizzare un socialismo organico era già stato affermato a suo tempo dal socialismo risorgimentale nella scia democratica del mazzinianesimo. Nel XX secolo ritroviamo questo socialismo patriottico in diverse esperienze politiche come quelle dei Paesi in via di industrializzazione, ad esempio l’Argentina peronista o l’Egitto nasseriano (strettamente imparentati ai fascismi europei), ma anche di Paesi ad industrializzazione avanzata, come la Francia gollista, fino a Paesi dichiaratamente socialisti quali la Cuba di Fidel Castro e Che Guevara che del “Patria o muerte” hanno fatto la propria insegna antimperialista ed antiamericana (una scelta che non può comprendersi in pieno obliterando, come sovente si fa, le origini falangiste “joseantoniane” di Castro e quelle peroniste di Guevara, per le quali rinviamo al nostro contributo rintracciabile qui https://www.francocardini.it/minima-cardiniana-224-2/). Non solo, perché il patriottismo fu rivendicato anche da Palmiro Togliatti, in un articolo significativamente titolato “Il patriottismo dei comunisti” uscito su “Rinascita” nel luglio-agosto 1945, ossia a guerra civile ancora latente, nel quale il segretario del Pci scrisse: «È ridicolo pensare che la classe operaia possa staccarsi, scindersi dalla nazione. La classe operaia moderna è il nerbo delle nazioni. I comunisti, che sono il partito della classe operaia, non possono dunque staccarsi dalla loro nazione se non vogliono troncare le loro radici vitali. Il cosmopolitismo è una ideologia del tutto estranea alla classe operaia. Esso è invece l’ideologia caratteristica degli uomini della banca internazionale». Nello scrivere tali parole Togliatti, memore della lezione del fascismo che tentò di unire classe e nazione ossia socialismo e patriottismo, richiamava implicitamente il suo “Appello ai fratelli in camicia nera”, da lui firmato e pubblicato nel 1936 sulla rivista parigina “Lo Stato Operaio”, nel quale, all’interno di una strategia entrista nel momento del massimo consenso popolare al regime, invocava la “santa alleanza per la comune battaglia per il pane ed il lavoro” tra comunisti e fascisti di sinistra. Togliatti, nonostante fosse in esilio, aveva osservato che, dopo la delusione seguente ai compromessi nel decennio precedente tra il regime e i fiancheggiatori di destra, i fascisti di sinistra, ossia i veri fascisti, negli anni Trenta, con l’avallo ufficioso dello stesso Mussolini (il quale giunse persino a sostenere la tesi della “corporazione proprietaria” di Ugo Spirito ossia la nazionalizzazione dei mezzi di produzione attraverso le corporazioni in una sorta di corporativismo comunista basato sull’“azionariato dei produttori”), stavano scalando le gerarchie fino al vertice. Si trattava, come ha spiegato Renzo De Felice, di quel “secondo fascismo” sempre più emergente, in quegli anni, nelle riviste e nelle organizzazioni giovanili del regime. Questo neofascismo prebellico si richiamava idealmente alle origini diciannoviste ossia socialiste del movimento fascista. Togliatti aveva ben colto queste spinte interne al regime favorite dalla svolta dirigista decisa per fronteggiare gli effetti della crisi del 1929 (istituzione dell’Iri, promulgazione della Legge Bancaria del 1936 con la nazionalizzazione della Banca centrale, rafforzamento degli strumenti di previdenza sociale ad iniziare dall’Inps, rivitalizzazione dei sindacati). Per gli stessi motivi per i quali prima della guerra aveva cercato di immettere elementi comunisti nel fascismo di sinistra, nel 1946 Togliatti, come ebbe a dichiarare in un’altra intervista manifestando toni di stima ed intenti pacificatori verso i “giovani idealisti” che avevano scelto di aderire a Salò, appoggiò l’amnistia onde cercare di attrarre i fascisti di sinistra nel Pci (vi riuscì solo in parte perché un’altra parte degli eredi dell’esperienza della Repubblica Sociale fondarono il Msi, che inizialmente non era affatto “destra nazionale” e lo diventò soltanto con la svolta moderata degli anni ’50). Insomma, Togliatti, tra il 1936 ed il 1946, riconobbe che Mussolini lo aveva preceduto, già dal 1914-1919, sulla strada della nazionalizzazione, del socialismo, intuendo che socialismo e patriottismo non sono opposti ma piuttosto sinonimi. Non a caso, nel dopoguerra Togliatti additò la “via nazionale al socialismo” quale orientamento ideale e storico del suo Pci.[…]

Dobbiamo abbandonare l’idea consolidata ma infondata che il conservatorismo identitario abbia come nemico il socialismo. Certamente è sua nemica la dialettica materialista marxista che è stretta parente del materialismo capitalista, come ha ben compreso un neomarxista quale Diego Fusaro che non a caso rilegge Marx in chiave idealista come già, a suo tempo, aveva fatto Giovanni Gentile sia in età giovanile (“La filosofia di Marx”) sia in tarda età (“Genesi e struttura della società”) occhieggiando ad un “comunismo spiritualista”. Il vero nemico del conservatorismo identitario è il liberalismo/liberismo, quindi anche ciò che di liberistico sussiste nel marxismo. Il liberalismo ha ampiamente conquistato anche la sinistra grazie al cavallo di Troia dell’internazionalismo tradotto capitalisticamente in globalizzazione. Un filosofo di grande acume intellettuale come Andrea Zhok ha individuato nel “progressismo liberale” il nemico della stessa natura umana e, quindi, di qualsiasi capacità relazionale dell’uomo (si veda il suo sintetico ma concettualmente denso saggio “Oltre destra e sinistra: la questione della natura umana”, Il Cerchio, 2023, ma anche l’intervista concessa a Francesco Borgonovo su “La Verità” del 4 giugno 2023). […]

Diventa necessario prendere o, meglio, riprendere, consapevolezza che il senso di comunità è connaturato all’uomo. Già Aristotele aveva compreso che l’uomo ha una natura sociale. Tommaso d’Aquino e l’intero medioevo hanno ribadito l’assunto in chiave cristiana. Ma tale veritativa evidenza, che non ha bisogno di dimostrazione come non ne ha bisogno il sole splendente in cielo, è presente in tutte le culture umane, ad ogni latitudine ed in ogni epoca storica. Soltanto nell’Occidente moderno, a partire dal XV-XVI secolo e poi con forza sempre maggiore dal XVIII fino al XXI secolo (motus in fine velocior), il solipsismo individualista, man mano che si imponeva la secolarizzazione, ha scalzato ogni solidarietà comunitaria sostituendo l’organicismo con il contrattualismo sociale. Questo rilievo storico ed antropologico, ancor prima che filosofico e teologico, diventa oggi un potente spartiacque tra nuove categorie politiche che attraversano quelle, ormai obsolete, di “destra” e “sinistra” come le abbiamo fin qui conosciute. Si tratta, pertanto, di comprenderlo sia a destra che a sinistra perché la auspicabile formazione di nuovi schieramenti potrebbe riservare sorprese, neanche tanto inedite (perché soluzioni già tentate nel corso del XX secolo), e riorientare il dibattito politico in modo che apparenti “nemici” di ieri possano scoprirsi insospettabili “amici” di oggi. «Una sinistra che ridicolizzi il pensiero comunitario e i valori che da esso derivano perde consensi e diventa sempre più ininfluente. Ma non si tratta solo di questo. La vera domanda è un’altra: i valori comunitari sono davvero invecchiati e superati? Il desiderio di vivere in un mondo fidato e riconosciuto, di avere posti di lavoro sicuri, di risiedere in quartieri tranquilli e godere di rapporti familiari stabili è davvero un sentimento retrogrado? Oppure questi valori non sono invece un’alternativa molto più convincente al capitalismo sfrenato, che si fa portavoce dell’individualismo, dell’autorealizzazione priva di vincoli, dell’idea tipica del liberalismo di sinistra di essere cittadini del mondo, un’idea che, guarda caso, si adatta particolarmente bene all’ambiente economico dei mercati globali e alle aspettative di mobilità e flessibilità delle imprese?» (Wagenknecht a pag. 290). Se, quindi, il consapevole senso comunitario definisce l’uomo in quanto uomo, è conseguenziale che la convivenza umana ha bisogno di stabilità e di reciproca fiducia. Cose queste che si trovano soltanto nella Gemeinschaft (comunità organica), e non nella Gesellschaft (società mercantile), per usare gli idealtypus di Ferdinand Tönnies, ma che a loro volta necessitano di una radice ben piantata nel Sacro, prima ancora che nel Politico, sicché il luogo primo e principale nel quale il senso comunitario si manifesta non può che essere la famiglia, l’ambiente primordiale nel quale l’uomo nasce e prende consapevolezza della sua umanità. […]

Nessuno stabile ordinamento comunitario della vita sociale può sussistere se non è costruito sui “valori tradizionali”, che sono quelli discendenti dal retaggio spirituale, sacrale, e dalla storia di un popolo. Principi tradizionali che non sono elaborazione dell’uomo, né in quanto popolo né in quanto singolo, ma da lui, sia come popolo che come singolo, ricevuti, accolti, custoditi e trasmessi di generazione in generazione, magari nella dinamica variabilità delle forme esteriori ma nella stabilità intrinseca della loro essenza. Cambiano le forme di famiglia, monogamica o poligamica, ma essa è tale soltanto se eterogamica. Cambiano i riti della vita sociale o di quella amicale ma ogni pur storicamente varia comunità è tale solo se costituisce una “unità organica” . […] Le forme storiche mutano ma i principi tradizionali che rendono salda una comunità restano sempre gli stessi, rendendo palese la verità del conservatorismo inteso come conservazione dell’essenza principiale, di per sé imperitura, e non delle forme storicamente superate. In tal modo la Tradizione diventa l’unico vero “progetto per il futuro”. Un progetto che si pone oltre la destra e la sinistra proprio perché su di esso possono convergere e reciprocamente intendersi conservatori (non liberali) e socialisti (non marxisti), purché gli uni comprendano che la conservazione delle identità e della cultura nonché dei principi spirituali non significa affatto anche conservazione di una iniqua distribuzione della ricchezza comune e purché gli altri comprendano che senza quel mondo di relazioni e solidarietà che discendono esclusivamente dal comune sentire identitario nessuna redistribuzione della ricchezza avrà mai un solido, duraturo e stabile fondamento. Chi difende le identità tradizionali dei popoli non può farlo come paravento di assetti sociali che, per dirla con il catechismo di san Pio X, “gridano vendetta al cospetto di Dio”. Ma chi lotta per la giustizia sociale non può farlo nella negazione delle identità tradizionali dei popoli che della giustizia sociale sono la migliore garanzia. […]

Il comportamento umano dipende molto più di quanto si pensi dalle tradizioni ereditate che costituiscono il cuore della identità personale e comunitaria. L’idea stessa di giustizia è filtrata attraverso le tradizioni identitarie. L’eredità filosofica e politica del conservatorismo sta proprio nel riconoscimento del ruolo fondamentale svolto dalle tradizioni e dalla cultura di appartenenza per la coesione sociale. Virtù sociali e qualità umane come la moderazione nella ricchezza, la riservatezza, l’affidabilità, la fedeltà, la lealtà e l’amicizia sono da sempre l’apprezzato prodotto di esperienze comuni e del tramandamento spirituale ossia della Tradizione sacrale di un popolo. Le persone che manifestano virtù e qualità socialmente riconosciute sono meglio disposte a vivere e lavorare insieme e con maggiore sicurezza, in quanto si sentono parte della comunità e nutrono lealtà verso di essa ed i propri simili che ne sono membra. Certe qualità sociali come l’impegno e la disciplina nel lavoro, la fatica e lo sforzo, la professionalità e la precisione, ci vengono dalla tradizione borghese ed artigianale del medioevo ma sono ancora oggi molto vive nella classe operaia e nel ceto medio. Si lavora meglio insieme laddove si nutre fiducia nel reciproco impegno per il bene comune fidandosi delle qualità del prossimo, al quale si è indissolubilmente legati da vincoli spirituali, naturali, culturali o territoriali. Vincoli che impongono e giustificano l’equa ripartizione della comune ricchezza prodotta dal comune lavoro benché nella distinzione di ruoli e funzioni. In un’economia basata sulla fiducia comunitaria anche la distribuzione della ricchezza ne risulterà agevolata. Partendo dalla considerazione che il libero mercato e la ricerca sfrenata del profitto hanno un potere distruttivo nei confronti dei valori tradizionali e dei vincoli di comunità riconosciuti, la Wagenknecht ne conclude che un’economia il cui motore centrale consiste nell’idea di ricavare sempre più denaro dal denaro poggia su un freddo calcolo di costi e benefici per il quale tradizione e costumi, religione e morale non sono che elementi di disturbo. Laddove si debba calcolare ogni cosa, gli oggetti perdono il loro senso e il loro valore immanenti. La disuguaglianza crescente mina la fiducia, la coesione e l’empatia, dal momento che gli uomini che vivono in mondi completamente diversi e non incontrano più gli altri strati sociali si sentono sempre meno parte di una medesima comunità ed unità di destino. Già al suo esordio il capitalismo comportò la frammentazione delle comunità, la distruzione dei beni comuni e lo sradicamento degli uomini, che vennero strappati ai propri legami consueti e al ritmo di vita tradizionale e consegnati ai mercati e alle macchine, ai cui ritmi si dovettero da quel momento sottomettere. In effetti la critica di Karl Marx per il quale il capitalismo riduce la “dignità personale (ad) un semplice valore di scambio” lasciando “tra uomo e uomo (nessun) altro vincolo che il nudo interesse”, ovvero “lo spietato pagamenti in contanti”, non è soltanto la descrizione della realtà sociale del suo tempo quanto, invece, una linea di sviluppo che si è fatta palese soprattutto nel capitalismo globalizzato e finanziario del nostro secolo. Ma – ecco il punto – una economia che distrugge le tradizioni, i valori ed i vincoli di comunità, distrugge il collante che tiene insieme la società ed alla lunga diventa umanamente insostenibile. Senza una certa dose di vincoli e valori comunitari viene meno la stessa “res publica”, ossia la cosa pubblica “comune”. Senza il sentimento di appartenenza comunitaria nessuna democrazia riesce a sopravvivere. Lo sapevano già Platone e Aristotile. In un ordinamento liberale si perde di vista il nucleo fondamentale del vivere umano ossia la codecisione delle scelte strategiche della comunità e di conseguenza i gruppi di interesse più influenti finiscono per dominare sulla politica. […] Senza i vincoli di comunità non ci sono “compiti comuni” per lo Stato, si perde completamente l’idea stessa del “bene comune” come tramandataci dalla tradizione spirituale e filosofica cristiana ed europea. Tutti i beni che un tempo erano considerati pubblici – abitazioni, servizi di comunicazione, imprese dei trasporti nonché di fornitura di acqua e di energia elettrica – diventano oggetto del mercato e vengono privatizzati. Non può esserci solidarietà laddove sono assenti vincoli e valori comuni. Quei vincoli e valori che derivano dall’identità storica e, prima ancora, spirituale di un popolo. L’Europa postbellica ha realizzato lo Stato sociale che, tuttavia, non sarebbe mai nato senza il fondamento spirituale e storico della tradizione europea. […]

La Wagenknecht addita espressamente la necessità ineludibile di un “conservatorismo di sinistra” che sappia mettere insieme conservazione delle identità e coesione sociale nella redistribuzione della ricchezza. Probabilmente la nostra autrice non sa che tale unione di Tradizione e Giustizia Sociale era quanto già proponeva, a suo tempo, negli anni Trenta del secolo scorso, José Antonio Primo de Rivera, il fondatore della “Falange Espanola de las Juntas de Offensiva Nacional-Sindicalista” laddove essa propugnava un programma anticapitalista ed anti-latifondista di ampie riforme sociali – “Patria, Pan y Justicia” – che aveva la sua sintesi nel contemporaneo rifiuto della “derecha”, perché la destra vuol conservare tutto anche l’ingiustizia sociale, e della “izquierda”, perché la sinistra vuol distruggere tutto anche l’eredità identitaria del popolo. Il nostro riferimento è, naturalmente, al falangismo nazional-sindacalista delle origini, il quale con il successivo franchismo non ebbe nulla a che fare, nonostante la retorica e strumentale utilizzazione che il regime nazional-conservatore ne fece, snaturandolo, allorché nella tragedia della guerra civile, che José Antonio cercò di evitare in ogni modo ma inutilmente, persero la vita i suoi capi, lo stesso José Antonio, Onesimo Redondo Ortega e Ramiro Ledesma Ramos.[…]

Con la globalizzazione neoliberista, adducendo false promesse palingenetiche di un nuovo “sol dell’avvenire” in chiave capitalista per la realizzazione del “migliore dei mondi possibili”, L’individualismo sradicatore del primo capitalismo è tornato a impadronirsi delle coscienze ma in modalità postmoderne ossia più tristemente sofisticate per via dell’emergere dell’egemonia della finanza speculativa sull’economia reale. Attualmente stiamo assistendo ai contraccolpi del liberismo cosmopolita ed ai suoi conseguenti disastri politici, sociali ed economici, non esclusa la guerra russo-ucraina. Da qui l’urgenza di ripristinare un clima spirituale e culturale, un état d’ esprit, favorevole alla dimensione comunitaria del Politico recuperando – da sinistra a destra e da destra a sinistra – il pensiero conservatore che, nella critica all’individualismo e nella difesa dell’identità tradizionale dei popoli, ha caratterizzato quel magmatico movimento di pensiero che Giorgio Galli e Luca Gallesi hanno definito “anticapitalismo di destra” e che, da parte sua, la Wagenknecht chiama “conservatorismo di sinistra”.

Luigi Copertino 

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