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Un mondo autoreferenziale PDF Stampa E-mail

3 Luglio 2023

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 Da Comedonchisciotte del 29-6-2023 (N.d.d.)

Alcuni giorni fa sono andato a vedere la mostra di Ann Veronica Janssens, “Gran Bal”,  all’Hangar  Bicocca di  Milano. In realtà, già che c’ero, ho rivisto quella di Gian Maria Tosatti “NOw /here” a cui ero stato precedentemente, e ho messo piede anche nello spazio mistico in cui si trovano i “sette palazzi celesti” di Kiefer. Bene, se voglio trasmettere a chi leggerà l’impressione che ho avuto,  ricorrendo ad un’ espressione figurata, dico che mi è sembrato di passare in ordine da una celletta asfittica ( la Janssens), a un soggiorno un po’ più arioso ( Tosatti), per approdare infine  a  un immenso spazio selvaggio in cui si respira a pieni polmoni, e cioè nella grande area in cui sono posti i Palazzi di Anselm Kiefer. Premetto che già da un po’ di tempo, di fronte ad alcune espressioni dell’arte contemporanea che trasudano  concettualismo duro come l’acciaio, puntualmente picchio la testa e cado in stato confusionale.

La cosa che però mi lascia veramente interdetto, è il fatto che alla  richiesta di un mio amico di dare un parere sulla mostra, non ho saputo formulare alcun giudizio critico, sia di segno positivo che di segno negativo. Mi sono addirittura sorpreso che qualcuno  abbia chiesto un parere sull’evento, visto che la disabitudine ad affrontare criticamente allestimenti ed esposizioni varie è ormai  prassi consolidata. Insomma, cosa dire: non ho gli strumenti per poter procedere ad una lettura seppur superficiale della mostra? Certo, questa sembrerebbe la conclusione più logica, ma badate, uso il condizionale. Eppure vedo mostre da anni, da sempre pratico gallerie, musei, artisti, leggo d’arte, visito fiere del settore, compro regolarmente Flash Art e altre riviste…quindi cosa accade…boh? Probabilmente, una certa arte mi ha scavato in seno una profonda disillusione, con relativa insofferenza di ritorno. Naturalmente questa mia idiosincrasia non si manifesta per l’arte contemporanea nella sua totalità, ma solo per alcune formulazioni della stessa, e specificatamente  quelle in cui la vetta dell’arido cerebralismo raggiunge il suo zenith;  penso all’arte povera, a quella minimalista a quella performativa a quella installativa e ad altre ancora. Una cosa è certa; la fastidiosetta  frustrazione da cui ero attanagliato precedentemente, visitando mostre analoghe a quella della Janssens, dovuta  alla palese inadeguatezza in cui versavo di fronte ad un abecedario intraducibile, si è via via trasformata in “stanchezza”, una forma di spossatezza  simile a quella che ci investe  quando cerchiamo di decifrare il pensiero di un interlocutore che si esprime in una lingua a noi poco familiare. Una cosa è certa, la terra di nessuno in cui si incontravano  fino ad alcuni lustri fa l’artista e il suo fruitore disarmati e dialoganti, è stata  subdolamente conquistata  dall’esercito dell’arte contemporanea, anzi dai battaglioni d’assalto dell’arte concettuale.

Preciso che, quando scrivo arte concettuale, il mio pensiero  corre, per una forma di riflesso condizionato,  alle prime mostre di arte povera degli anni ‘60, perché è lì, a mio sindacabile avviso,  che l’arte ha iniziato la sua trasformazione  in “regno dell’anarchia”, o meglio, della “cripto-religione”. L’arte concettuale, o almeno, una consistente parte di essa, ha dal suo esordio  presentato una  totale assenza  di attaccaglie emozionali, adottando una anti-espressività dura e pura,  lasciando così  il pubblico senza mezzi ai quali potersi aggrappare per poter effettuare il viaggio del “senso”, tolto  il quale un’opera diventa oscura al punto tale da risultare nulla. L’arte che si fa materia eterea, fortissimamente eterea, e che  non si fenomenizza  più ai nostri sensi,  perde quel carattere di totem di fronte alla quale dovrebbe realizzarsi  la catarsi, la nostra catarsi,  azione primigenia  a cui “forse” essa è destinata.

Volendo metaforizzare ancor di più, potrei dire che si naviga a vista, poiché sono andate perdute le carte nautiche, anzi, sottratte…e potete cominciare ad immaginare da chi. Infatti, noi appassionati d’arte siamo passati dalla consapevolezza della nostra posizione nel firmamento artistico, al mare aperto, in cui la bussola ce l’hanno in mano solo gli operatori del sistema arte; artisti, curatori, galleristi. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che Malevich come tutte le avanguardie artistiche del primo ‘900, fossero anche loro assolutamente distanti dalla sintassi comunemente  riconosciuta e condivisa nel mondo dell’arte dell’epoca, ma non è così. Credo che oggi siano diventati importanti fattori che all’inizio del secolo scorso erano ininfluenti o addirittura  inesistenti e che questi fattori emergenti abbiano trasformato i ruoli e i rapporti tra i protagonisti di tale universo. Alludo naturalmente al  mercato, che all’epoca delle prime avanguardie viveva ancora dei riverberi del mecenatismo ottocentesco, ragion per cui  l’artista, o meglio la sua arte, aveva  ancora un’importanza preminente rispetto al possibile business da essa  generato.  Infine, fatto sta che  il sistema ha  radicalmente e scientemente cambiato il rapporto tra l’artista e lo spettatore, e rivoluzionato addirittura la percezione stessa che il fruitore ha di ciò che è chiamato a valutare. E tutto questo è avvenuto  nell’esclusivo interesse del mondo economico rappresentato,   con la benedizione addirittura di  quelli che vanno alle mostre ma che a causa degli eventi che vado qui descrivendo, hanno sviluppato un senso acritico senza precedenti.

Bisogna quindi  dire che grazie ad una certa  arte concettuale, “truccare” le carte in tavola e togliere allo spettatore ogni appiglio utile a stabilire un giudizio, facendogli per giunta credere di non essere preparato, è stato  come rubare le caramelle ai bambini. Il fossato insomma che divide chi sta arroccato nel castello ( il sistema) e chi vociante fuori di esso pretende il pane ( la partecipazione ) si sta  sempre di più allargando. Ma volendo guardare oltre l’orizzonte delle arti visive, ci sono segnali di distacco abissali anche in altre discipline, tra chi conduce la locomotiva (il sistema delle arti nel suo complesso) e chi rincorre il treno nel tentativo di accaparrarsi l’oro (il messaggio). Anche nel cinema infatti, mi pare che alcuni registi, come Christopher Nolan ad esempio  con “Tenet”,  a cui egli avrebbe dovuto allegare un vero e proprio manuale esplicativo, adottino procedure con canoni calati dal cielo,  del tutto  privi di grammatica codificata, spingendo così lo spettatore su un terreno sdrucciolevole, in cui ogni possibile interpretazione dell’opera si rivela una chimera. Intendiamoci, non si vuole qui perorare la causa di un’arte che non si lanci coraggiosamente  su terreni linguistici scoscesi in cerca  di nuovi orizzonti, ma  si contesta piuttosto  la genuina qualità di opere d’arte scaturite da una forma di onanismo creativo, che non tiene neanche lontanamente in considerazione l’opera come media, e cioè  come tramite tra artista e pubblico. È evidente che nel guazzabuglio che è venuto a crearsi negli ultimi anni, grazie al “liberi i demiurghi di proclamare arte ciò che loro ritengono tale”, ci sia molta, moltissima malafede. Pensando sempre al cinema, mi viene in mente un film che a me è piaciuto moltissimo, e cioè “La grande bellezza”. Ricordo in modo particolare la scena  in cui il protagonista, Jep Gambardella intervista la performer donna che si prende a testate nel muro, chiedendole “conto” della sua opera, senza ottenere una risposta convincente. Anzi, l’intervistata risponde a domande più che plausibili innalzando tra sé e Jep un muro di pretestuosità,  nel vano tentativo di nascondere  il  vuoto di significato della  sua opera,  grande come il mondo. Sappiamo però che nella vita di tutti i giorni,  non tutti i giornalisti hanno l’insolenza di Gambardella  nell’incalzare ostinatamente gli artisti con il fine di farsi spiegare il senso della  loro opera. Anzi, all’interno del sistema odierno di relazioni nel mondo dell’arte, fondato su patti riconosciuti  di non ingerenza,  in nome di un  quieto vivere funzionale al business, vige una specie di “volemose bene ma senza far domande”. Ragion per cui ci tocca spesso prendere come buoni mucchi cavillosi di inconcludenti parole volte  a giustificare operazioni artistiche super discutibili.

Ma tornando alla Janssens, ecco, non mi sogno neanche lontanamente di equipararla  all’artista intervistata da Gambardella, ma dico però, e ne sono certo, che il “sistema” ha oramai preso il sopravvento sulle singole volontà. Semmai, posso tentare di instillare negli altri il dubbio che l’artista, fattosi invincibile grazie al sistema che gli ha costruito intorno una corazza indistruttibile, magari  inconsciamente, si erga a despota assoluto di un mondo autoreferenziale. E in questo mondo fondato su leggi non scritte, che sancisce l’intoccabilità del demiurgo, non spetta certo a quest’ultimo  stabilire un contatto con il pubblico e rendersi  intelligibile, ma è il pubblico che deve sempre e comunque accollarsi il compito di scalare il calvario nel tentativo spesso vano di afferrare il senso  dell’opera. D’altronde, se oramai il sistema dell’arte si configura come una casta, perché i privilegiati di tale casta dovrebbero tenere conto dei dubbi della moltitudine cenciosa e dubbiosa?

Claudio Vitagliano

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