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Campagna interventista PDF Stampa E-mail

5 Febbraio 2024

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 Da Rassegna di Arianna del 3-2-2024 (N.d.d.)

Per chi non ne avesse mai sentito parlare, è d’obbligo una spiegazione. «Formiche» è una rivista mensile che tratta di questioni politiche, economiche e sociali con articoli piuttosto brevi affidati a una larga rosa di specialisti e personalità pubbliche di varia nazionalità ed è collegata a un sito che ospita commenti alle notizie di attualità e interviste. Chi scrive è stato più volte fra gli interpellati. I nomi dei collaboratori illustri non mancano. L’impostazione è dichiaratamente occidentalista, con un occhio di riguardo per la Nato e l’Unione Europea, una vigorosa linea antirussa e anticinese, un interesse acuto per le innovazioni tecnologiche e le loro ricadute – soprattutto geopolitiche. Di solito, i toni di chi interviene sulle sue colonne sono pacati e improntati a un umanismo che, a seconda delle firme, oscilla fra un cattolicesimo alla Comunione e liberazione d’antan e un approccio laico-moderato. I suoi animatori vengono dalla scuola politica del centrismo e, quel che più conta, hanno rapporti eccellenti con gli esponenti più in vista della galassia dei “poteri forti”; un articolo ben informato di una dozzina di anni fa ne enumerava alcuni – Ettore Gotti Tedeschi, Luigi Abete, Francesco Profumo, Corrado Passera –, ma nel frattempo la cerchia si è certamente allargata, a giudicare dalla copiosa messe di sigle importanti (Eni, Enel, Simest, Mundys, Open fiber, Gentili, Conai, Isybank, Tim, Sace) che rende le pagine del periodico «scoppiettanti di pubblicità». Dovrebbero bastare questi dati per rendersi conto che stiamo parlando di un organo di stampa che non ha il semplice obiettivo di raccogliere un certo numero di abbonati, ma è fra quelli che sono destinati a scopi più ambiziosi, sono letti dalla “gente che conta” e servono a far circolare opinioni destinate ad entrare nel mainstream, a dar corpo ad ipotesi, linee di lettura, suggerimenti che altri, insediati a vario titolo in ambiti decisionali, potrebbero trasformare in atti. Insomma, più che una rivista, il canale di espressione di un think tank, e non di quelli secondari.

È per questo motivo che ci hanno destato un particolare interesse – e alcune preoccupazioni – il dossier che occupa la prima parte del numero di novembre 2023 del mensile in questione, dal significativo titolo L’orrore di Hamas oltre i confini di Israele, e soprattutto l’anonimo, e quindi redazionale, editoriale Si vis pacem para bellum. Due tasselli di un mosaico politico-ideologico-informativo che, con l’ausilio di molti altri soggetti rilevanti, comincia a disegnare con maggiore franchezza che in passato la direzione di rotta che la potenza planetaria egemone e i suoi alleati-vassalli hanno deciso di intraprendere in vista delle prossime puntate di quella “terza guerra mondiale combattuta a pezzi” che ormai non è soltanto Papa Francesco a dare per iniziata. L’avvio della discussione affidato ad Antonio Tajani, a onor del vero, parrebbe dimostrare il contrario di quanto abbiamo appena asserito, con l’auspicio del ministro degli esteri che il G7 possa ispirare il proprio operato a «una ritessitura e verso migliori forme di dialogo e cooperazione tra contesti regionali diversi e plurali» e che l’Occidente abbia «capacità di ascolto verso i partner globali, rispettare le differenze e ricercare insieme soluzioni condivise, attraverso un dialogo strutturato e fattivo», perché «il metodo inclusivo del dialogo è l’unico che possa portare a risultati». Quando la messa è finita, però, il coro cambia musica, e i “partner globali” tornano ad essere semplici nemici. Se infatti in teoria l’attenzione dovrebbe concentrarsi su Hamas e il Medio Oriente, alla quasi totalità degli intervenienti interessa tutt’altro: proseguire nella demonizzazione della Russia e nella affabulazione della sua aggressività imperialista, nell’esaltazione della Nato (che, ci assicura un generale, «non deve gettare via il capitale di capacità e strutture faticosamente costruire in vent’anni di guerra globale contro il terrorismo [ah sì? Dove? In Iraq? In Libia? O…? n.d.r.] nel nome di un ritorno al convenzionale»), individuare il “pericolo giallo” cinese dietro ogni vicenda internazionale e di conseguenza allarmare sulla sua minaccia, esaltare la «marcia inarrestabile di avvicinamento strategico all’occidente» di un’India che accentui l’ostilità verso il Dragone Rosso (per fare il gioco dell’egemonia statunitense – ma questo l’ex sottosegretario Vernetti si guarda dal dichiararlo) e ribadire l’insidia di un “Sud globale” non allineato ai valori e agli interessi di Washington. Spicca, in questo quadro, il consueto oltranzismo mistificatore di Carlo Pelanda, capace di scrivere che «la Cina ha reagito sollecitando riservatamente l’Iran ad aizzare i suoi proxy Hamas e Hezbollah» [diamine! Che informatori formidabili deve avere l’«illuminista futurizzante» (autodefinizione) per essere al corrente di notizie a lui solo note] contro Israele affinché la reazione di questa impedisse all’Arabia di siglare un accordo con Israele stessa che definiva Haifa come terminale mediterraneo della via del cotone». Ma anche Carlo Jean ci mette del suo quando, prevedendo ciò che da settimane sta accadendo («un attacco terrestre che provocherà decine di migliaia di morti palestinesi» e sottoscrivendolo, scrive che «prioritario è il ripristino di un certo grado di dissuasione [ah, l’arte dell’eufemismo…, n.d.r.], anche ai fini del consenso di qualsiasi futuro governo israeliano. Israele, in particolare, non può essere limitato nella sua reazione dal ricatto degli ostaggi. […] Non può permettersi di perdere tempo anche perché il sostegno dell’opinione pubblica interna e internazionale è destinato inevitabilmente a diminuire. Non può cedere a ricatti».

Stanti premesse di questo tenore, non c’è da sorprendersi – anche se indignarsene è lecito – che l’editoriale di un foglio che si fa portavoce di un così aggressivo occidentalismo esprima, in modo sintetico e con un finale pirotecnico, quella che non è banalmente la linea di un gruppo editoriale ma la direttrice di marcia di un conglomerato politico-economico che si è ormai convinto di non poter perseguire fino infondo i suoi scopi senza ricorrere (di nuovo) allo strumento bellico.

Leggiamo quindi che «l’attacco terroristico di Hamas contro Israele non è stato e non è la riapertura del conflitto Israelo-palestinese. È, ahinoi, un altro pezzo della terza guerra mondiale denunciata da Papa Francesco. Vi è un blocco di potenze – Cina, Russia e Iran – che ha scelto di sfidare l’ordine globale determinato dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale [ sic: che dai tempi delle conferenze di Yalta e Potsdam ci sia stato qualche elemento di variazione di quell’«ordine mondiale» deve essere sfuggito all’attenzione dell’anonimo scrivano]. E di seguito, continuando nella mistificazione della realtà ad usum Occidentis: «La posta in gioco, ancora una volta, sono i valori della libertà e della democrazia. Per troppo tempo ci siamo illusi che la vittoria della Seconda guerra mondiale prima, e della Guerra fredda poi, avessero consegnato un mondo sostanzialmente stabile, dominato dall’interesse economico della globalizzazione. Non poteva essere commesso errore più grande. Adesso, si vede con chiarezza quel tragico filo rosso che lega i regimi totalitari e che li porta a destabilizzare aree geografiche peraltro tutte attorno all’Europa. I Balcani potrebbero essere la prossima regione a subire l’influenza di Putin. In Serbia il fuoco sembra covare sotto la cenere. Non è un caso. La coalizione dei cattivi [questa ci mancava, dai tempi dell’Asse del Male. Un aggiornamento lessicale ci voleva]» ha colto la debolezza dell’occidente e ne sta approfittando».

Sin qui, siamo alla solita retorica fondata su una falsa e vittimistica rappresentazione degli eventi che tutti i media mainstream ci stanno somministrando da decenni, e con un particolare vigore dal giorno dell’attacco russo all’Ucraina, spacciato per la prima mossa di un fantasmagorico piano putiniano di ricostruzione dell’Impero sovietico e/o zarista invece che come la reazione ad un accerchiamento militare che aveva negli Usa il mandante e nel governo di Kiev la testa di ponte più avanzata. Ma è la chiusa del pezzo a regalarci qualcosa di più. Dopo aver deplorato che gli Stati Uniti non siano già scesi in campo militarmente contro la Russia nel 2014 per la vicenda della Crimea, l’editorialista ci ricorda che «il concetto di deterrenza si basa sulle capacità militari disponibili e sulla volontà (e credibilità) di utilizzarle. È attraverso la deterrenza che l’occidente ha vinto la Guerra fredda ed è la sconfitta della deterrenza (per mancanza di volontà, non di mezzi) che ha favorito l’inizio della terza guerra mondiale a pezzi che oggi si dispiega sotto i nostri occhi. Siamo disposti a morire per difendere la nostra libertà, che è poi la stessa libertà degli ucraini e degli israeliani? Se la risposta sono le sanzioni economiche e l’invio di armi, c’è da temere che il fronte del male si allarghi ancora».

Avete capito bene. Siamo arrivati all’invocazione della guerra aperta. Non bastano più le infusioni di denaro e di armi, il sostegno satellitare e strategico, la condanna al massacro di popolazioni ed eserciti altrui usati come carne da cannone per conflitti sostenuti per procura. Non basta neanche il martellamento mediatico che a suon di propaganda, omissioni e falsificazioni sta sforzandosi di lavare i cervelli di centinaia di milioni di persone ormai, salvo casi rarissimi, assoggettati ad una macchina del consenso che non ha nulla da invidiare – ed anzi gode di una formidabile superiorità tecnologica al loro confronto – ai regimi totalitari. Non basta la cancellazione di ogni limite di indecenza etica che porta politici, intellettuali, giornalisti volontariamente asserviti alla potenza oggi egemone a giustificare lo sterminio (“impersonale”, è arrivato a sostenere qualcuno) di decine di migliaia di civili innocenti compiuto dall’esercito israeliano come una “legittima” reazione alla strage compiuta da Hamas, tacciando ipocritamente di antisemitismo chi lo condanna. No, non è sufficiente. Ora è alle viste una vera e propria campagna interventista. Morire per Kiev. Morire per Tel Aviv. Morire, soprattutto, per Washington. Si dirà che non bisogna dare troppo credito a questi Stranamore in sedicesimo. Che sono, appunto, formiche. Insetti, presenze trascurabili. Magari fosse così. Sarebbe invece errato sottovalutarli. Non sono altro che avanguardie mandate in avanscoperta per sondare il grado di reazione dell’opinione pubblica al progetto che in luoghi assai più temibili si sta coltivando, ma dietro di loro a prepararsi è il grosso delle truppe, non solo metaforiche. Da tempo, ormai – soprattutto da quando, nel 2017, l’ascesa della potenza del gigante asiatico ha portato l’amministrazione Usa, allora guidata da Trump, a dichiarare la Cina «nemico sistemico» – la Terza guerra mondiale, quella vera e intera, è in incubazione. E può contare, in Europa, sul sostegno di un fronte ampio e composito, che sul piano politico coinvolge governi e partiti di destra, di sinistra, di centro. Può dispiacere a qualche inguaribile romantico constatare che, su quel versante, si siano schierati persino i pronipoti di chi in un’altra epoca proclamava la «guerra del sangue contro l’oro», ma non c’è di che stupirsene. Occorre, invece, battersi contro questa follia. Cercare di infilare nell’ingranaggio belligeno dell’occidentalismo anche il fatidico minuscolo granello di sabbia. È l’unica via di uscita che ci rimane. Altre non ne esistono.

Marco Tarchi

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